Vladimir Putin non ha inventato nulla: la geopolitica russa anni Novanta
Ci avviciniamo sempre più al presente, nel nostro cammino attraverso la Russia degli anni Novanta. I fatti di oggi – la guerra in Ucraina, l’invasione della Georgia, le influenze di Mosca in Europa, Africa e Medio Oriente – germogliano nel decennio di Boris Eltsin, quando la politica estera del Cremlino oscilla e nelle accademie moscovite si elaborano nuove dottrine. Vladimir Putin, giunto al potere tra il 1999 e il 2000, non inventa nulla in politica estera: mette in pratica ciò che trova.
Le speranze tradite alla fine dell’Unione sovietica
Nei primi anni di Michail Gorbačëv, la popolazione guarda alla Perestrojka e al cambiamento con speranza. La politica estera la aiuta: Mosca adotta un corso filo-occidentale, si avvicina alla NATO e alimenta l’aspirazione ad appartenere a un Occidente che per tutti significa libertà, benessere e miglioramento.
Al declinare di Gorbačëv e con lo sciogliersi dell’Unione sovietica, alla fine del 1991, i russi scoprono di non capire più il mondo. L’economia di mercato, a differenza del comunismo, mette al centro la responsabilità e i talenti dei singoli. La privatizzazione disordinata rafforza la criminalità e gli oligarchi, le condizioni sociali ed economiche peggiorano. I russi attribuiscono i mali alla fine della superpotenza sovietica e alla caduta del comunismo, non solo come dottrina, ma come tratto identitario dell’Unione sovietica. In molti cominciano a pensare che i problemi sparirebbero, se la Russia tornasse influente nel mondo quanto lo era l'URSS. Così, negli anni ’90, mentre la realtà delude le aspettative dei cittadini, la politica estera della Russia cambia.
La politica estera, un pendolo che oscilla
Quando cade l'Unione sovietica, cessa di esistere anche il Ministero degli esteri sovietico. In ciascuna delle repubbliche dell’ormai ex URSS, divenute Stati indipendenti, sorge un Ministero degli esteri nazionale. Quello russo è guidato da Andrej Kozyrev.
La politica estera di Mosca comincia a virare durante il primo mandato di Eltsin, dal 1991 al 1996, su due narrative parallele. L’una echeggia il mito della Russia eurasiatica, in bilico tra Oriente e Occidente: la Russia non deve guardare solo a ovest, deve rivolgersi anche a est, per la sua posizione ed estensione geografica. L’altra narrativa insiste sulla liberazione della Russia dalla «subordinazione» all’Occidente: così, la politica estera ereditata da Gorbačëv, prima ben voluta, cade in disgrazia.
Si levano voci che pretendono la ricostituzione dell’Unione sovietica. L’orientamento eurasiatico e lo svincolo dall’Occidente sono sostenuti dalle ali politiche estreme: i nazionalisti della nascente destra di Vladimir Žirinovskij e i neo-comunisti di Gennadij Zjuganov; da punti di vista diversi, entrambi aspirano a ricostituire la grandeur di Mosca nel mondo, senza troppo curarsi del diritto internazionale e dei timori dei popoli confinanti. Se si eccettua qualche sbandata retorica, Eltsin riesce a contrastare queste tendenze, che pur contribuiscono alla pesante crisi costituzionale del 1993.
Cambia il ministro, cambia la politica
Andrej Kozyrev lascia il Ministero degli esteri nel 1996. Eltsin, eletto intanto al secondo mandato, nomina a sostituirlo Evgenij Primakov. È un personaggio singolare: è nato in Ucraina e parla con la stessa cadenza di Leonid Brežnev, che era stato per quasi trent’anni al vertice dell’Unione sovietica. Persino la voce e i tratti del volto rendono Primakov molto simile al defunto dirigente comunista. Basta che apra bocca e sembra di tornare ai vecchi tempi.
Primakov sostiene con forza la prospettiva eurasiatica della politica estera russa: le polemiche con l'Occidente si moltiplicano, il rapporto con le ex repubbliche sovietiche si fa più spinoso. Nelle dichiarazioni di Primakov, nella seconda metà degli anni Novanta, si riconoscono già toni e argomenti usati oggi da Putin verso l’Ucraina, la NATO e l’Est Europa.
L’eurasiatismo: l’eterno ritorno del passato
Torna in auge in quel contesto la dottrina dell'eurasiatismo (o eurasismo), una filosofia sviluppatasi a inizio Novecento in gran parte presso intellettuali russi emigrati, sopita durante il comunismo perché critica verso Lenin e Stalin. Secondo l’eurasiatismo, fra Europa e Asia esiste un terzo continente: l’Eurasia, coincidente di fatto con la Russia. La cultura occidentale è inadatta alla Russia, sostiene l’eurasiatismo, Mosca deve guardare alle civilizzazioni orientali. All’eurasiatismo sono imparentate in vario grado molte figure: Konstantin Leont'ev (1831-1891), Lev Gumilëv (1886-1921), Nikolaj Trubeckoj (1890-1938) e altri.
Tra i riferimenti, da ricordare anche Ivan Il'in, (1883-1954), dalla forte vena spiritualistica: citazioni di sue opere si odono oggi nei discorsi di Putin; il più recente Aleksandr Solženicyn, scrittore, scomparso nel 2008: come dissidente sovietico viene accolto e adulato in Occidente. La sua critica verso il comunismo gli vale il premio Nobel per la letteratura del 1970. Tornato in Russia nei primi anni Novanta, diventa una delle voci più ascoltate del nuovo orientamento internazionale del suo Paese, sempre più ostile all’Occidente.
Negli stessi anni, su queste basi, l’ancor giovane politologo Aleksandr Dugin fonda un neo-eurasiatismo su cui costruisce le sue dottrine per la Russia postsovietica. Si può dissentire dalle sue idee, ma si deve riconoscere che Dugin è abile ed erudito. La sua opera non va sopravvalutata, ma è una chiave del suo tempo. Nel 1997 compare il suo manuale Le basi della geopolitica: il futuro geopolitico della Russia. Il testo consegue largo successo e diventa lettura corrente all’Accademia dello Stato maggiore delle Forze armate russe.
Riemerge la vena egemonica: il «mondo multipolare»
Ha senso, affermare che la Russia occupa una posizione geopolitica diversa da altri: si estende per mezzo mondo, tra Asia ed Europa. Con il recupero di questa concezione, però, riemerge la vena egemonica: l'idea che la Russia abbia titolo a dominare tutta l’Eurasia, da Vladivostok a Lisbona. Dugin e la sua scuola riprendono una visione fondata sulle zone d’influenza, che il resto del mondo ha voluto superare, dopo la Seconda guerra mondiale. È la teoria del «mondo multipolare», una concezione che ricorda il mondo del passato: le capitali degli imperi dominavano interi continenti, abitati da popoli diversi a cui erano concesse autonomie più o meno rispettate, ma restavano assoggettati a un sovrano dominante.
Il «mondo multipolare» non va confuso con il «mondo multilaterale» – Nel mondo multilaterale, il nostro, ogni Stato esercita la propria sovranità in modo indipendente e originario. Se si unisce ad altri Stati per formare costrutti più grandi, come l’Unione europea, lo fa di propria volontà. Nel mondo multipolare della Russia, invece, un soggetto egemone domina sugli altri popoli del suo «polo»; i popoli assoggettati devono accontentarsi di una sovranità limitata e di formali concessioni di autonomia culturale. Al «mondo multipolare» Dugin dedica uno studio che diventa un altro distintivo della sua opera: La teoria del mondo multipolare o pluriverso (2015), ripubblicato quest’anno in seconda edizione.
Secondo la teoria del «mondo multipolare», l'Europa fa parte del polo egemonico della Russia.
Arriva Putin e la politica estera è un piatto pronto
Quando Putin subentra a Eltsin, in politica estera non gli resta che attuare le direttive già elaborate negli anni Novanta e consolidate dalla rinascita dell’eurasiatismo. Nel 2007 Putin interviene alla Conferenza internazionale di Monaco sulla sicurezza e tiene un discorso che resta celebre: annuncia che la Russia abbraccia la dottrina del «mondo multipolare».
Lo dice a chiare lettere, ma pochi capiscono. Cosa significa si vede dall’anno dopo: Putin invade la Georgia nel 2008 e l’Ucraina nel 2014, interviene in Siria nel 2015 e riattacca l’Ucraina nel 2022; alimenta i «separatisti» del Donbas e organizza una raffinata guerra non lineare per influenzare a favore della Russia le opinioni pubbliche dell’Occidente, attraverso i media e settori deviati della politica europea e statunitense.
Le guerre di oggi: sapere da dove arrivano per capire dove vanno
Nessuna guerra nasce da una decisione, tutte nascono da un processo. Il processo che genera la guerra della Russia contro l’Ucraina e l’Europa emerge negli anni Novanta. La sua radice risale al 1918, quando, con il trattato di Brest-Litovsk, la Russia perde territori consistenti: Polonia, Finlandia, Ucraina, Bielorussia, i tre Stati baltici e parte del Caucaso conquistano l’indipendenza da Mosca. Lev Trockij, massimalista, allora ministro degli esteri russo, non vuole firmare il trattato; Lenin, più astuto, lo convince ad accettarlo: sa che Mosca riprenderà il controllo di quei Paesi.
Lenin ha ragione, in gran parte: solo Finlandia e Polonia conservano l’indipendenza, tutti gli altri tornano sotto il giogo imperiale di Mosca, ridefinito come Unione sovietica nel 1922. Quando anche quest’ultima cade, nel 1991, Mosca perde di nuovo le periferie dell’impero.
Oggi, Putin vuole passare alla Storia come colui che riattacca al treno della Russia i vagoni perduti, con l’aggiunta suggerita dal neo-eurasiatismo: l’idea che Mosca abbia un diritto naturale di dominare sull’Eurasia da Vladivostok a Lisbona, cioè anche su di noi, all’insegna del «mondo multipolare». Noi, intanto, pensiamo che si accontenterebbe del Donbas e della Crimea.
Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per leggere la seconda puntata clicca qui. Per leggere la terza puntata clicca qui. Per leggere la quarta puntata clicca qui. Per leggere la quinta puntata clicca qui. Per leggere la sesta puntata clicca qui. Per leggere la settima puntata clicca qui. Per leggere l'ottava puntata clicca qui. Per leggere la nona puntata clicca qui.