«Una coesistenza pacifica sarebbe già un grande passo»

Passa per un impegno serio da parte di tutti l’unica possibilità per arrivare alla pace in Terra Santa secondo il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme.
«In verità parlare di pace qua è impegnativo – chiarisce subito, in apertura di una lunga chiacchierata – più che altro parlerei di coesistenza pacifica. Questo ultimo anno è stato terribile, il peggiore da decenni che sono qui, ci vorrà ancora un po’ di tempo per elaborare quello che è accaduto, ma spero che qualcosa di buono possa nascere, con la collaborazione anche però di nuove persone. L’ho detto tante volte, che sta iniziando una nuova epoca, ma abbiamo bisogno anche di persone che sappiano interpretare questa nuova epoca». Pizzaballa si sofferma a parlare della necessità di cambiare finalmente la narrativa. «Bisogna imparare dagli errori del passato, che nascono anche da lontano, allontanarsi da narrative esclusive, dal rifiuto l’uno dell’altro. Bisognerà lavorare molto, non soltanto sul piano politico, ma anche su quello religioso, consapevoli che non esistono soluzioni perfette, quindi non esiste la pace perfetta». Il discorso non può poi non passare alla necessità di ricostruzione. Specie a Gaza. «Quando parliamo di ricostruzione – precisa il cardinale Pizzaballa – non dobbiamo pensare solo alla ricostruzione materiale, a quella dei palazzi, delle strutture fisiche. Bisogna ricostruire modelli sociali, relazionali con criteri diversi rispetto al passato, che tengano conto dei problemi che ci sono stati, delle crisi. Ci vorrà ovviamente molto tempo». Il cardinale si sofferma anche sul ruolo, in tutto il contesto, della Chiesa cristiana e in particolare quella cattolica. «Sono due mondi, quello sociale e politico, ma non si può escludere la connotazione religiosa. Il conflitto non è inizialmente religioso, è innanzitutto politico, ma ha chiare connotazioni religiose. Noi possiamo aiutare. La presenza dei cristiani, per quanto il nostro numero sia piccolo, dà agli incontri una connotazione di colore diverso – dice Pizzaballa - possiamo diventare coloro che aiutano, facilitano gli incontri, facilitano anche il dialogo nella ricerca di nuove narrative, prospettive, persone. Dobbiamo diventare l’elemento di unione, non avendo come cristiani delle rivendicazioni particolari. Siamo liberi in questo senso. Può aiutare. Però dipende anche da come ci poniamo. È importante che nella nostra relazione, sia con ebrei, con musulmani, israeliani, palestinesi, si sappia trovare un equilibrio e ci sia chiarezza nel dire le cose, ma senza diventare parte di un scontro politico».
Come fare, gli chiediamo, e quale il segreto della presenza dei francescani qui da 800 anni? «Dipende anche da noi sapere far quadrare il cerchio, si deve riuscire in qualche modo a restare dentro, quindi radicati dentro la realtà nella quale noi viviamo, con il nostro popolo, con la nostra gente, ma allo stesso tempo dobbiamo tenere le porte aperte. Il nostro segreto, se così si può dire, è il chiaro senso di appartenenza alla chiesa e poi allo stesso tempo un desiderio di appartenenza alla terra. Quello che dice San Francesco resta diciamo un po’ come regola d’oro per i francescani, ovvero senso di appartenenza alla chiesa e quindi non avere pretese di potere, stare lì per servire, stare con la gente». Quando si parla delle persone, della gente, non si può non spostare la conversazione sul popolo di Gaza e soprattutto dei bambini, che da quasi due anni, dall’inizio della guerra non vanno più a scuola. «Non si può ricostruire senza la formazione, senza un’educazione basilare che ti apra la mente, prima ancora di pensare al cibo, o agli ospedali, bisogna investire sulla scuola e sul futuro dei giovani».
Condanna per il 7 ottobre
Restiamo ancora idealmente a Gaza, dove il cardinale Pizzaballa, dall’inizio del conflitto, ha compiuto, unico a cui è stato permesso di entrare nella Striscia, ben due visite. Cosa l’ha più colpita di queste due esperienze? «Al di là della distruzione, insomma, delle cose che ho visto e che avevo già detto tante volte, quello che porto con me è il volto sereno delle persone che, nonostante abbiano tutti i diritti di essere arrabbiati con il mondo, sono sereni. Ho incontrato tanto desiderio di vita. Questo mi ha colpito molto». E la mente ritorna al 7 ottobre, quando questa crisi ha avuto inizio. Il Patriarca di Gerusalemme è stato uno dei primi a condannare duramente il massacro di Hamas. Senza dimenticare le sofferenze dei palestinesi. Come si è arrivati al 7 ottobre? «Il punto centrale è che la questione israelo – palestinese - dice il cardinale - è sempre stata rimandata perché è complessa, complicata, intricata, coinvolge non solo le comunità internazionali, ma anche i Paesi vicini. E così non solo è stata rimandata ma si sono accumulati rancori, inimicizie, sfiducia. Un mix che poi inevitabilmente prima o poi esplode. Naturalmente questo non giustifica assolutamente quello che hanno fatto». Come fa l’uomo di fede a mantenersi saldo in quest’anno così difficile? «Non è facile. L’ho detto anche in un’omelia, qualche tempo fa, che anche la nostra fede è stata messa alla prova. Ci vuole, come dire, preghiera, ascoltare la parola di Dio, ascoltare le persone, trovare conforto, insomma, anche nelle relazioni giuste che ti aiutano ad allargare il tuo sguardo e poi a guardare avanti». Non mancano parole di speranza, che la fragile tregua possa reggere, trasformandosi in una pace definitiva. Anche con l’aiuto della comunità internazionale. «La comunità locale e quella internazionale – conclude - devono garantire che siano rispettati gli accordi, e questo cessato il fuoco, per quanto fragile, deve andare avanti perché deve segnare il punto di svolta. Non possiamo permetterci di tornare indietro. Ed è compito della comunità politica locale e internazionale vigilare su questo. Bisogna rinascere e tornare a vivere. Anche i pellegrini devono riprendere a tornare in Terra Santa. Anche perché quest’anno siamo nell’anno del giubileo; va bene andare a Roma, però non c’è Roma senza Gerusalemme».