La Terra complessa

«Vi racconto come è nato Israele»

Nella seconda puntata della rubrica del Corriere del Ticino sulla storia di Israele, Palestina e Medio Oriente partiamo dalla colonizzazione degli anni '20-'30 per arrivare alla creazione dello Stato di Israele e alla guerra arabo-israeliana del 1948
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Giacomo Butti
27.11.2023 17:00

Medio Oriente. Dal 7 ottobre, dai sanguinosi attacchi di Hamas ai kibbutz israeliani, il tema è ospite di tutti i media. Israele, Gaza, Cisgiordania. Netanyahu, IDF, Hamas, Fatah e Abu Mazen. E poi Libano, Hezbollah, gli ayatollah iraniani. Nomi di luoghi, gruppi, personaggi, si rincorrono. Ma tutti, nessuno escluso, esistevano ben prima del 7 ottobre: abitavano una regione al centro, da decenni, di tensioni e scontri. Qual è la storia di Israele e della Palestina? Come si è arrivati a questa fatidica data? 

Per rispondere a simili domande in modo accurato, il Corriere del Ticino lancia la rubrica e l'omonimo podcast La Terra complessa. Con l'aiuto dell'esperto di Medio Oriente Benoît Challand, faremo un salto nel passato, ricostruendo in modo fattuale quanto avvenuto nel Levante dalla fine del XIX secolo a oggi.

Articoli e contenuti audio, pubblicati a cadenza settimanale, sono disponibili a questo link. Buona lettura e buon ascolto!

Benoît Challand è professore di sociologia alla New School di New York. Già titolare della cattedra di Storia contemporanea all'Università di Friburgo, Challand ha insegnato anche alla New York University, alla Scuola Normale Superiore di Firenze e all'Università di Betlemme. Vanta numerose pubblicazioni sulla storia e società civile del Medio Oriente, alcune delle quali edite dalla Cambridge University Press.

Puntata 2 - Anni '30, Seconda guerra mondiale e Nakba

Prof. Benoît Challand. © The New School
Prof. Benoît Challand. © The New School

Eccoci arrivati alla seconda puntata di La Terra complessa. Avevamo concluso il primo episodio parlando delle tradizioni religiose nate non dalla cultura palestinese ma dalle imposizioni delle potenze coloniali. Oggi – ce ne scusiamo già con i nostri lettori e ascoltatori – la discussione sarà leggermente più lunga, ma promettiamo di fare di tutto perché resti un'eccezione. Sono anni, quelli che stiamo per affrontare, particolarmente importanti per la storia della regione. Partiamo dagli anni '20-'30 parlando dei processi di colonizzazione. 
«La Prima guerra mondiale ha effetti agghiaccianti anche in Medio Oriente, in particolare con episodi gravi di carestia. La fine del conflitto (1918, ndr) ha portato un po' più di stabilità economica, ma la regione rimaneva fortemente legata all'agricoltura. In questa fase, l'Impero britannico ha puntato sullo sviluppo di una rete ferroviaria in Palestina. E a queste ferrovie si vedono ebrei, palestinesi e arabi lavorare insieme. Esistono, allora, progetti che mettono sullo stesso piano le popolazioni e sindacati dove l'appartenenza nazionale, etnica o religiosa non ha nessun impatto. Siamo in un'epoca dove la solidarietà internazionale socialista si diffonde in tutto il mondo. È qui che la leadership dello Yishuv, la comunità ebraica nella Palestina storica, capisce che, se vuole creare uno Stato per il sionismo, un passaggio importante è la nazionalizzazione del lavoro. Progressivamente, dunque, vengono ideate strutture di lavoro accessibili esclusivamente a ebrei. Si assiste, insomma, a una polarizzazione che si realizza, parzialmente, attorno alla questione del lavoro. In questa fase, la comunità ebraica cerca di finanziare la realizzazione di fattorie collettive con un modello importato dall'Europa che, tuttavia, inizialmente non ha successo: si trattava, infatti, di progetti agricoli non adatti al clima del Medio Oriente. Per questo l'attenzione si sposterà su un altro tipo di coltura, quella degli agrumi, che darà vita al commercio delle famose arance di Giaffa. Una città portuale, quella di Giaffa, dalla quale i palestinesi avevano molto commerciato con l'Europa. Per illustrare l'impatto di questa idea della nazionalizzazione del lavoro, possiamo citare la nascita di una città qualche chilometro a nord di Giaffa: Tel Aviv. Il nuovo porto doveva aiutare l'ebraizzazione del lavoro, creando una struttura urbana, politica ed economica distinta e separata. È così che, a poco a poco, sotto il mandato britannico (1920-1947), si separano agricoltura, economia, demografia. Il tutto mentre lo Yishuv cresce politicamente e anche demograficamente, dato che la migrazione a ondate di ebrei europei – ricordo il concetto di aliyot (singolare: aliyah, vedi Puntata 1, ndr) – avviene in numeri sempre maggiori. Dopo la Prima guerra mondiale arrivano circa 10 mila ebrei all'anno, con un picco di migrazione tra il 1926 e il 1927, quando sono oltre 30 mila. Questo crea stress  sulla comunità palestinese, con un territorio scarsamente popolato che all'improvviso si riempie di migranti europei. Per questa ragione i britannici limitano la migrazione nella fine degli anni '20, e di conseguenza si assiste all'arrivo di solamente 5 mila ebrei europei all'anno. Negli anni '30 la situazione cambia nuovamente. Con l'ascesa del nazifascismo in Europa, la pressione sulla regione torna a salire e negli anni fra il 1932 e 1936 si assiste all'arrivo di almeno 30 mila migranti ebrei all'anno, fino a un picco di 65 mila fra il '35 e il 36. Una spinta economica e demografica, sotto il mandato britannico, che porta all'inizio di grandi lotte fra la comunità palestinese e quella ebraica ».

È in questa fase che avviene la Grande rivolta araba.
«Sì, per l'epoca, il caso più famoso di violenze è la Grande rivolta araba del 1936-39. Tre anni di subbuglio, quasi una guerra civile, dove i palestinesi insorgono contro un sistema britannico percepito come "tutto in favore dello Yishuv". Nella storiografia israeliana questa rivolta araba viene presentata come un pogrom, una forma di violenza contro gli ebrei come quelle che hanno caratterizzato l'Europa dell'Est nell'Ottocento. Ma una simile caratterizzazione sarebbe sbagliata. A parte un caso a Hebron, non è esistita in questa Grande rivolta araba una violenza contro la comunità ebraica perché tale. Nella grande maggioranza dei casi si è trattato di violenze contro l'ordine coloniale, dunque di palestinesi che prendono le armi contro i britannici e contro la comunità coloniale ebraica in crescita e favorita dall'impero britannico. A tal proposito, consiglio il libro di Vincent Lemire, La soif de Jérusalem (La sete di Gerusalemme, ndr), che tratta il problema dell'acqua nella regione. Spesso, pensiamo alla Palestina come a un deserto, un posto senz'acqua. In realtà, la dorsale nella zona di Gerusalemme – le cui alture arrivano a toccare i 1000 metri d'altitudine – frange le nubi portando tanta acqua alla regione. Per qualcuno potrà essere una sorpresa sapere che piove più a Gerusalemme che nel mezzo della valle del Rodano, a Sion. A Gerusalemme cadono 640  mm di pioggia all'anno, in quelle zone del Vallese solo 600. Dunque c'è parecchia acqua che permette la coltivazione dell'olivo e di tante altre piante. Contrariamente all'idea sionista di un "deserto in cui non cresce niente", la Palestina era da sempre in grado di alimentare una produzione agricola sufficiente per la popolazione e anzi, di un surplus che, ne parleremo in seguito, aveva reso ricca la città di Gaza. Il problema si è manifestato nei decenni '20 e '30, quando un dimezzamento delle piogge ha causato un forte stress idrico nella regione. E allora, confrontando i grafici della storia della migrazione ebraica con quelli della pluviometria della regione, ci si rende conto che ai picchi di immigrazione corrisponde un periodo dove c'è stata poca pioggia. Una casualità, ovviamente, che ha, tuttavia, creato una lotta per le risorse. Poche risorse in un momento di stress politico e demografico: la Grande rivolta va letta anche in questa chiave materiale.

La Grande rivolta araba? Non un odio contro gli ebrei in quanto tali, ma una ribellione contro l'ordine coloniale britannico e le difficili condizioni economiche, demografiche, materiali, createsi

Com'è legata la rivolta ai grandi sviluppi europei e internazionali?
Nei famosi accordi di Monaco del settembre 1938, Chamberlain (allora primo ministro del Regno Unito, ndr) va a Monaco e strappa un accordo da Hitler per non invadere la regione Sudeta e rimandare, in sostanza, l'inizio della Seconda guerra mondiale. Sui libri storici e sulle enciclopedie tali accordi vengono solitamente letti in chiave europea. Ma un collegamento può essere tracciato fra la concessione che fece Chamberlain nel 1938 (vista come un regalo a Hitler) e la situazione in Medio Oriente. La Grande rivolta araba rappresentava la più grande insurrezione anticoloniale nell'Impero britannico e il Regno Unito aveva bisogno di soldati per controllare la situazione. Vediamo insomma, ancora una volta, che gli sviluppi in Palestina sono condizionati dalla politica europea, che crea problemi, conflittualità e, infine, repressione contro la popolazione araba. Dunque questo è il modo in cui può essere letta la Grande rivolta araba: non come un caso di odio comunitario contro gli ebrei in quanto tali, ma una ribellione contro l'ordine coloniale britannico e le difficili condizioni economiche, demografiche, materiali, createsi. È in questi anni, tra l'altro, che nello Yishuv nascono movimenti terroristici che prendono di mira gli stessi britannici. Ci sono episodi abbastanza famosi in tal senso, come l'attentato all'Hotel King David a Gerusalemme effettuato dalla Banda Stern nel '46. Si diffonde, insomma, una violenza ebraica che terminerà con la guerra del '47-'48.

Parlare di antisemitismo per la Grande rivolta araba sarebbe dunque errato?
«Esatto. Gli ebrei hanno sempre fatto parte della storia dell'impero ottomano, del mondo arabo e musulmano. Una convivenza non sempre perfetta, ma reale. Non si tratta dunque del rifiuto di una persona in quanto ebrea, ma il rifiuto del progetto politico che cambia radicalmente il sistema economico, sociale, culturale e politico. Sociologicamente, la grande ondata di violenze registrata prima e durante la Grande rivolta presenta degli aspetti interessanti. Tra questi anche il fatto che la rivolta vede le campagne della Palestina schierarsi contro la borghesia palestinese che sembrava accettare il mandato britannico e i privilegi derivanti. Non si può definire esattamente una costante, ma parte dell'élite si dimostra più pronta ad accettare l'accomodarsi della realtà coloniale. Per questo i sollevamenti degli anni '20 e '30 e la Grande rivolta araba del '36-'39 contano su importanti figure rurali. Una figura famosa proveniente da questo ambiente è Izz ad-Din al-Qassam, un predicatore musulmano nato al di fuori della Palestina (Siria o Libano, non è ben chiaro) che nella zona di Jenin, nel nord della Cisgiordania è in grado di creare un grande movimento popolare di rivolta. Al-Qassam era un rappresentante dell'antisionismo, ma anche dell'anticolonialismo in generale. Prima di operare in Palestina, si muoveva tra Libano e Siria per alimentare la ribellione contro l'autorità francese. Ucciso dai britannici nel '35, sarà una figura di ispirazione per Hamas e soprattutto, qualche anno dopo, per la sua ala militare che prenderà proprio il nome di Qassam». 

Le potenze alleate, che durante la Seconda guerra mondiale hanno fatto poco o nulla per salvare gli ebrei dalla Endlösung nazista, decidono di favorire la nascita dello Stato ebraico. Ma sul terreno la situazione è già compromessa e i palestinesi non vogliono pagare per un errore europeo

Arriviamo alla Seconda guerra mondiale. 1939-1945. Gli anni in cui in Europa – per mano della Germania nazista e dei suoi alleati – si consuma il genocidio degli ebrei. Che effetto ha avuto questo terribile evento sulla seguente nascita dello Stato di Israele?
«Nel corso della Seconda guerra mondiale, la maggioranza della comunità ebraica europea viene distrutta. Sei milioni di persone vengono uccise nell'Olocausto. Quando il conflitto termina, le potenze alleate europee realizzano che poco o nulla è stato fatto per salvare gli ebrei dalla Endlösung nazista, la "soluzione finale" tedesca. Per questa colpa, la comunità internazionale decide di favorire la creazione di uno Stato ebraico. Fra i sopravvissuti all'Olocausto si fa più forte il bisogno di lasciare l'Europa e ripartono così le ondate migratorie verso il Medio Oriente. Ma qui la situazione sul terreno è già degradata e per i palestinesi l'arrivo di decine di migliaia di ebrei rappresenta un nuovo problema. Nel mondo arabo, il pensiero è sostanzialmente questo: "Voi europei avete creato questa tragedia. Voi non siete stati in grado di mettere fine alle mire di Hitler, di fermare la sua follia distruttrice. Perché dovremmo essere noi a pagare il prezzo di un errore europeo?"».

Come si svolge allora la fondazione dello Stato israeliano e la conseguente guerra?
«Nel 1947, l'Impero britannico si sgretola. L'Inghilterra, si trova senza risorse, abbandona l'India e non è più in grado di gestire il mandato in Palestina. Per questo, si ritira e lascia il dossier alla neonata organizzazione delle Nazioni Unite. Questa manda sul posto una commissione di investigazione per capire come muoversi. Nel novembre del 1947, le Nazioni Unite propongono un piano di spartizione in cui la popolazione ebraica, una minoranza, avrebbe avuto accesso alla maggioranza del territorio. Il piano viene rifiutato da parte dei Paesi arabi circostanti: Egitto, Libano, Siria e Giordania. I palestinesi invece, non hanno diritto di partecipare alla discussione in quanto non sono uno Stato riconosciuto. Nonostante il rifiuto arabo, i britannici annunciano la partenza entro sei mesi e infatti nel maggio '48 lasciano tutto in mano alla comunità internazionale. Fra il novembre '47 e i primi mesi del '48 cominciano già delle ostilità fra comunità ebraica e palestinesi. Ma il grosso del conflitto avviene a partire dal maggio '48, quando Ben Gurion, il leader dello Yishuv, dichiara la creazione dello Stato d'Israele, aprendo la guerra d'indipendenza. Per Israele si tratta di un conflitto giocato in parte in maniera difensiva, in parte offensiva». 

Fuggiti di propria idea o costretti dagli israeliani a lasciare le proprie terre? Il dibattito storiografico sul diritto al ritorno dei palestinesi è ancora aperto

La storiografia israeliana come ha descritto questa guerra?
«Nella storiografia israeliana questa guerra viene descritta come uno scontro "Davide contro Golia", un piccolo Stato – appena nato e non armato – attorniato da una giungla violenta di Stati arabi ben attrezzati e pronti a distruggerlo. In realtà, lo dimostrano i rapporti sugli armamenti, non andò proprio così. Egitto, Transgiordania, Iraq e Siria erano mal preparati e con progetti non chiari. Nasser, il famoso leader egiziano che all'epoca era un soldato stanziato a Gaza, racconta nelle sue memorie di essersi trovato al fronte senza una leadership militare competente, senza sapere cosa fare o dove andare. Israele, invece, aveva già ottenuto armamenti dalla Cecoslovacchia perché sostenuto da Stalin, che vedeva una natura socialista nel progetto ebraico. Il risultato: Israele vince e firma degli accordi di armistizio – non di pace! – con i quali tutti i vicini riconoscono il cessate il fuoco». 

E qui entra in gioco una parola celebre: nakba.
«Per i palestinesi, sconfitti, la guerra diventa una "nakba", parola araba che significa "catastrofe". Alla fine del conflitto, Israele non si trova soltanto a controllare i territori assegnati dal piano di spartizione del '47, ma si espande alla Linea verde risultante dall'armistizio del 1949. Israele prende il 78% dei territori della Palestina storica (contro il 40% della popolazione), e 750 mila palestinesi – costretti a fuggire fra Libano, Giordania, Siria – diventano profughi. Circa 200 mila arrivano alla Striscia di Gaza, mentre altri si rifugiano in Cisgiordania. E qui si potrebbe parlare a lungo sulla natura di questi spostamenti: sono stati i leader palestinesi a dire al popolo di fuggire? O si è trattato di una violenta imposizione israeliana? Ovviamente siamo in un contesto di guerra, di violenza, in cui la popolazione deve fuggire, ma fugge senza essere forzata dalle armi. È ancora aperto dunque il dibattito storiografico sulla partenza dei palestinesi e sul loro diritto al ritorno».

Gaza era ricca e possedeva un ampio hinterland. La perdita di territori del 1948 ha tagliato fuori la Striscia dall'accesso all'acqua, trasformandola in quello che è oggi

E Gaza, in tutto ciò?
«La Striscia di Gaza, questo piccolo lembo di territorio di 42 chilometri di costa lungo il Mediterraneo per 14 chilometri di profondità, è un risultato della guerra del 48. Se guardiamo al piano di spartizione del '47, tuttavia, Gaza doveva essere una zona molto più profonda. La città di Gaza allora era un porto importantissimo e ricco. Possedeva un ampio hinterland (arrivava fino a Be'er Sheva) che, con l'acqua raccolta dai monti di Gerusalemme, permetteva la coltivazione di grano duro, sorgo, cotone. Ma la perdita di questi territorio taglia fuori Gaza dalla sua fonte d'acqua e di ricchezza, trasformandola nella Striscia che conosciamo oggi. È in questa zona che si sviluppano alcuni insediamenti israeliani tra i quali si contano quelli delle terribili stragi del 7 ottobre».

Abbiamo cominciato parlando delle ferrovie britanniche e della collaborazione fra palestinesi ed ebrei. Che cosa rimane di questo spirito?
«I palestinesi che praticavano i lavori più umili nella rete ferroviaria, come la manutenzione, perdono il proprio lavoro. A loro subentrano gli ebrei orientali provenienti da Siria, Yemen, Iraq e poi dal Marocco. E qui assistiamo a uno sviluppo interessante, a forme di razzismo all'interno della stessa comunità ebraica. Tutta l'élite politica nello Stato di Israele è infatti composta da ebrei ashkenazi (provenienti dall'Europa, ndr), mentre il proletariato è composto da ebrei orientali, i cosiddetti mizrahìm ("orientali"). Se ne parla poco, ma esiste una stratificazione di classe abbastanza importante all'interno dello Stato di Israele che perdura almeno fino agli anni '70. Lo Stato di Israele è fatto di fratture interne, ma nel contesto di un ambiente ostile come quello del '47-48, riesce a trovare l'unità e vincere la guerra di indipendenza. Intanto, i palestinesi continuano a soffrire delle divisioni intra arabe e non sono in grado di decidere per se stessi il proprio futuro».

  La pubblicazione più recente: Violence and Representation in the Arab Uprisings, Benoît Challand, Cambridge University Press, 2023  

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