Nel villaggio dove la morte non fa paura

«Ma poi, se uno arriva qui, gli passa la voglia di morire». Giulio mi guarda con gli occhi di chi vede qualcosa che ancora non c’è. Siamo nell’antico borgo di Mezzana, frazione di Cantagallo, sui rilievi appenninici sopra la valle del Bisenzio...
Il rumore di fondo è il frinire dei grilli e davanti a noi c’è un pratone d’erba secca che si affaccia sul verde dei boschi che circondano la zona per chilometri. Qui, nel cuore delle colline pratesi, sorgerà il primo «hospice spirituale» europeo per l’accompagnamento dei malati terminali e, anche se tutto è di là da venire, giureresti che Giulio lo veda davvero quell’edificio , pensato per chi aspetterà la morte guardandola in faccia.

Una storia sospesa
Questa è una storia sospesa tra il mondo di qua e il mondo di là. Non puoi capirla se non sali tra i ruderi in via di restauro, dove un gruppo di volontari che somigliano agli hippies (ma non lo sono) coltiva un sogno un po’ pazzo che spaventa il cuore dell’uomo. O forse lo rassicura. Perché se c’è un posto in cui uno può far pace con l’idea di morire, dev’essere per forza qui.
Il nostro viaggio era cominciato qualche mese fa su WhatsApp quando un vecchio amico, Nicola Casanova, un ticinese che vive a Firenze, ci aveva mandato un articoletto de La Nazione. Il testo parlava di un’iniziativa legata a un gruppo di volontari (i «Ricostruttori nella preghiera»), che – decespugliatori, motoseghe, picconi e carriole alla mano – si era messo di buzzo buono per far rinascere il vecchio nucleo di un borgo abbandonato impiantandovi un villaggio per famiglie, una piccola comunità di monaci e, soprattutto, un hospice ecosostenibile per dare sostegno sanitario e spirituale non confessionale a persone che – come si dice – sanno di avere i giorni contati. Pare che sia il primo progetto simile in Europa.

E allora eccoci, qualche settimana dopo, con scarpe pesanti e vestiti leggeri salire da Prato verso la frazione di Mezzana a bordo di un fuoristrada. Alla guida c’è Giulio, pistoiese, già operatore sociale («con ragazzi agitati», spiega), poi laureato in lettere e oggi novizio dei Ricostruttori. Con una mano regge il volante e con l’altra tiene il telefonino all’orecchio dando indicazioni per lo scarico di un camion di mattoni. Nel frattempo lascia al compagno seduto al suo fianco l’onere di cambiare le marce, interrompendosi di tanto in tanto per declamare: «terza», «seconda», «prima», eccetera, a seconda della bisogna. E subito capisci che qui si è abituati a far gioco di squadra.

Accanto a me ci sono Stefano, milanese 43enne, medico anestesista, e Alessandro, 31enne mediatore culturale napoletano. Conosce cinque lingue, è istruttore di yoga e cuoco vegano. Ma anche lui, oggi, è solo un volontario in jeans e scarponi, pronto a masticar polvere su al borgo. Son tre chilometri di strada sterrata in verticale, una mulattiera tutta buche e massi dove a volte i volontari si avventurano con auto normali che vengono poi estratte dai fossi con cavi d’acciaio. Guadiamo tre volte un fiume e, alla fine, arriviamo a destinazione nello scampanio di un gregge di pecore.
Una battaglia contro i rovi
«Qui i rovi erano alti come un uomo, all’inizio i ruderi quasi non li vedevi. È stato un lavoraccio liberarli. Padre Guidalberto (la loro guida spirituale, ndr) ci si è buttato col decespugliatore ed è uscito coperto di graffi. E lo vedi quello?» mi dicono indicando un muro a secco. «L’abbiamo fatto nei giorni scorsi. Peccato che dovremo alzarlo di 70 centimetri». Per costruirlo, spiegano, hanno dovuto trovare un vecchio muratore giù a valle, tale Alessandro, che gli insegnasse la tecnica. «Gli abbiamo detto: ti paghiamo a pane e preghiere. Lui ha accettato e per tre giorni, a suon d’insulti, ci ha illustrato i fondamentali. Ma alla fine era contento».
Sì, bisogna proprio venire fin qui per capire che razza di sogno questi ragazzi stanno cercando di tirar fuori dalle spine. Ad oggi, della dozzina di edifici in rovina del villaggio, uno solo è stato completamente restaurato, l’ex scuola del villaggio. All’esterno c’è la targa «Casa delle arti» e dentro è tutto lindo e pulito. Puoi già viverci, mangiarci, lavarti, dormirci. Qualcuno ha regalato vecchi mobili e non riesci a credere che solo qualche mese fa era un ammasso di pietre sommerse da rami e rovi. Vedendolo fatto e finito, commentano gli accompagnatori, anche i più scettici hanno ammesso: «Allora ce la farete».

Un sogno nel prato
Ma le cose da fare restano tantissime. Attraversiamo il villaggio e ci viene spiegato che cosa sorgerà dentro questo o quel rudere: «Qui ci sarà una grande aula per la meditazione, e sopra un refettorio, qui la cripta e la casa del pane, qui l’erboristeria spirituale e là l’orto officinale. Nello sperone lì davanti vivranno monaci e monache, laggiù metteremo le famiglie dei malati». Si tratterà di intense opere di restauro di edifici pericolanti. Vengo accompagnato alla parte alta del borgo dove c’è un grande prato con l’affaccio sulla valle. «Ecco: è qui che costruiremo da zero l’hospice. Sarà una cascina in pietra e legno a un solo piano, conterà una dozzina di stanze». I volontari guardano il prato vuoto e sorridono. Non sembrano temere l’argomento tabù che quell’edificio rappresenterà. D’altra parte «siamo cercati proprio per queste competenze. A volte le scuole ci chiamano per parlare nelle classi quando muore un ragazzino».

A Mezzana di Cantagallo, quindi, sorgerà un villaggio che prenderà in consegna le persone che devono fare i conti con i propri limiti. «Quando una malattia inguaribile sarà in stato avanzato ma la morte ancora abbastanza lontana», spiega Nicola, «una persona potràtrasferirsi prima alla ’’Casa del grano’’ per poi andare nell’hospice lì accanto solo nelle ultime settimane. Un passaggio graduale, che dura mesi». «Dobbiamo rialfabetizzare le persone all’idea della fine», aggiunge Giulio. «Più la presa a carico è precoce, meglio è. L’accompagnamento alla morte comprende cure mediche, medicina complementare e spiritualità e riguarda anche chi sta bene. Prevediamo di ospitare anche i parenti dei malati terminali».
Anche i buddisti aiutano
A colpi di piccone, carriole di malta, ore di sudore e preghiere, sta per nascere un mondo a parte, che già gode del sostegno della Regione Toscana, della Chiesa cattolica, ma anche dell’Unione buddista, che per il progetto ha donato 142 mila euro. Senza contare i tanti vip che si sono affezionati al borgo, come Simone Cristicchi, Franco Battiato e l’intera famiglia Celentano (soprattutto Rosita). E il sostegno scientifico del Master Death Studies & End of Life dell’Università degli studi di Padova.
Ci credono le istituzioni e ci credono i volontari, un gruppo eterogeneo di medici (in particolare nel campo delle cure palliative) architetti, impresari, artigiani, o semplici studenti che si prendono un weekend per dare una mano a padre Guidalberto, a Cinzia, a Giulio, ad Anne, a Nicola, a Lapo e a tutti gli altri. Come Silvia, 23.enne di Dicomano nel Mugello, un sorriso contagioso e molti sogni nel cassetto. La incontriamo a Prato, dopo essere ridiscesi in jeep dal Borgo, ripercorrendo in senso opposto la strada sterrata che avevamo affrontato in mattinata. Qui, su incarico della Diocesi cittadina, i Ricostruttori gestiscono da tre anni un complesso rinascimentale (era la villa del mercante Francesco Datini, morto a Prato nel 1410) per realizzarvi un centro di spiritualità e di animazione culturale. «Studio infermieristica e magari finirò a lavorare nell’hospice del borgo. Per ora posso dire che oltre a meditare sto imparando a fare il manovale».

Ci saluta per raggiungere un gruppo di volontari di varie età intento alla costruzione di una tettoia.
La ritroveremo qualche ora dopo assieme a tutti gli altri compagni di fatica - chi più chi meno inzaccherati di povere e sudore – sul pavimento coperto di tappeti della cappella della casa di Prato, una chiesa del Quattrocento dove i membri del gruppo si trovano due volte al giorno per meditare. Perché il progetto di questi sognatori cristiani che sfidano il tabù del nostro tempo, parte tutto da lì dentro, da quella mezz’ora di silenzio e preghiera, privatissima e al contempo condivisa, da quel contatto con l’eterno in cui la separazione tra esseri umani e entità divina, tra amanti e Amato, tra vivi e morti diventa sottilissima, invisibile, si rarefà e infine sparisce.

IL PROGETTO
Il progetto TuttoèVita intende far rivivere il Borgo toscano di Mezzana, nel Comune di Cantagallo, abbandonato e diroccato in una valletta laterale alla valle del fiume Bisenzio (sopra, una panoramica dello stato attuale dei lavori), favorendo sia il ripopolamento della montagna pratese che la sua ricostruzione spirituale: restituire al mondo luoghi abbandonati, offrire agli scettici uno stimolo per leggere i misteri della vita con sguardo nuovo, e per chi si impegna a fare tutto questo, un ricostruire se stesso. La ricostruzione si vuole eco-sostenibile, affinché il Borgo di Mezzana ritorni a vivere secondo i principi dell’ecologia integrale e sociale e secondo la vocazione all’accoglienza ed all’integrazione che caratterizza le due associazioni promotrici.
I DETTAGLI
•Si realizzerà un villaggio ecosostenibile, abitato da alcune famiglie con bambini e da una piccola comunità di monaci che vivranno qui una vita di condivisione e spiritualità basata su un rapporto essenziale e diretto con la natura e che offra ai cittadini servizi in ambito sociosanitario, culturale, ecologico e d’integrazione attraverso il dialogo interculturale e interreligioso.
•Si realizzeranno due strutture residenziali (“Casa del grano” e Hospice – incentrato sulla meditazione e primo nel suo genere in Europa) per ospitare persone affette da patologie considerate inguaribili nelle diverse fasi della malattia e i loro familiari e offrire un accompagnamento sanitario e spirituale non confessionale.
•I terreni del Borgo verranno utilizzati per progetti di agricoltura biologica con reinserimento delle specie vegetali locali
COS’È UN HOSPICE?
L’Hospice è un luogo di cura per poter accompagnare le persone insieme ai loro cari nel passaggio da questa vita ad un Oltre pieno di speranza. Il personale che vi lavora è composto da operatori sanitari e volontari con una formazione specifica nelle Cure Palliative. L’Hospice è anche il luogo in cui si realizza pienamente una specifica filosofia terapeutica, quella delle cure palliative, secondo cui si ha cura dei sintomi fisici della persona, insieme alla dimensione umana, psicologica, sociale e spirituale. Generalmente è composto da un numero ridotto di stanze singole, confortevoli, accoglienti, in cui può soggiornare anche chi sta accanto alla persona che sta per fare l’ultimo grande viaggio. Uno spazio intimo, silenzioso dove scambiarsi gli ultimi gesti d’amore e di saluto, con la possibilità di personalizzarlo così da ricreare un ambiente quanto più possibile familiare, portando da casa gli oggetti più cari ed anche piccoli animali domestici.
I CONTATTI
Associazione Tutto è Vita Onlus; Via Arcangelo Corelli 33/C, 50127 Firenze, tel. 055.417536; [email protected]. Si può contribuire facendo una donazione detraibile, sia come privato che come azienda, sul conto intestato a: Tutto Vita: IT02B0200802847000103160820 Causale: “Erogazione liberale per progetto Prato” (vedi https://borgotuttovita.it/come-aiutarci/)

Padre Guidalberto: «Il peggiore eufemismo è parlare di fine vita»
È più facile accompagnare alla morte in luogo lontano dalla vita quotidiana? Lo chiediamo a padre Guidalberto Bormolini (nella foto sopra), ideatore del progetto TuttoéVita. «La morte, ci spiega, viene tenuta troppo lontana. Interrogarsi sulla morte è alle origini delle più grandi riflessioni filosofiche. Se torniamo a questo interrogativo costruiremo fondamenta solide per una civiltà che un po’ vacilla. Invece è successo l’occultamento della morte. Una sorta di tabù, di indicibilità, di incomunicabilità... la stessa parola morte non viene più pronunciata». Uno non muore più, dice padre Guidalberto: «Si dice: ci ha lasciato, è scomparso ... Ma il peggiore eufemismo è fine vita». La ragione, per il nostro interlocutore si basa sulla riflessione degli antichi sulla morte. «Ne parlavano per avere accesso a un oltre. L’interrogativo fondamentale sulla vita lo pone la morte: perché siamo qua se abbiamo un termine. Cosa succede? C’è un oltre?» Invece, parlare di fine vita «chiude definitivamente il sipario, quando forse, attraverso la morte si scopre la vera vita. Ci si allontana dalla vita caotica per scoprire la vita vera. Se avessi chiesto ai filosofi greci: perché fai filosofia, molti mi avrebbero risposto: per imparare a morire».
Quando gli chiediamo se non teme di venir descritto come quello del villaggio dei morti, sorride. «È un titolo di merito. Non esiste una vita oltre la morte. Esiste la vita. Abbiamo creato un’opposizione vita-morte, invece di integrare la morte come uno dei passaggi della vita. Le iniziazioni studiate dalla storia delle religioni e dall’antropologia, quelle della pubertà, erano sempre dei riti di morte e resurrezione. Uno doveva imparare che ogni tanto, per vivere, bisogna far morire qualcosa che non è più utile alla vita superiore. La natura ci educa a questo, al fatto che la vera vita richiede la morte di qualcosa di inutile. E per un cristiano c’è la morte e la resurrezione. Non siamo morti viventi, siamo viventi che hanno integrato la morte come occasione di vita».
Tutto molto bello, ma è davvero possibile vincere la paura della morte? «Secondo alcuni è impossibile, ma la si può gestire. L’evitamento è pericoloso perché impedisce l’elaborazione dell’inevitabile incontro con la morte. La mistica, poi, dice che l’annullamento di sè è l’espansione infinita di sè. Da questo punto di vista la paura della morte scompare perché ci si pone su un piano esterno alla morte stessa. Nell’amore tra l’amante e l’amato, l’annullamento di sè, il dono totale di sè fa parte dell’atto d’amore».
In teoria ci sta. ma lui, a 53 anni compiuti, è pronto per la morte? «Dire che mi sento pronto è troppo. Ma ho dedicato molta parte della mia vita a pensare che l’invisibile prevale sul visibile e a cercare di viverlo quotidianamente nella meditazione. Io cambierei la prospettiva: penso che sia pronto l’Amico che mi accoglie. Se è pronto Lui, son pronto anch’io».