Trattato sulla plastica: ce la faremo?
Lunedì, a Parigi, si apriranno nuove discussioni a livello internazionale nella speranza, presto, di arrivare a un Trattato (vincolante) sulla plastica sotto l’egida delle Nazioni Unite. Si arriverà, dunque, a una svolta, nonostante le pressioni – crescenti – dell’industria? Di certo, la situazione è tesa. A maggior ragione dopo l’ultimo studio pubblicato da Greenpeace, che prende di mira anche la plastica riciclata: può essere perfino più tossica di quella «normale».
L’idea di un Trattato, leggiamo, risale al marzo del 2022, grazie all’adozione di una risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Un primo passo che, all’epoca, venne definito storico e incoraggiante. Anche perché quel testo considerava l’intero ciclo di vita della plastica: estrazione di petrolio, gas e carbone, produzione, consumo, riutilizzo, riciclaggio e gestione dei rifiuti.
Il testo? È carente
Il testo della risoluzione, tuttavia, ha un difetto formale: non prende in considerazione un abbassamento della produzione, al contrario vitale per evitare che la Terra venga letteralmente sommersa dalla plastica. Le cosiddette microplastiche, oggi, si trovano ovunque: nell’aria, nel suolo, nell’acqua, perfino sulla sommità dell’Everest e nel fondo degli Oceani. In media, senza saperlo, ne ingeriamo cinque grammi a settimana. Come se ci mangiassimo una carta di credito. E poi? Beh, queste microplastiche si insinuano nel nostro corpo, arrivando al sangue e, per le donne in gravidanza, alla placenta.
L’allarme di Humans Rights Watch
Non solo, la plastica riciclata come detto non è la soluzione. A maggior ragione, tenendo presente la sua tossicità, se consideriamo che nel 2019 solo il 9% di tutta la plastica, a livello globale, è stata riciclata. Fra l’altro in stabilimenti e condizioni poco, o per nulla, compatibili con i diritti umani. Human Rights Watch, al riguardo, aveva segnalato il riciclaggio della plastica in Turchia, il principale destinatario dei rifiuti plastici dell’Unione Europea.
Secondo diverse associazioni ambientaliste, un obiettivo vero e concreto sarebbe quello di ridurre la produzione di plastica del 75% entro il 2050. Un obiettivo possibile soltanto se gli Stati sposano una moratoria sulla costruzione di nuove installazioni petrolchimiche legate a questo materiale.
L’industria nicchia
L’industria, tuttavia, sembra sorda a questi appelli. Della serie: pazienza se, al ritmo attuale, la produzione triplicherà da qui al 2060. E chi se ne frega dei 353 milioni di tonnellate di rifiuti (dato del 2019).
Come ha denunciato Greenpeace, i grandi gruppi come Exxon e Shell stanno investendo in maniera massiccia proprio nella produzione della plastica per garantirsi nuove fonti di guadagno. Mentre diversi Paesi riducono la loro dipendenza dagli idrocarburi, «grazie» anche alla guerra, e con l’Unione Europea che ha appena fissato una data di scadenza per la produzione di nuovi modelli di automobili a benzina o diesel, è evidente che queste multinazionali siano di fronte a una sorta di minaccia esistenziale. Una minaccia che la plastica attenua.
E la politica?
Le pressioni esercitate dall’industria e dalle associazioni che rappresentano i nomi grossi della plastica hanno spinto molte organizzazioni non governative a puntare il dito: l’ONU sia più risoluto e convinto nel portare avanti questo Trattato. Così Delphine Lévi Alvarès, coordinatrice del movimento Break Free From Plastic: «Non possiamo permettere che nei negoziati sulla plastica vengano utilizzate le stesse tattiche usate nei negoziati sul clima: negazione, distrazione e ritardo».
Di certo, a livello politico ora come ora sembra mancare l’unanimità. In barba ai rischi per la salute e per il pianeta, Stati Uniti e Paesi asiatici – che da soli assicurano più della metà della produzione – non sembrano così inclini a disegnare un mondo senza plastica.