Venti anni fa la nascita dell’euro: gioie e dolori della moneta unica europea

C’è un prima e un dopo dell’Unione Europea: prima della moneta unica e dopo la moneta unica. E c’è un prima e un dopo anche dell’euro: prima della pandemia e dopo la pandemia. Quando la storia svolta, quando tutto si modifica d’improvviso senza che sia stato possibile preparare il cambiamento, si comprende appieno la forza impressa dal mutamento. E si valuta, nel contempo, la solidità delle basi su cui poggia l’architrave di una società complessa.
Nel 2016, in un pamphlet molto polemico (“L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa”) tradotto e pubblicato l’anno successivo in italiano da Einaudi, il premio Nobel per l’Economia Joseph E. Stiglitz, scriveva: «Il progetto della “moneta unica” era talmente influenzato dall’ideologia e dagli interessi che è fallito non soltanto dal punto di vista dell’ambizione economica di creare prosperità, ma anche di quella politica di unire i Paesi». E facendo riferimento alla «battaglia per l’austerità», condotta in Europa soprattutto dagli Stati del Nord, aggiungeva: «Anche l’impegno più sincero per giungere all’integrazione economica può produrre un effetto boomerang quando a dettare l’agenda sono dottrine economiche discutibili, plasmate più dall’ideologia e dagli interessi che non dall’evidenza dei fatti e dalla scienza economica».
Poi è arrivata la pandemia. E tutto è cambiato. L’Europa ha scelto di imboccare un’altra strada. Consapevole che politiche restrittive avrebbero condotto alla rovina. Molti sostengono che è stata costretta a farlo. Probabilmente è vero. Ma la sostanza è la stessa. E l’euro, con le sue istituzioni - prima tra tutte, la Banca Centrale Europea (BCE) - ha funzionato.
Ovviamente, i problemi dell’integrazione politica sono affatto risolti. In questo senso, l’analisi di Stiglitz - «L’Europa ha commesso un semplice, comprensibile errore: ha pensato che il modo migliore per arrivare a un continente integrato passasse attraverso l’unione monetaria e la condivisione di una moneta unica» - è tuttora valida. Ma è chiaro che con la pandemia molte cose sono apparse sotto una luce diversa. A partire proprio dall’euro.
I fiori di cameroro
Il primo gennaio 2002, venti anni fa, la moneta unica europea divenne denaro contante in 12 degli allora 15 Stati dell’Unione. Banconote uguali per tutti e monetine con incisioni che richiamavano tradizioni e culture dei singoli Paesi: dal viso del re del Belgio Alberto II, ai fiori di cameroro della Finlandia; dall’aquila tedesca, al mosaico di Sparta; sino al ritratto di Dante Alighieri disegnato da Raffaello e all’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, scelti dall’Italia per i conî più grandi.
Fu una rivoluzione. Soprattutto nelle abitudini della gente comune. Il mondo economico-finanziario, invece, aveva già da tempo assimilato la novità. L’euro era entrato ufficialmente in vigore, come unità di conto virtuale, il 1. gennaio 1999, quando sulla base delle regole fissate dal Trattato di Maastricht 11 Stati dell’UE avevano “congelato” il cambio delle proprie monete nazionali e individuato il tasso di riferimento con la valuta unica.
Oggi, l’euro è la moneta legale della cosiddetta “eurozona”, di cui fanno parte 19 dei 27 Stati dell’Unione: Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna. È anche la moneta ufficiale di Andorra, Monaco, San Marino Kosovo, Montenegro e della Città del Vaticano, e viene utilizzata in Guadalupe, Martinica e Saint-Barthelemy nei Caraibi, a Mayotte e Reunion nell’Oceano Indiano, nelle Azzorre, nelle Canarie e a Madeira.
Valuta internazionale più importante dopo il dollaro, l’euro è la seconda moneta più usata per le operazioni finanziarie internazionali: circa il 39% del volume - escludendo i pagamenti all’interno dell’eurozona - è denominato in euro. Inoltre, è una valuta-rifugio giudicata interessante per gli altri Paesi: nel 2021 (dato aggiornato a maggio), circa il 20% delle riserve mondiali era infatti in euro.
Un risultato raggiunto in un arco di tempo molto più lungo dei 20 anni in cui tutti abbiamo avuto nelle mani le nuove banconote e le nuove monetine. Il primo passo dell’euro risale infatti al 14 ottobre 1957, all’enunciazione formale dei principî dell’Unione Europea, secondo i quali la moneta unica era «un cardine» su cui fondare la futura «comunità politica». Vent’anni dopo, il 13 marzo 1979, nacque il Sistema Monetario Europeo, lo SME, anch’esso a tutti gli effetti progenitore dell’euro - era un meccanismo che fissava i tassi di cambio delle monete tra i Paesi della Comunità europea per limitare la fluttuazione dei cambi bilaterali. E nello stesso anno l’Europa si inventò l’ECU, la prima unità di misura monetaria dell’Unione: non una moneta vera e propria, ma un parametro contabile, che pure lasciava intravvedere il desiderio di arrivare presto alla valuta unica. Oggi immaginare l’Europa senza l’euro è quasi impossibile. Nei singoli Stati resistono sacche di scettici e di contrari - a destra, così come a sinistra - che vorrebbero tornare alle vecchie monete nazionali per motivi differenti.
Ma il processo sembra essere ormai irreversibile, nonostante numerosi passi falsi e non pochi cedimenti.
Un’operazione ambiziosa
Come ha scritto di recente il “Sole 24 Ore” proprio analizzando i primi 20 anni dell’euro, «Il progetto dell’unione monetaria è stata un’operazione estremamente ambiziosa ma anche costellata da numerosi errori, come si è capito con la crisi dei debiti sovrani del 2011-2012. L’euro, che fino a quel momento era stato sempre giudicato come un esperimento positivo, si trasformò in una zavorra perché, avendo ceduto la sovranità monetaria, molti Paesi si trovarono di fatto senza strumenti per affrontare la speculazione finanziaria. Si sa come andò a finire. Il famoso whatever it takes (“faremo tutto il necessario per salvare l’euro”) pronunciato dal governatore della BCE Mario Draghi il 26 luglio 2016, prodromo dell’adozione dello scudo anti-spread (come venne ribattezzato il piano OMT, Outright Monetary Transactions, di cui si sarebbe dotata la stessa BCE), fece cambiare rotta ai mercati. L’euro si salvò». E con esso l’Europa.
Poi, è arrivata la pandemia. E tutto è di nuovo cambiato. Ma questa è una storia che qualcun altro racconterà tra vent’anni.

Il franco e le fatiche di Sisifo della BNS
Una fatica di Sisifo. Così potremmo descrivere il compito della Banca nazionale svizzera da quando è apparso l’euro, visto che si è trovata confrontata quasi continuamente con la difficile sfida di domare la forza del franco. Infatti già dall’inizio la relazione fra franco ed euro è stata difficile, dato che l’apparizione della moneta unica europea (a inizio 1999) ha portato alla «scomparsa» del marco tedesco (nel senso che aveva un cambio fisso con le altre valute dell’Eurozona), per antonomasia moneta forte del Continente. Infatti il nostro «fratello maggiore», la Germania, rappresenta la locomotiva economica europea e per giunta dopo l’iperinflazione degli anni Trenta si era messa come obiettivo assoluto la solidità della propria valuta nazionale. Così il gigante del Nord faceva ombra alla Svizzera, e quando c’erano crisi economiche, pericoli sistemici o incertezze geopolitiche, molti investitori puntavano sul marco, e non sulla moneta elvetica.
Invece con la nascita dell’euro, tutto questo venne a cadere, lasciando l’«ingrato compito» di moneta rifugio al franco svizzero. Da allora la storia è stata un continuo susseguirsi di confronti fra mercati internazionali e Banca nazionale svizzera, intenzionata a difendere l’importante industria di esportazione elvetica.
Nel gennaio 2002 un euro valeva 1,48 franchi. E nei primi anni, vista la buona crescita economica e il surplus commerciale europeo verso il resto del mondo, l’euro si rafforzò contro franco, fino ad arrivare a 1,68 poco prima della crisi finanziaria del 2008. Ma da quel momento, anche se a fasi alterne, per l’euro è iniziata una rapida e inarrestabile caduta.
Infatti, con la crisi finanziaria, il franco si trovò al centro dell’interesse degli investitotri. Peraltro i porti sicuri ormai erano rimasti pochi. Fra questi si contavano lo yen giapponese, qualche moneta scandinava, e l’oro. E chiaramente, il franco svizzero, simbolo di stabilità e di serietà, venne preso di mira, tanto che nell’agosto del 2011, sull’onda della crisi greca e del rischio di una frantumazione dell’Eurozona, l’euro-franco si avvicinava pericolosamente alla parità. Questa situazione spinse la BNS a fissare nel mese di settembre 2011 il tasso di cambio minimo a 1,20 con l’euro. La misura venne annunciata in una conferenza stampa dall’allora presidente della BNS Philipp Hildebrand.
Questo obiettivo venne perseguito attraverso la vendita sul mercato aperto di franchi per acquistare valuta estera, e soprattutto euro. In questo modo, la strategia della BNS ha garantito che il tasso di cambio non scendesse sotto la soglia prevista. Nel dicembre del 2014, alle operazioni di mercato venne aggiunto un tasso di interesse negativo sui depositi pari allo 0,25%.
Bisogna dire che l’industria svizzera resse molto bene l’impatto della forza del franco, tanto che riuscì ancora a mettere a segno alcuni record di esportazioni, malgrado il cambio fosse passato da 1,68 a 1,20.
Poi, il 15 gennaio 2015, la BNS abbandonò improvvisamente il cambio fisso con la moneta unica. Fu un vero colpo di scena, e lo stesso giorno l’euro-franco scese per alcuni momenti addirittura a 0,80 centesimi, per poi riprendersi fino a circa la parità. Inoltre la BNS portò i tassi negativi dal -0,25% al -0,75%. Una misura che era stata definita «temporanea», ma che invece sta durando da sette anni. Da allora l’euro-franco ha avuto un andamento altalenante, arrivando a quota a 1,20 a metà 2018, per poi ripiombare vicino alla parità, come in questi giorni, con il cambio sotto quota 1,04 franchi. Il compito della BNS sta diventando sempre più difficile, anche perché le riserve di monete estere nel suo bilancio si stanno avvicinando ai 1.000 miliardi. Un livello ormai di guardia.
Di Roberto Giannetti