Tutti i segreti di Matteo Messina Denaro
Matteo Messina Denaro è morto. Assieme ai suoi (tanti) segreti. Dopo la cattura, avvenuta il 16 gennaio scorso, l'ultimo latitante della stagione stragista di Cosa Nostra si era guardato bene dall'aprire il forziere davanti ai magistrati. «Non mi farò mai pentito» il suo monito nel primo interrogatorio. Anche un'altra frase, pronunciata a proposito dei suoi beni patrimoniali, secondo il Corriere della Sera può tranquillamente essere estesa ai retroscena delle trame mafiose che hanno insanguinato l'Italia. «Se ho qualcosa non lo dico, sarebbe da stupidi».
Matteo Messina Denaro sapeva tante cose. Tantissime. Ma non ha mai spiegato i perché che, ancora oggi, accompagnano la storia della Penisola. Come mai, ad esempio, nel marzo del 1992 Totò Riina cambiò idea sull'omicidio già programmato di Giovanni Falcone? Messina Denaro, allora non ancora trentenne, faceva parte del commando inviato a Roma. L'obiettivo? Scovare e uccidere il magistrato, nella capitale per lavorare al Ministero della Giustizia. Dopo qualche giorno, appunto, Riina richiamò tutti in Sicilia. E questo perché aveva messo in piedi un'altra soluzione: la strage di Capaci. Un vero e proprio atto terroristico. Un segnale, anche, di come la mafia stesse cambiando strategia. Non più soltanto vendetta, ma tensione.
Il padrino di Castelvetrano, beh, era a conoscenza delle motivazioni di Riina. E sapeva perché Cosa Nostra decise di proseguire con le stragi per tutto il 1993, anno in cui Messina Denaro entrò in latitanza. Quando il boss si sottrasse al suo primo ordine di arresto, nel mese di giugno, la mafia aveva già seminato terrore nella Penisola. Le stragi di via dei Georgofili a Firenze, il tentato omicidio di Maurizio Costanzo, le bombe di Roma e Milano. Quali gli obiettivi politici da perseguire?
Riina, nel frattempo, era stato arrestato. Ma alle autorità, per certi versi, non riuscì il vero colpo: mettere le mani sull'archivio del "capo dei capi". Di qui un altro mistero, diventato con gli anni quasi una certezza. Ovvero, che quelle pagine fossero finite nelle mani di Messina Denaro. Questo, almeno, hanno raccontato pentiti cosiddetti attendibili. Nino Giuffrè, ex braccio destro di Bernardo Provenzano, consegnatosi ai Carabinieri nel 2002, lo ha detto più volte nei vari processi: «Credo che parte dei documenti presi a casa di Totò Riina siano finiti a Messina Denaro». Quei documenti, tuttavia, dopo l'arresto di Messina Denaro non sono comunque saltati fuori. E il boss, appunto, non ha mai voluto parlarne: «Queste cose io, qualora ce le avessi, non le darei mai».
Altri, come Salvatore Baiardo, hanno ipotizzato che Messina Denaro avesse anche la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita da via D'Amelio dopo la strage. In realtà, a sottrarre quel documento dalla scena del crimine non sarebbero stati uomini della mafia.
In generale, Messina Denaro avrebbe potuto spiegare la transizione della mafia. Da organismo che attacca lo Stato a realtà che torna a conviverci, con Provenzano quale capo, senza bombe o delitti ma con accordi e referenti politici. Oltre agli affari di sempre. Lo stesso Provenzano, secondo la corrispondenza con Messina Denaro sequestrata nel covo dove fu catturato l'allora capo mafioso nel 2006, era diventato un sostenitore della mafia silente. Il modello che adottò proprio U Siccu, come veniva soprannominato Messina Denaro. E che gli permise di sfuggire, per tutto questo tempo, alla giustizi fra collusioni e fiancheggiamenti.
Le speranze di fare luce sui tanti, troppi segreti che custodiva Messina Denaro, ora, potrebbero essere morte assieme al boss mafioso.