Morire per amore dei baraccati di Korogocho

Dodici anni fa, ucciso da un tumore pleurico polmonare contratto con ogni probabilità nella baraccopoli dove operava, si spegneva Gino Filippini, la figura missionaria laicale più importante del dopoguerra in Italia. Su di lui sta uscendo un volume curato da Fabrizio Floris (Gino Filippini – Uomo per gli altri, Gabrielli Editori, Verona, gabriellieditori.it). Ne anticipiamo la prefazione, scritta da un altro missionario di grande carisma, padre Alex Zanotelli, che con lui ha condiviso passioni e battaglie.
Gino Filippini ha dedicato tutta la sua vita a Dio e all’Africa: 40 anni sulle polverose strade del continente nero. Fedeltà che ha pagato con la vita. Gino era rientrato in tutta fretta nella sua casa di Rezzato alla fine del 2000 dalla baraccopoli di Korogocho (Nairobi), perché i dottori gli avevano diagnosticato un tumore pleurico polmonare, il mesotelioma: una malattia professionale che viene dalla polvere mortale dell’amianto. Gino deve essersela beccata proprio nella discarica di Nairobi, situata a fianco di Korogocho dove lui operava.
Una malattia, questa, mortale e velocissima. Nel giro di due mesi ha distrutto la forte fibra di Gino. Varie volte sono stato a trovarlo a Brescia. L’ultima volta, il 19 novembre, alla Domus Salutis di Brescia. Gino era già devastato dal male. Con grande sforzo, espresse quello che desiderava di più per il suo programma Education for Life, che aveva iniziato nella baraccopoli. Lo spingeva una passione per la vita, anche davanti alla morte. (...) Il male lo stroncò il 28 novembre 2008.
Tra fede e politica
(...) Penso che Gino sia la figura missionaria laicale maschile più significativa del dopoguerra in Italia, come lo è per me al femminile Annalena Tonelli, uccisa nel 2003 in Somalia. «Vivo a servizio senza un nome - aveva scritto Annalena - senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio, senza un versamento di contributi volontari per quando sarò vecchia. Sono non sposata, perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio».
Lo stesso l’avrebbe potuto scrivere Gino. Infatti, Gino non si è mai affidato né ai soldi, né ai progetti, né alle ONG. Il Vangelo, su cui basava la sua vita, lo rendeva un uomo libero. Un Vangelo vissuto nella quotidianità, camminando con i poveri. È questo fin dall’inizio del suo cammino in Burundi. La sua è sempre però rimasta una spiritualità laica e incarnata, vissuta dentro un inferno umano come Korogocho. Infatti, non si trattava di aiutare una o cento persone, ma di andare alle cause sia dell’impoverimento che del problema della terra. Soltanto avendo la terra i baraccati di Korogocho potevano sperare di costruirsi un futuro.
Si tratta di camminare con la gente, guadagnare la loro fiducia, aiutandoli a capire dove vogliono andare e come procedere per ottenere quel che è un loro diritto. Gino viveva la dimensione politica della fede. E questo tipo di azione non si può sostenere senza una profonda spiritualità, è impossibile senza un Sogno che ti sostiene.


«Io qui non ci verrò mai!»
Nel 1992 rientrò in Italia per assistere il papà ammalato di cancro. Padre Gianni Nobili, missionario comboniano, che lo aveva conosciuto in Congo, lo invitò a passare qualche giorno nella baraccopoli di Korogocho (Nairobi), ma vi rimase una settimana. Lasciando Korogocho, Gino mi disse: «Io a Korogocho non ci verrò mai!». Dopo la morte del papà e una seria riflessione e preghiera, Gino decise invece di venire proprio a Korogocho.
Visse con noi in baracca una bella esperienza di comunità e di preghiera nel cuore di quella spaventosa baraccopoli. La sua fu una mano provvidenziale per le cooperative che stavano iniziando e per la gente della discarica (Mukuru). Tutto questo lo posso testimoniare essendo vissuto, gomito a gomito in baracca con Gino per circa dieci anni.
Il mattino si alzava presto e con noi veniva a pregare nella cappellina, uno spazio ricavato nel capannone che serviva sia per la messa della domenica che per la scuola informale per i ragazzi di Korogocho. Pregavamo insieme un salmo, quasi sempre un salmo di protesta da parte dei poveri: «Fino a quando, fino a quando, Signore continuerai a scordarti di me: per sempre? Guarda, Signore, rispondimi!» (Salmo 14). E ognuno di noi riprendeva quel grido insieme alle urla degli impoveriti di Korogocho.
Quelle preghiere dei poveri d’Israele erano diventate le nostre implorazioni quotidiane a nome dei baraccati. E spesso Gino pregava così: «Signore, se ci sei, batti un colpo. Non è possibile che tu, il liberatore che sempre stai dalla parte dei poveri, non veda e non senta il grido che si leva da questa terra di disperati. Non ti accorgi che andiamo sempre più in basso? Che prevale sempre la legge del più forte? Che non si riesce a cambiare nulla in meglio?».
Poi leggevamo la Parola del giorno e ognuno reagiva incarnandola nel vissuto quotidiano con preghiere personali e spontanee. E concludevamo, tenendoci per mano, con la preghiera del Padre Nostro.

La vita in baraccopoli
E dopo un po’ di tè e pane, ci disperdevamo ognuno al proprio lavoro, nella immensa baraccopoli di Korogocho, costruita su una collina lunga un chilometro e mezzo e larga uno, dove sono «sardinizzati» centomila esseri umani. L’80% dei baraccati non possiede neanche la baracca dove vive, ma paga l’affitto.
Le baracche sono in genere tre metri per quattro e ospitano mediamente cinque-sei persone. Le fognature sono a cielo aperto. Senza poi parlare del problema enorme per avere un bagno (e che bagni!). Queste condizioni di vita portano al degrado sociale: non regge più nulla, le famiglie sono disarticolate e composte per lo più di donne e bambini.
Il degrado morale
Al degrado sociale si accompagna il degrado morale. Qui le norme etiche crollano. C’è una violenza inaudita. A rendere il quadro ancora più cupo è l’enorme discarica, il Mukuru, proprio davanti a Korogocho, dove arrivano i rifiuti dei ricchi di Nairobi.
È una lunga collina dove giungono centinaia di camion al giorno per scaricare l’immondizia. Vi lavorano migliaia di persone: tutto è raccolto e rivenduto. Chi ci lavora è disprezzato e visto come un criminale. Non meno difficile è la condizione dei ragazzi di strada: sono migliaia a Korogocho. Sniffano la colla per non sentire gli stimoli della fame, dormono all’addiaccio...
Ci vivono poi migliaia di ragazzine che vanno a prostituirsi nel centro città. Sciamano la sera da Korogocho e ritornano al mattino presto. Anche loro sono disprezzate e derise. E come dimenticare le bande di giovanissimi, ragazzini di quattordici-quindici anni che, con pistole e coltelli alla mano, attaccano qualsiasi persona. Sono ben organizzati e pieni di rabbia, esercitano un controllo asfissiante sul territorio. «Noi siamo figli della prostituzione», dicono sprezzanti. Infine, i malati di Aids!
Quando operavo a Korogocho, le piccole comunità cristiane, sorrette da una suora straordinaria, suor Gill, assistevano un migliaio di malati terminali di Aids. La percentuale dei sieropositivi è molto alta.


Immerso nell’umanità dolente
In questa umanità dolente, dopo la preghiera comunitaria del mattino e una povera colazione, Gino, zainetto in spalle, era il primo ad iniziare il suo cammino quotidiano tra i viottoli della baraccopoli. Visitava diverse cooperative, composte da svariati gruppi: il Bega Kwa Bega, Kindugu, Udada, Mama Vyondo, Boma Rescue Centre, Korogocho Street Children, Pro-Life, ed anche il Kindugu (fratellanza), un gruppo di giovani criminali che sono vissuti come piccoli ladri, derubando i passanti.
Gino spendeva tanto tempo con i membri di quest’ultimo gruppo, insegnando loro a lavorare il legno realizzando sedie e tavoli da vendere. L’Udada (sorellanza) era invece un gruppo di ragazzine che si prostituivano per poter sopravvivere. Anche questo gruppo era molto seguito da Gino e dove lui trascorreva parecchio tempo con le ragazze, tra l’altro molto violente. Gino le aiutava a fare lavori semplici, come infilare perline per collane, bambole da poter vendere e guadagnarsi così da vivere.
Il gruppo Mama Vyondo (Le donne dei cesti) era costituito da donne povere e senza marito che si trovavano insieme per realizzare dei cesti; con loro Gino si spendeva con tempo ed energia. Gino voleva però che questi gruppi diventassero autosufficienti. Per questo realizzammo il Bega Kwa Bega (Spalla a Spalla), una cooperativa che vendeva poi gli oggetti prodotti e aveva il proprio conto in banca. Gino ogni tanto faceva una visita al Centro Pro-Life, animato da Suor Marta Citterio, comboniana, per aiutare le ragazzine che erano rimaste incinte.
Gino trovava tempo anche per girare per i centri dedicati agli street-children, i ragazzi di strada che vivono raccogliendo rifiuti e sniffando colla. Sono fra i più disperati a Korogocho. Per loro avevamo aperto due centri: il Boma Rescue Center (Centro di recupero) che si trovava nella discarica e il Korogocho Street Children che si trovava invece all’interno della baraccopoli. Gino, dopo aver visitato i gruppi del Bega Kwa Bega, passava spesso a salutare questi ragazzi/e di strada. Gino li amava, erano i suoi prediletti.
Verso le ore 14 rientrava in baracca per mangiare un boccone insieme a tutti noi. Gino cucinava molto bene! Poi ognuno tornava ai propri compiti. Gino ritornava di nuovo per strada e spesso usciva dalla baraccopoli per andare sulla collina di fronte a Korogocho, il Mukuru, dove arrivavano i rifiuti della città di Nairobi. Un luogo infernale dove migliaia di persone raccolgono i rifiuti e li vendono per pochi centesimi. Per questo avevamo dato inizio a una cooperativa, il Mukuru Recycling Centre (Centro per riciclaggio dei rifiuti).
Ma fu proprio in queste sue frequentazioni in discarica che si beccò il mesotelioma, data la forte presenza di amianto in discarica. Alla sera Gino, stanchissimo, veniva con me nelle baracche dei malati di Aids dove celebravamo l’Eucaristia alla luce fioca di una lampada, ma immersi nel calore della piccola comunità cristiana. Momenti intensi di spiritualità che ci davano la forza per andare avanti. Poi nel cuore della notte rientravamo in baracca per mangiare quel poco che riuscivamo a mettere insieme. Un altro momento di fraternità e di condivisione.
Concludevamo la nostra giornata con la recita di un altro salmo e del cantico di quella povera donna di Nazaret, il Magnificat. Spesso Gino era talmente stanco che si addormentava sul tavolo. Comunque ci addormentavamo a notte tarda. Ma spesso di notte succedeva di tutto, per cui bisognava alzarsi a dare una mano. E Gino era sempre il primo e sempre sorridente e disponibile.
La questione: avere o essere «di più»?
Il murale
La tentazione dell’afro-pessimismo in un contesto come quello di Korogocho è quasi inevitabile. «Per questo da un po’ di tempo alla domenica mi vesto di bianco – scriveva Gino -, il colore bianco simbolo della gioia e della festa. Vedermelo addosso mi fa bene allo spirito, mi tiene su il morale. Ha lo stesso potere dei bambini: a Korogocho ti corrono incontro con una vitalità così esuberante e gioiosa che non puoi non esserne contagiato. Di un contagio positivo, si intende, e utile, anche perché crea degli anticorpi capaci di combattere un altro contagio assai diffuso e pericoloso che si chiama afro-pessimismo». Gino sapeva che il suo compito era quello di seminare, non di raccogliere. Infatti, a Korogocho c’è ancora un murale fatto da un autista locale dove Gino è dipinto sullo sfondo di Korogocho, con la scritta The sower / mpanzi, il Seminatore.
L’appello
Ma la vita di Gino non è stata solo grazia per gli impoveriti dell’Africa, ma anche una grande lezione per gli imborghesiti occidentali. «A pensarci bene – scriveva Gino da Korogocho – nella nostra civiltà del “benessere” ci preoccupiamo di avere sempre di più, ma non di “essere di più” ed è per questo che rimaniamo degli eterni insoddisfatti».