Il reportage

Nei palazzi degli imperatori c’era il porfido estratto a Carona

Sulle tracce delle perdute cave utilizzate dagli antichi Romani per ottenere pietre da utilizzare nelle loro case - Parla l’esperto Francesco Crocenzi
I gradoni in porfido della piscina di Carona. © Gabriele Putzu
Carlo Silini
14.11.2020 06:00

Qui la si considera una pietra buona per tirar su i muri e ricavare ciottoli quadrati per le vecchie strade, ma il porfido – di cui il Ticino abbonda – è un minerale da re. Gli antichi Romani lo cavavano dai giacimenti del nostro territorio e lo facevano giungere nella capitale, dove adornava le stanze sfarzose degli imperatori insieme alle pietre più belle del mondo antico. Una storia che ricostruiamo con l’esperto Francesco Crocenzi (nella foto Putzu sotto, accanto a un blocco di porfido).

Crocenzi ha tradotto, curato, illustrato e aggiornato il Manuale dei marmi romani antichi di Henry William Pullen (1836–1903) ed è un esperto romano di diritto finanziario stabilitosi in Ticino da qualche anno. Può essere considerato il continuatore di quello strano connubio tra la professione forense e lo studio dei marmi, come lo furono nel XIX secolo gli avvocati Faustino Corti e i fratelli Tommaso e Francesco Belli, autori di saggi divenuti punti di riferimento per la materia.

I blocchi arrivavano a Roma risalendo il Verbano, il Ticino, il Po e l’Adriatico, poi c’erano le strade

L’appuntamento è a Carona, nel posteggio dietro la piscina. Salendo in auto ci rendiamo conto forse per la prima volta che muri, case, gradini e ciottoli sono dello stesso colore. «E della stessa pietra: il porfido – spiega Crocenzi –Se si cammina per i boschi della zona si trovano ancora i resti delle antiche cave». Il nostro giornale ne aveva parlato l’anno scorso (vedi edizione del 2° settembre 2019) intervistando l’imprenditore di Lumino Simone Bonomi, titolare col papà delle Cave Bonomi che dal 1950 estraggono, lavorano e posano il porfido rosa.

La sua resta l’ultima delle numerose cave che erano attive fino a metà del Novecento tra la sponda ticinese del Ceresio, a Carona appunto, e quella italiana. Ovvero nella cosiddetta piattaforma porfirica del Luganese che inizia a est della base del Monte Generoso, riemerge dal lago in corrispondenza di Morcote e riaffiora ad ovest fino al confine con Varese.

Osserviamo i rilievi sassosi che spuntano dal prato curatissimo dell’impianto balneare. Porfido, ovviamente, come i gradoni della piscina.

L’ex dancing nella vecchia cava

Oreste Pianezzi, l’impiegato comunale a cui è affidata la manutenzione dello spazio, apre i cancelli e ci accompagna verso il fondo della struttura, dove nei decenni passati una delle antiche cave era stata riconvertita in un dancing, oggi chiuso (vedi foto Putzu sopra). È un piccolo emiciclo roccioso al centro del quale è stata costruita una griglia sovrastata da una grande canna fumaria realizzata con traversine come quelle dei binari ferroviari. «Si vedono ancora le ‘tagliate’ delle pietre», osserva Crocenzi. «Quando ero bambino nel buco della cava c’era un laghetto», dice Pianezzi, «d’inverno ghiacciava e noi venivamo a pattinarci. Ma questa è una cava piccola. La più importante la si raggiunge deviando dal sentiero nel bosco che va al santuario della Madonna D’Ongero, prima di scendere verso il Torello. Molti anni fa ci lavorava anche mio nonno». Tra l’altro, detto per inciso, la splendida chiesa di Santa Maria Assunta di Torello (nella foto Zocchetti sotto) è tutta in porfido.

L’antica cava oggi è abbandonata tra piante e depositi con materiali di scavo. Oggi la pietra è cavata a Cuasso

Lo strapiombo

Seguiamo le indicazioni e ci troviamo su uno spiazzo con vista imprendibile sul Pian Scairolo. Scorgiamo qualcosa della cava sporgendoci al di là delle ringhiere che proteggono da un precipizio sopra un immenso buco minerale riassorbito negli anni dal proliferare della vegetazione (foto sotto).

È ciò che resta delle cave di Figino, che, leggiamo in un rapporto di dieci anni fa del Gruppo di lavoro Attività Estrattive in Ticino, «sono state abbandonate da alcuni decenni e sono state gradualmente riempite con materiali di scavo o inerti da discarica». Potremmo cercare tra i boschi altri vecchi giacimenti, «ma sarebbe comunque impossibile stabilire da quali di questi scavi gli antichi romani estraevano le pietre per l’imperatore», osserva Crocenzi.

Il nome porfido viene dal greco e significa «porpora». Il suo uso era riservato all’imperatore

Un segno di conquista

Ma perché i Romani cercavano pietre nell’attuale territorio del Ticino? «Perché cercavano dappertutto i marmi più belli per adornare la capitale, e tra questi c’era anche il porfido di Carona, ma anche come segno di dominioquasi a portare fisicamente a Roma dei pezzi dei regni conquistati. Inoltre, c’era il divieto di cavare pietre in Italia, tranne a Luna, antico nome di Carrara, per non rovinare il territorio. Le cave dei Romani erano soprattutto in Egitto, in Tunisia non lontano da Cartagine (Numidia) dove si estraeva il marmo giallo antico, o ancora in Grecia e Asia Minore (nell’attuale Turchia). Agli inizi i generali romani portavano dalle terre conquistate le colonne prese direttamente dai templi, ma presto la pratica venne condannata perché ritenuta blasfema, e allora sono state create delle cave ad uso dei romani».

Dalla nascita alla morte

Da noi, quindi, prendevano il porfido: ne andavano matti. «Esatto. Il nome porfido viene dal greco e significa “porpora”. L’uso di questa pietra era riservato all’imperatore. Tant’è vero che gli imperatori bizantini venivano definiti ’’porfirogeniti’, cioè nati nel porfido, perché per tradizione venivano al mondo in una camera rivestita di porfido. E quando morivano le loro spoglie venivano deposte in un sarcofago fatto con la stessa pietra (sotto: un sarcofago imperiale al museo imperiale di Istanbul). Per questa ragione le cave di porfido nel mondo conosciuto erano direttamente di proprietà imperiale».

Questioni tecniche

Tecnicamente sappiamo che per tagliare le piete i romani «utilizzavano un filo di bronzo a cui aggiungevano sabbie silicee, che facevano scorrere grazie a un telaio, di fatto una ruota collegata a un animale, come le antiche macine dei mulini. Usavano diversi tipi di sabbia, alcune per tagliare altre per lucidare la pietra». Quanto al trasporto da Carona a Roma, dobbiamo immaginare che, nella prima tappa, i blocchi di pietra venissero portati dalle cave fino a Luino con carri di buoi, perché la Tresa non era navigabile. «Nell’antico libro di Carlo Amoretti Viaggio da Milano a tre laghi. Maggiore, di Lugano e di Como e ne’ monti che li circondano (1806), l’autore parla del fiume Tresa sostenendo che se non fosse stato la linea di confine tra Svizzera e Italia, l’avrebbero reso navigabile. Ma non era così, quindi la prima tratta avveniva sui carri. Giunte a Luino, le pietre prendevano la via del lago Maggiore. Venivano trasportate sulle imbarcazioni e convogliate nel fiume Ticino. Dal Ticino le barche entravano nel Po e giungevano al mare. Qui attraversavano l’Adriatico fino ai porti da cui partivano le vie consolari dirette per Roma, e cioè la via Flaminia da Rimini (Ariminium in latino), Pesaro e Fano, oppure più a sud la via Salaria dai pressi di Ascoli Piceno, tutte lastricate e percorribili da carri».

Dal Bellinzonese veniva invece la serpentina a granati o «pietra braschia» che prende il nome da papa Pio VI

Le altre pietre

Non c’è solo il porfido tra le pietre cavate nell’attuale territorio cantonale che si trovano a Roma. «Si trova in abbondanza anche il marmo di Arzo e la serpentina a granata. Solo che il marmo di Arzo è stato largamente utilizzato nelle chiese barocche, ma non se ne conosce un uso ai tempi dei Romani, probabilmente perché a quell’epoca sul San Giorgio non esistevano ancora le cave».

La serpentina a granati, o «pietra braschia» proviene invece dal Bellizonese, più precisamente da sopra Gorduno. «Sull’alpe Arami, a oltre 1400 metri d’altezza, ne esistono ancora dei blocchi enormi, pezzi da 20 metri quadrati, giganteschi, grandi come una stanza. Si tratta di una bellissima pietra verde con grananti rossi. Nei musei vaticani sono conservati due vasi della fine del Settecento (vedo foto sotto) che sono stati realizzati utilizzando la pietra di una colonna fatta con questo materiale proveniente da un castello papale ad Ancona. Presa la colonna, un artigiano ne ha fatto due vasi utilizzando il tornio. Papa Pio VI (al secolo Giovanni Angelico o Giannangelo Braschi) li adorava. Da allora questo tipo di pietra porta il suo nome: pietra braschia, appunto».

Un tesoro nel seminterrato

Il nostro tour finisce nel centro di Lugano, dove l’avvocato ci introduce in una sala adiacente un anonimo garage. La luce giunge fioca nel seminterrato, dove gli oggetti sono disposti uno accanto all’altro nelle scansie di una decina di armadi a vista. Davanti ai nostri occhi c’è una delle collezioni di pietre «di uso romano» più importanti del mondo. Sono i gioielli di Crocenzi. «Marmi di uso romano», spiega, «significa pietre dello stesso tipo di quelle trovate in cantieri archeologici in siti degli antichi romani». Il marmo, aggiunge, tecnicamente è soltanto quello bianco, ma «quando parliamo di pietre di uso romano ci riferiamo anche a tutte le pietre colorate che venivano utilizzate per le pavimentazioni e i rivestimenti delle sale. Come il porfido, appunto».

Crocenzi apre un armadio a cassettiera e ne estrae due lastre lucidate di porfido: «Questo tipo era usato nel foro romano», «questo invece, viene dall’alpe di Vicania». C’è anche un pezzetto di porfido greco, «tagliato senz’altro più di duemila anni fa, come si evince dalla superficie un po’ irregolare del manufatto e dalla rastrematura della pietra». Tra le migliaia di pezzi, l’esperto ci mostra alcuni pezzi di una collezione particolare, composta da circa seicento campioni di pietre che misurano 14 centimetri per 8.

«L’ho acquistata da un marmista (anzi ’’marmoraro’’) della zona meridionale di Roma e che lavora sui marmi antichi. Diciamo che sono avanzi del marmista: li taglia e ne trae dei campioni. Questo pietrone, invece, è stato trovato nel Tevere, questo nel Ticino, questo in Savoia, questo in Tunisia e quest’altro a Fiumicino, vicino all’aeroporto», spiega. E gli luccicano gli occhi.

«Sogno un museo qui a Lugano»

Oggetti di tutte le epoche

Francesco Crocenzi ha un sogno: creare a Lugano un museo che accolga le raccolte di marmi antichi (romani, barocchi, ottocenteschi) per sviluppare un interesse «per le pietre decorative e le loro stupefacenti caratteristiche estetiche, simbolo di un connubio unico tra la natura che le crea e l’uomo che le lavora esaltandone la bellezza», ci spiega.

Apparati multimediali

Nella sua mente il museo esporrebbe sia le pietre usate dai Romani, sia quelle del Ticino. «Lo immagino dotato di apparati multimediali e interattivi per localizzare le cave, le rotte commerciali, le varie tecniche di estrazione dei marmi ed il loro uso a dipendenza delle caratteristiche fisiche e estetiche», spiega.

La dotazione di base

È vero, osserva, che esistono altri musei «dei marmi» o «delle pietre dure»– come quelli di Carrara e Firenze – «ma hanno una valenza prevalentemente locale». Nella dotazione iniziale il museo sarebbe costituito dalla collezione di marmi antichi formata negli ultimi venti anni dal Crocenzi stesso e composta da centinaia di pezzi che comprendono tutte le pietre di uso antico, specialmente quelle colorate, le più decorative.

«Il nucleo principale è una collezione di più di seicento campioni di marmi romani di grandi dimensioni (14 x 8 cm) che ne farebbero la più grande collezione con campioni di queste dimensioni esposta al pubblico al mondo. Vi sono altre collezioni con campioni più grandi, ma non sono esposte al pubblico (due collezioni del Servizio Geologico d’Italia, la collezione Corsi dell’Università di Oxford); altre collezioni, anche più numerose, hanno i campioni con dimensioni inferiori».

Le riproduzioni

Ci sarebbero poi centinaia di oggetti in marmi di uso romano fedelmente riprodotti, alcuni dei quali unici al mondo per quanto riguarda il tipo di materiale. Tra essi, riproduzioni realizzate con gli stessi materiali usati nei pavimenti delle ville romane, come la Villa Adriana a Tivoli o la villa di Tiberio a Capri.

Dalla breccia allo gneiss

E la sezione sul Ticino? «Qui andrebbe la storia dell’uso delle pietre ornamentali nel Cantone come la Breccia di Arzo, lo gneiss e il bianco di Peccia. Naturalmente bisognerebbe parlare anche del porfido di Carona-Figino e della peridotite a granati dell’alpe Arami. Sarebbero indicate anche le rotte commerciali seguite in antichità».

Ricordando i maestri scalpellini

Non mancherebbe una parte dedicata all’opera dei maestri scalpellini ticinesi e lombardi, maestranze molto richieste nel Rinascimento e nel periodo barocco che seguivano i grandi architetti ticinesi come Borromini e Maderno. «Immagino anche una sezione per i non vedenti nella quale sarebbe possibile toccare le pietre».

«Una possibilità», conclude il nostro interlocutore, «è che il museo occupi almeno una parte del vuoto lasciato dal programmato spostamento del Museo di Storia Naturale».

Monumenti e strade in tutto il cantone

Il porfido rosa è stato utilizzato in alcuni luoghi particolarmente significativi del cantone: «per esempio» – leggiamo nel saggio Il porfido rosa del Ceresio (a c. di Simone Bonomi, 2018) – «per diverse vie del centro di Lugano come il piazzale della stazione, la salita della Cattedrale o l’intero lungolago (in seguito asfaltato).

Venne al contempo impiegato per pavimentare il nucleo di Bellinzona, ad esempio in piazza Collegiata (foto sopra), piazza del Governo o piazza Indipendenza. Nello stesso periodo fu scelto anche per molti centri più piccoli come Arzo, Vacallo o sulla Collina d’Oro. In porfido rosa furono realizzati anche edifici o manufatti come la chiesa del Sacro Cuore o la volta rosa del sottopasso FFS di Lugano. A partire dal secondo dopoguerra, l’attività di estrazione e lavorazione del porfido rosa si è via via concentrata in un numero sempre minore di cave. Ciò a causa prevalentemente dell’esaurimento nella maggior parte di cave di materiale ’’buono’’ idoneo alla lavorazione, o nella sua crescente scarsità fino a livelli tali da non giustificare o da rendere insostenibile il proseguimento dei lavori (quantità di scarto troppo elevate).

La tradizione dell’estrazione e della lavorazione del porfido rosa è proseguita a Cuasso al Monte, piccolo comune Lombardo situato circa al centro della piattaforma porfirica, dove la qualità del materiale è particolarmente elevata. Qui infatti i quantitativi di pietra idonea alla lavorazione sono adeguati e tuttora con buone riserve future».