Scenari

Una linea Maginot ai confini con Russia e Bielorussia? «Meglio prevenire che curare»

Polonia e Paesi baltici pensano a un complesso difensivo finanziato da tutta la UE per difendersi da eventuali aggressioni russe – Ma nel mondo della guerra ibrida questa strategia ha ancora senso? Ne parliamo con Mauro Gilli, ricercatore associato al Politecnico di Zurigo ed esperto di tecnologia militare
© AP Photo/Czarek Sokolowski
Giacomo Butti
02.07.2024 09:00

Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia condividono complessivamente, con Russia e Bielorussia, oltre 1.100 chilometri di confine. E questo senza contare l'exclave russa di Kaliningrad, situata fra Polonia e Lituania. Una linea sensibile, lungo la quale – sin da fine 2022 – tutti i Paesi non schierati con il Cremlino stanno lavorando per erigere barriere e scavare fossati. Ma un muro, per quanto rassicurante, ben difficilmente può opporsi alle forze di un esercito intenzionato a sorpassarlo.

Per questo, giorni fa, i leader dei quattro Paesi hanno chiesto, tramite una lettera inviata a Bruxelles, l'istituzione di una linea di difesa comunitaria che separi e protegga l'Unione Europea da possibili minacce militari provenienti da Mosca e Minsk.

L'obiettivo della missiva – si legge su Reuters, che ha potuto visionarne il contenuto – è ottenere il sostegno finanziario dei 27 per una difesa che potrebbe servire a difendere non solo i Paesi di confine, ma l'intero blocco. «La costruzione di un sistema di infrastrutture di difesa lungo il confine esterno dell'UE con la Russia e la Bielorussia risponderà all'urgente necessità di proteggere l'UE da minacce militari e ibride».

Il costo di una simile linea difensiva terrestre, finanziata congiuntamente dai Paesi membri UE, sarebbe stato stimato, secondo Reuters, a circa 2,5 miliardi di euro. Ma un simile investimento, considerate le strategie applicate sin qui nella guerra in Ucraina, sarebbe sensato? Ne abbiamo parlato con Mauro Gilli, ricercatore associato al Politecnico di Zurigo ed esperto di tecnologia militare.

Se non fermare, almeno rallentare

Tutto, ancora, è in divenire e ben poco si sa sulla composizione di un'ipotetica linea difensiva. Senza i dettagli del piano, ci spiega Gilli, «è difficile dare valutazioni approfondite. Ma negli ultimi due anni e mezzo la comunità internazionale ha imparato che i sistemi di difesa possono ottenere risultati importanti sul campo. Si tratta di un aspetto centrale, perché secondo la visione largamente accettata dagli analisti nel periodo che va dal 2011-12 fino all'invasione dell'Ucraina, il mondo doveva essere entrato in una nuova era, quella dei cyberattacchi o dei raid effettuati da droni e missili ipersonici. Un'era instabile, dove fare attacchi militari è molto più facile, economico e non c'è nulla che si possa fare per difendersi». Ma, appunto, la guerra in Ucraina ha spinto a una profonda rivalutazione di questo dogma. «L'offensiva russa andata in scena fra febbraio e aprile 2022 e poi la controffensiva ucraina del 2023 ci hanno mostrato come questa visione della guerra contemporanea sia in realtà falsa. Se una difesa è preparata, ben organizzata, può resistere a un attacco».

Gilli cita l'intervista concessa all'Economist – era novembre 2023 – dall'allora capo di stato maggiore ucraino, Valery Zaluzhny. «Parlò di uno "stallo" della guerra e divenne subito un caso mediatico».Non si trattò di una boutade, o di un errore di comunicazione. «Zaluzhny affermò che sembrava di trovarsi nella Prima guerra mondiale, la guerra delle trincee, dove appunto avanzare era difficile ed estremamente costoso in termini di vite umane. Il suo messaggio era chiaro: viviamo in un sistema nel quale l'offensiva viene resa estremamente difficile grazie alla persistent surveillance, la sorveglianza con sensori che possono monitorare un'area 24 ore al giorno, sette giorni su sette, di giorno e di notte, con bel tempo e cattivo tempo». Il vantaggio è chiaro: la possibilità, con l'avanzare del nemico, di essere immediatamente allertati permette di sfruttare al massimo l'artiglieria di precisione su bersagli vulnerabili, rallentati da «mine antiuomo, mine e fossati anticarro, o dai famosi dente di drago (Dragon's teeth)».

Polonia e Paesi baltici, insomma, vogliono trarre vantaggio dall'esperienza ucraina: «Investire in sistemi difensivi che possano – se non impedire – almeno rallentare significativamente un'eventuale avanzata russa, può quindi cambiare le carte in tavola». L'invasione della Crimea nel 2014, del resto, ha dimostrato che cosa voglia dire farsi cogliere di sorpresa: «Trovarsi dalla sera al mattino un'esercito nemico in casa, un fait accompli militare, rende molto difficile ogni forma di resistenza e opposizione. Specialmente, in Paesi molto piccoli come quelli baltici, se non c'è spazio per arretrare, riorganizzarsi e preparare una controffensiva». Il concetto, insomma, è questo: «Meglio prevenire che curare», conclude l'esperto.

Una linea Maginot, in senso buono

Se il progetto dovesse andare in porto, il sistema difensivo potrebbe estendersi su oltre mille chilometri, superando di gran lunga i 400 della celeberrima Linea Maginot, il complesso di fortificazioni che i francesi realizzarono negli anni Trenta per impedire, dopo quanto successo nella Prima guerra mondiale, una nuova invasione tedesca. Spesso vista come la difesa traballante per antonomasia – l'esercito nazista la aggirò invadendo il Belgio, mettendo rapidamente in ginocchio la Francia –, la Linea Maginot fece in realtà esattamente ciò per cui era stata creata: dissuadere, nei 400 chilometri sui quali si estendeva, le truppe tedesche dal passarvi attraverso. «Spesso non viene compreso lo scopo che ebbe la Linea Maginot. Da un punto di vista operativo, non impediva l'avanzata tedesca, ma strategicamente obbligava a passare dal Belgio, neutrale e sotto la protezione, dettata da trattati precedenti, della Gran Bretagna».

Ora, spiega Gilli, il problema dell'aggiramento su territorio neutrale non si pone, perché i Paesi della regione sono tutti membri NATO. Ma una linea difensiva in stile Maginot potrebbe avere lo stesso effetto dissuasivo. «Senza parlare di miracoli, un complesso difensivo potrebbe rallentare un'eventuale avanzata russa, abbastanza da renderla impraticabile. L'obiettivo, appunto, è evitare il fait accompli di cui parlato prima. Perché se con un'operazione lampo l'esercito russo dovesse conquistare, per esempio, l'intera Estonia in uno o due giorni, come dovrebbe reagire la NATO?». Per l'Alleanza, evidenzia Gilli, essere messi di fronte a un cambiamento repentino dello statu quo creerebbe un problema di credibilità. Accettarlo o imbarcarsi in una guerra aperta e totale? «Il re, a quel punto, sarebbe nudo». Meglio, dunque, rafforzare i confini, dove le cose possono procedere con più calma. Sempre nell'ottica: prevenire e non curare.

Ora in Ucraina

Intanto, in Ucraina, dopo mesi di timori per una nuova avanzata russa, la situazione sembra essersi nuovamente stabilizzata. Un nuovo congelamento del fronte. È merito della decisione, da parte delle potenze occidentali, di permettere l'utilizzo di armi europee e americane sul suolo russo? «Sembrerebbe proprio di sì», risponde Gilli. «Pare che la fornitura di missili a lungo raggio ATACMS a marzo (ufficializzata in aprile, ndr) e poi questo permesso di colpire obiettivi militari in territorio russo abbiano rallentato qualsiasi tipo di avanzata. Nel mese di giugno si sono registrati progressi molto limitati da parte dell'esercito russo. A maggio, quando le offensive di Mosca su Kharkiv si erano intensificate, si temeva che avrebbero portato l'Ucraina a perdite di territorio ben maggiori. E soprattutto si temeva costringessero Kiev a compiere decisioni strategiche molto difficili: concentrare la difesa sulle regioni del Donbass ancora sotto controllo ucraino o puntare su Kharkiv, più vicina alla capitale? Alla fine, questo dilemma non si è posto».

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