«Vi racconto come vivono, davvero, le donne in Afghanistan»
Quando le chiediamo di raccontarci com'è cambiata la vita del popolo afghano da quel 15 agosto 2021, la faccia di Shakiba si fa cupa. «La caduta di Kabul». Basta nominarla e subito quel sorriso timido e cortese che, fino a pochi istanti prima, le aveva illuminato il viso, si spegne. Sospira, profondamente. Poi inizia a raccontarci di quell'incubo senza risveglio che è la quotidianità della popolazione afghana. «Negli ultimi tre anni la situazione è divenuta catastrofica. Gli Stati Uniti hanno consegnato il governo dell'Afghanistan a quegli stessi talebani che dicevano di star combattendo, e dei quali ora vogliono dipingere una versione più moderata». Ma non c'è nulla di moderato nelle politiche dei talebani, sempre più violenti – anzi – nei confronti della popolazione, specialmente femminile. Lo scorso mese di agosto, per fare un esempio, i talebani hanno imposto una nuova legge con la quale vietare alle donne di parlare in pubblico: solo una delle disumane regole, contrarie ai diritti umani, volute dal gruppo fondamentalista. «I talebani sono fondamentalisti. Sono cresciuti nelle madrase (scuole islamiche, ndr) afghane con la mentalità del terrorismo e della lotta alle donne». Donne alle quali, per fare un altro esempio, non permettono di studiare. Donne che oggi sono costrette a nascondersi per aver accesso all'istruzione. Donne che oggi, nella società afghana, hanno perso ogni diritto. Donne come Shakiba, che oggi si racconta, protetta dall'anonimato, mostrando al mondo che cosa significa, davvero, vivere in Afghanistan oggi. Sotto il regime dei talebani, in un Paese senza libertà.
La voce di RAWA
Con Shakiba ci troviamo negli stabili dell'USI: è qui per raccontare agli studenti – in un paio di corsi proposti dall'ateneo – la propria storia. Non è la prima volta che lo fa: da qualche mese, con il sostegno del CISDA (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane), gira varie strutture fra Italia e Germania. Poi tornerà in Afghanistan, a combattere per i diritti delle donne e non solo. Lei fa parte di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan): un'associazione «clandestina» – fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal – che da più di quarant'anni è attiva in ambito politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana. È per questo che a noi si presenta con uno pseudonimo, chiedendo di non essere fotografata in viso: «Se queste informazioni dovessero arrivare ai talebani, al mio ritorno sarei imprigionata».
Shakiba ci racconta di RAWA: «I nostri obiettivi e le nostre idee si fondano su principi come la libertà, la democrazia e l'indipendenza, ma anche su un governo laico. Per queste ragioni, siamo sempre stati visti come "clandestini", e siamo sempre sotto continua minaccia», ci racconta. Anche con Ashraf Ghani al potere, il presidente che fu poi rovesciato dai talebani, le donne di RAWA si sono opposte al governo e alle sue politiche «sbagliate». «Manifestavamo e alzavamo la voce attraverso i media, il nostro sito web e la nostra rivista. Siamo state noi a sensibilizzare l'opinione pubblica, mostrando la reale situazione dell'Afghanistan in quel periodo». Superficialmente, racconta, tutto sembrava andare bene. Ma anche prima della caduta di Kabul, la situazione in Afghanistan era tutt'altro che idilliaca. «Alle donne era permesso andare a scuola e lavorare. Ma l'Afghanistan stava già diventando un centro di terrorismo». Migliaia e migliaia le vittime di una guerra mai sopita, mentre i talebani crescevano sempre più forti, finanziati da un mercato illegale, quello dell'oppio, da loro controllato. Al momento della caduta di Kabul, l'80% della produzione mondiale di oppio mondiale passava dall'Afghanistan. «La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell'Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo».
Ed è qui che entra in gioco RAWA. «È nostro dovere parlare e fare pressioni sui governi in tutto il mondo, per non riconoscere il governo dei talebani, per non finanziarli e non sostenerli». Come? Attraverso i social media. Sì, la protesta e l'opposizione, a poco a poco, si è spostata soprattutto nel mondo virtuale. Prima, quando i talebani erano appena tornati al potere, Kabul era piena di persone in protesta, tra le quali molte donne. Alzavano la voce, si facevano sentire. Ma mese dopo mese, le piazze si sono svuotate. «Oggi sono pochi i gruppi che scendono ancora per le strade. Dopotutto, è risaputo: i talebani hanno il potere, e lo usano anche e soprattutto attraverso le armi, con cui disperdono le persone che manifestano». Se non sono pistole, racconta Shakiba, sono enormi cisterne d'acqua, rovesciate sui manifestanti. Ma c'è di molto peggio. «Protestare è molto pericoloso: le donne che manifestano spesso vengono imprigionate, torturate e violentate nelle carceri». Di qui lo sviluppo social: «Ormai, chi sceglie di manifestare lo fa attraverso i social media. È il modo più semplice, al momento, per far sentire la propria voce e per informare e sensibilizzare le persone, mostrando quella che è la reale situazione dell'Afghanistan». C'è chi scrive poesie, chi saggi. Chi rilascia dichiarazioni, chi propone slogan. Con la speranza che le proprie parole arrivino il più lontano possibile.
«Il lavaggio del cervello»
Fuori dal mondo social, però, la situazione è sempre più fuori controllo. «I talebani cercano di fare il lavaggio del cervello a tutti nelle madrase. Ce ne sono più di 17.000 in tutto il Paese e continuano ad aumentare, giorno dopo giorno. In ogni strada se ne trovano tre, quattro, cinque. Vogliono rendere i bambini di oggi futuri talebani e futuri terroristi. Non è un caso che le madrase siano uno dei pochi posti in cui anche le donne sono ammesse, senza alcun divieto». Se l'unico studio ammesso è quello religioso, come crescere la società che verrà? Chi guiderà il Paese senza competenze? «Tutto ciò è molto pericoloso per il futuro dell'Afghanistan. Per questo RAWA ha deciso di fondare scuole clandestine nelle quali insegniamo scienze e matematica, ma anche storia e materie sociali, o come usare un computer». Sono scuole segrete, dove si convive, ogni giorno, con la paura di essere scoperti. «Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne, alle quali non insegniamo solo materie scolastiche. Cerchiamo di sensibilizzarle anche sui loro diritti, sulle questioni sanitarie e di diverso genere che pensiamo siano importanti per loro. Facciamo il possibile per non farle vivere nell'ignoranza, sotto queste leggi medievali».
In tutto questo, le donne, però, non sono sole. «Le nostre opinioni sono incoraggiate da molte persone, perché la maggior parte del popolo è stufa del potere del fondamentalismo e non vuole più vivere sotto il controllo di un governo così selvaggio, criminale», confessa Shakiba. «È anche per questo che RAWA è attiva da più di quarant'anni: la gente è al nostro fianco. Le persone sono la ragione per cui siamo state in grado, per tutto questo tempo, di lottare e combattere».
Chi sceglie la fuga
Ma in Afghanistan, a non funzionare, non sono solamente i diritti umani. Quando a così ampie fette di popolazione non è consentito lavorare, portare tutti i giorni il cibo in tavola è, quantomeno, difficile. «Un altro grosso problema è quello della disoccupazione. La maggior parte delle persone ha perso il lavoro e oggi ci troviamo di fronte a una grande percentuale di disoccupati. Negli ultimi tre anni, i talebani hanno rimosso le persone dagli uffici governativi, mettendo a capo i loro uomini». Grandi percentuali della popolazione, insomma, vivono in povertà. Una condizione che mette le donne, specialmente le vedove, in una situazione di profonda crisi nella quale sfamare i propri figli è divenuta una lotta quotidiana.
Come non pensare, allora, alla fuga? Tre anni fa, quando gli americani se ne stavano andando, avevano sconvolto il mondo intero le immagini di afghani che, terrorizzati dal ritorno dei talebani, si aggrappavano ai carrelli degli aerei in procinto di lasciare il Paese. Alcuni, con la forza che solo la disperazione può dare, rimanevano avvinghiati finché i velivoli si sollevavano da terra: pochi secondi dopo, sconfitti dalla fisica, cadevano nel vuoto, verso la propria morte.
Oggi, la situazione non è molto diversa. Alcuni, ancora, provano a lasciare l'Afghanistan. Ma come? «Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi. Tanti giovani, soprattutto uomini, percorrono queste strade diretti verso il Pakistan, l'Iran, la Turchia e la Grecia, oppure verso i Paesi occidentali, con il solo scopo di trovare un posto sicuro dove vivere. Migliaia, però, perdono la vita nel tentativo di lasciare l'Afghanistan. In ottobre, più di 250 giovani afghani sono stati uccisi a colpi di pistola al confine tra Iran e Afghanistan». Andarsene, evidenzia Shakiba, non è solo rischioso: è anche costoso, e burocraticamente complesso. «Solo una piccolissima percentuale di persone riesce a ottenere un visto, spesso grazie all'aiuto di ONG o associazioni in cui magari si ha lavorato in passato. E poi ci sono Paesi che non concedono visti agli afghani, come la Turchia e l'India. L'unico modo per riuscire a scappare molte volte, è quindi il contrabbando. Ma questa, chiaramente, è una situazione molto pericolosa».
La solidarietà del popolo, l'indifferenza dei governi
In Afghanistan c'è amarezza per l'operato delle Nazioni Unite. Fra fine giugno e inizio luglio 2024 – ne avevamo parlato qui – i vertici ONU avevano convocato la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan) piegandosi all'imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit. «A noi era ovvio fin dal primo giorno, fin da quel 15 agosto del 2021, che le Nazioni Unite stessero trattando con i talebani. Hanno consegnato loro il governo, senza alcuna lotta, senza alcuna resistenza», commenta amaramente Shakiba. «I documenti che l'ONU rilascia non servono a nulla. Bisogna fare dei passi concreti. Se l'obiettivo è davvero quello di aiutare il popolo afghano bisogna introdurre delle misure, e smettere di finanziare i talebani. Solo in questo modo la nostra situazione cambierà». Un resoconto pubblicato a inizio anno dal SIGAR (Office of the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, organo del governo statunitense che si occupa di monitorare la ricostruzione dell'Afghanistan), mostra come i contanti statunitensi inviati a Kabul dall'ONU per sostenere le attività umanitarie nel Paese finiscano, spesso, sotto il controllo dei talebani, finanziandone le operazioni.
Quanto all'aiuto da parte degli Stati Uniti, Shakiba è disillusa. L'elezione di Trump come nuovo presidente, a suo dire, non cambierà le carte in tavola. «Per noi non cambierà nulla. Non importa se il presidente è una donna, un afrodiscendente, se è Donald Trump, Kamala Harris o Joe Biden. Chiunque salga al potere, negli Stati Uniti, deve seguire la stessa linea politica. E sebbene presidenti diversi possano prendere iniziative diverse per la propria nazione, la loro politica estera non cambia davvero». Nonostante da parte delle Nazioni Unite un aiuto concreto stenti ad arrivare, Shakiba riconosce le buone intenzioni del popolo, da tutto il mondo. «Quando pensiamo al sostegno che riceviamo, dividiamo sempre i governi dalla gente comune: i primi, a nostro avviso, si comportano in maniera crudele verso l'Afghanistan, mentre il popolo, che ama la libertà, è sempre stato accanto a noi». Anche se, chiaramente, con dei limiti. «L'unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l'opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano. I cittadini dei Paesi europei e occidentali possono solo alzare la voce e stare vicino al popolo afghano, senza dimenticarlo». Giorno dopo giorno, l'Afghanistan si sente infatti sempre più abbandonato. Messo da parte. Vittima di un'immagine, quella di un Paese in mano a talebani "moderati" che non corrisponde alla verità. La verità di un Paese senza libertà.