L’anniversario

Venti anni di guerra in Iraq sono costati 584.000 morti

All’alba del 20 marzo 2003 gli Stati Uniti bombardavano la capitale Baghdad: era l’inizio del conflitto che avrebbe portato alla caduta di Saddam Hussein - Dopo due decenni il quadrante mediorientale è ancora più convulso
©Reuters
Dario Campione
20.03.2023 06:00

Alle 5,34 di giovedì 20 marzo 2003, prima ancora che il Sole iniziasse a rischiarare i tetti di Baghdad, un missile Cruise colpiva il palazzo presidenziale sulla sponda destra del Tigri. Era il segnale d’avvio di Iraqi Freedom, l’offensiva finale lanciata dall’amministrazione americana di George W. Bush contro il regime baathista di Saddam Hussein.

Poche settimane prima, il 5 febbraio, parlando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il segretario di Stato USA Colin Powell - morto di COVID a 84 anni nel 2021 - aveva pronunciato l’ormai celebre discorso dell’antrace. Ritenuto uno dei più moderati consiglieri del presidente Bush, Powell aveva accusato l’Iraq di possedere armi batteriologiche e mostrato, con un gesto teatrale, una fiala in cui era contenuta una polvere bianca. Nel frattempo, su un grande schermo alle sue spalle, scorrevano immagini satellitari, grafici e foto che «provavano» l’esistenza di un grande programma di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Nulla di tutto ciò era vero. La grande messinscena architettata dai servizi di intellingence americano e britannico serviva soltanto ad aprire ai marines la strada verso Baghdad. Già alla fine dell’estate del 2003, infatti, si scoprì che gran parte delle informazioni e delle ricostruzioni presentate da Powell all’ONU era falsa. I laboratori mobili e gli enormi arsenali di armi di distruzione di massa erano un’invenzione. Pura propaganda. Due anni dopo, nel febbraio 2005, lo stesso Powell definì il discorso pronunciato al Consiglio di sicurezza e l’esposizione degli argomenti forniti dai servizi segreti di Washington e di Londra una «macchia» sulla sua carriera.

Gli obiettivi degli USA erano numerosi: punire Saddam per le complicità con al-Qaida e il presunto coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre; ma anche, creare uno Stato-ponte nel quadrante mediorientale dal quale far germogliare la democrazia; e frenare ogni possibile espansionismo iraniano. Che cosa sia rimasto di quel progetto, è chiaro. Praticamente nulla.

Il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq nel 2011 ha lasciato un vuoto che i militanti dello Stato islamico (ISIS) hanno riempito, impossessandosi di circa un terzo dell’Iraq e della Siria e alimentando i timori tra gli Stati arabi del Golfo di non poter fare più affidamento sugli Stati Uniti. Non solo: la fine del governo di minoranza sunnita di Saddam Hussein e la sostituzione con un governo a maggioranza sciita in Iraq ha consentito all’Iran di approfondire la sua influenza in tutta la regione, specialmente in Siria, dove le forze di Teheran e le milizie sciite hanno aiutato Bashar al-Assad a reprimere una rivolta sunnita e restare al potere.

«Un errore strategico»

L’Iraq e l’Iran sono i due più grandi Paesi del Medio Oriente con una maggioranza musulmana sciita, e gli sciiti sono emersi dalla guerra in Iraq rafforzati rispetto ai loro rivali sunniti, i quali dominano la maggior parte degli altri Paesi arabi. Sotto la dittatura irachena, la minoranza sunnita aveva costituito la base del potere baathista; una volta ucciso Saddam Hussein, l’Iran ha istituito milizie leali all’interno dell’Iraq. Ha anche continuato a minacciare l’Arabia Saudita, le altre monarchie del Golfo e Israele, sostenendo forze come la milizia Houthi nello Yemen e riuscendo così a portare la violenza direttamente alle loro porte.

«La nostra incapacità, la nostra riluttanza, a mettere giù il martello in termini di sicurezza nel Paese ha permesso il caos che ha dato origine all’ISIS - ha detto l’altroieri alla Reuters Richard Armitage, vicesegretario di Stato USA al tempo dell’invasione del 2003 - andare in Iraq potrebbe essere stato un errore strategico tanto grande quanto l’invasione dell’Unione Sovietica da parte di Hitler nel 1941, mossa che contribuì alla sconfitta della Germania nella Seconda Guerra mondiale».

I numeri

A fronte di obiettivi politico-militari non raggiunti, i costi del coinvolgimento degli Stati Uniti in Iraq e in Siria sono stati, sin qui, enormi. Secondo le stime pubblicate la settimana scorsa dal progetto Costs of War della Brown University di Providence (Rhode Island), per le due guerre gli USA hanno sborsato 1.790 miliardi di dollari, comprese le spese del Pentagono e del Dipartimento di Stato, l’assistenza ai veterani e gli interessi per il debito. Se si considerano le cure  sanitarie previste per i veterani fino al 2050, questa cifra sale a 2.890 miliardi.

Sempre secondo i ricercatori della Brown University, i soldati americani uccisi in Iraq e Siria in questi 20 anni sono stati 4.599, mentre i morti totali, inclusi civili iracheni e siriani, militari, polizia, combattenti dell’opposizione, giornalisti e operatori dei mass-media  oscillano tra 550.000 e 584.000. Un’ecatombe. Nella quale non sono incluse le vittime indirette della guerra, ovvero tutte le persone che hanno perso la vita per malattia, sfollamento o fame.

Sfere di influenza

Oggi l’Iraq è diviso e politicamente molto fragile a causa delle fratture tribali e religiose, ma anche dalle mire geopolitiche dei Paesi confinanti.

Nel Nord curdo e turkmeno, il peso economico e commerciale della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan è sempre più evidente. Nell’Anbar sunnita, confinante con la Siria, dominano invece i gruppi legati alle monarchie assolutiste del Golfo - Arabia Saudita, Emirati e Qatar. Mentre nella capitale Baghdad e nel Sud del Paese, la presenza sciita-iraniana è ormai preponderante.

Proprio le milizie sciite, nazionaliste e filoiraniane, tengono in ostaggio il Governo centrale e il Parlamento. Alle ultime elezioni politiche, celebrate nell’ottobre del 2021, il movimento del mullah Muqtada al Sadr aveva ottenuto il maggior numero dei seggi, ma dopo un anno di stallo lo stesso Muqtada ha annunciato il temporaneo ritiro dalla politica e le dimissioni dei suoi 73 deputati, a tutto vantaggio delle fazioni filo-iraniane che, con l’appoggio dei partiti curdi e sunniti, hanno dato vita al governo di Mohammed Shia al-Sudani.

Lo storico Riccardo Redaelli: «Una nazione incapace di definirsi»

Riccardo Redaelli è ordinario di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università Cattolica di Milano e direttore del Master in Middle Eastern Studies dell’Alta Scuola di Economia e relazioni internazionali dell’ateneo lombardo. È tra i massimi esperti di Iraq e sarà tra pochi giorni in libreria con un nuovo volume edito da Brioschi e interamente incentrato sul Paese mediorientale.

«Oggi l’Iraq è una nazione  difficile da inquadrare, anche perché essa stessa sembra incapace di definirsi - dice Redaelli al CdT - Spesso, quando si vuole spiegare un Paese plurale, si ricorre al concetto di mosaico, ma si tratta credo di un concetto scivoloso. Le singole tessere di questo mosaico, infatti, non sono fisse. Ci sono cambiamenti ed evoluzioni costanti. Noi, ad esempio, tendiamo a sopravvalutare la distinzione tra le diverse comunità, pensiamo a differenze inconciliabili tra sunniti e sciiti. Ma un terzo delle famiglie irachene era mista già prima del 2003, c’è una pluralità etnica, religiosa e culturale che impedisce di pensare a comunità chiuse».

Il punto, dice ancora il professor Redaelli, è che per «costruire uno Stato serve uno sforzo dal basso, serve una classe politica unitaria, ma quella nata sulle ceneri del regime di Saddam Hussein è spaventosamente inadatta. Manca completamente un gruppo dirigente che voglia ricostruire la nazione, dentro l’attuale classe politica irachena molti provengono dalle milizie che prolificano nell’instabilità e che quindi favoriscono settarismi e scontri invece dell’unità, senza parlare della loro voracità e della corruzione che li contraddistingue».

Logiche settarie

In Iraq dominano così «i peshmerga curdi e una pluralità di milizie sciite che hanno combattuto prima al-Qaida e poi lo Stato islamico dopo il 2014. Baghdad si è salvata proprio grazie alle milizie sciite, armate e guidate dagli iraniani; milizie che hanno fortemente ibridizzato la sicurezza: sono infatti entrate nelle forze armate mantenendo la doppia fedeltà e si sono pure trasformate in movimenti politici. Siedono in Parlamento ma rispondono a logiche settarie e ai loro padroni».

Anche il ruolo degli Stati Uniti non è più quello di alcuni anni fa. «Gli USA hanno abbandonato l’Iraq da tempo, nel 2003 avevano immaginato di creare uno Stato filo-americano per esportare la democrazia in Medio Oriente, ma il progetto è fallito. Dal 2011 hanno progressivamente lasciato il Paese e, di fatto, la loro capacità di influenzare l’Iraq è bassa. È vero, hanno mantenuto ancora un po’ di truppe, ma più che altro per fare da monito agli iraniani. La capacità di Washington di influenzare la classe politica irachena è molto limitata, come dimostra il fatto che il primo ministro Mohammed Shia’ al-Sudani sia filo iraniano».

Ciò che rimane intatta, dell’Iraq, è l’importanza strategica. «Il Paese è sempre stato uno dei motori del mondo arabo, almeno fino alla guerra dell’80 con l’Iran - conclude Redaelli - Geopoliticamente è al centro del Medio Oriente, e se in passato giocava un ruolo attivo oggi resta comunque un’area di scontro, soprattutto sull’asse sciita, visto che Teheran tenta di utilizzare l’Iraq per spostarsi verso Ovest».

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