L'intervista

«Nelle università statunitensi un clima di paura: su Gaza non c'è libertà di parola»

Natasha Lennard ha recentemente firmato per The Intercept un reportage negli atenei americani: qui professori che hanno parlato a favore della Palestina hanno perso il lavoro – A tu per tu con la giornalista e professoressa in giornalismo critico
© EPA/SARAH YENESEL
Giacomo Butti
23.06.2024 15:00

«Negli Stati Uniti, professori universitari perdono il proprio lavoro a causa del "nuovo maccartismo" su Gaza». Così, il mese scorso, Natasha Lennard – giornalista e professoressa in giornalismo critico alla The New School di New York – titolava il suo reportage comparso su The Intercept, frutto di un'indagine nei college americani. Secondo le testimonianze raccolte da Lennard, sono numerosi i membri del corpo docente che, in diverse università, hanno negli ultimi mesi difeso il diritto degli studenti a protestare. Ma chi, fra questi, si è espresso apertamente (intra o extra muros) a favore della causa palestinese o contro le operazioni dello Stato israeliano nella Striscia ha, spesso, subito gravi conseguenze professionali. Con Natasha Lennard abbiamo approfondito la questione, tra proteste universitarie ed etica del giornalismo.

Natasha Lennard.
Natasha Lennard.

Come giornalista e direttrice associata del programma di giornalismo critico della New School, ha vissuto la questione da osservatrice esterna e da diretta interessata. Che aria tira nelle università americane?
«Il sentimento prevalente è, per molti versi, la paura. La più dannosa è quella della dirigenza universitaria: paura di perdere i finanziamenti da parte dello Stato e dei donatori privati, a causa di accuse di antisemitismo altamente politicizzate ed estremamente gonfiate. Si tratta di una paura strumentalizzata, prodotta in parte da un attacco repubblicano durato anni contro l'istruzione superiore per motivi finanziari e ideologici. Le amministrazioni universitarie stanno assecondando la volontà di politici di destra e di gruppi conservatori pro-Israele, tradendo migliaia di studenti e professori.

Poi c'è la paura provata dagli studenti ebrei pro-Israele.
«Sì, ed è alimentata dalle stesse forze conservatrici, da anni di condizionamento e da notizie fuorvianti dei media: se sei uno studente e ti viene detto, ancora e ancora, che l'antisemitismo è dilagante, allora avrai paura. Come professoressa ebrea, trovo fondamentale sfidare questa narrazione: le proteste per la Palestina non sono antisemite. Il numero esiguo di incidenti antisemiti registrati in questi mesi rappresenta una rara eccezione e ci si concentra su di essi per offuscare un movimento cruciale contro la guerra».

E dall'altro lato?
«La paura degli studenti palestinesi e di altri musulmani – contro i quali si è assistito a un'impennata straordinaria di violenze – riceve molta meno attenzione da parte dei media. In generale, gli studenti rischiano di essere sospesi e perdono opportunità professionali per essersi opposti a quello che, secondo le più alte corti internazionali, potrebbe plausibilmente essere un genocidio; per aver parlato contro quello che quasi tutti i gruppi internazionali per i diritti umani definiscono un regime di apartheid. Per aver sostenuto la Palestina».

L'argomento è, dunque, off-limits?
«L'"eccezione palestinese" alla libertà di parola e accademica non è nuova, ma è arrivata a livelli agghiaccianti: decine di professori hanno perso contratti già precari, con poche possibilità di ricorso, a causa del proprio attivismo o, semplicemente, per aver parlato pubblicamente a favore della Palestina. Il mio reportage ha rilevato che solo i professori pro-Palestina, in particolare quelli di colore, sono stati presi di mira nonostante si siano espressi nei limiti del protected speech (nel rispetto delle regole imposte dal Primo emendamento, che garantisce libertà di espressione, ndr). La maggior parte dei professori americani non ha più alcuna tutela sul lavoro, quindi le condizioni per questo tipo di repressione erano mature».

La protesta ha creato ponti o fossati tra studenti e professori?
«Ho assistito a una straordinaria solidarietà tra docenti e studenti; anche i membri della facoltà che potrebbero non condividere l'impegno per la causa palestinese hanno sempre sostenuto i loro studenti contro gli attacchi della polizia e la repressione dell'amministrazione. Un senso di resistenza che non si vedeva (mi dicono i colleghi più anziani) dai tempi del movimento contro la guerra degli anni Sessanta. Naturalmente ci sono casi anomali e preoccupanti – ad esempio un professore della Columbia Business School, estremista e favorevole a Israele, che ha effettuato il doxxing (pubblicazione online di informazioni private, ndr) di numerosi studenti musulmani sostenitori della Palestina – ma per fortuna si tratta eventi rari. La vera spaccatura è tra l'amministrazione e studenti o membri di facoltà».

Parliamo del paragone tra le proteste di oggi e quelle dell'epoca del Vietnam. Il giornalismo americano, nel descrivere il dissenso e tutto ciò che può essere scomodo per l'amministrazione, è migliorato o peggiorato?
«Si tratta di una questione estremamente complicata. Per molti versi, grazie al Black power, a movimenti indigeni, femministi, queer e simili, oggi vediamo un panorama mediatico più diversificato. Ma sulla questione israelo-palestinese e sulle proteste per la Palestina negli Stati Uniti, l'establishment mediatico americano è come sempre complice di narrazioni fuorvianti, razziste e distorte».

In che modo?
«La copertura mediatica delle proteste – dal New York Times al The Atlantic, a Fox News e altri – è stata a dir poco distorta. La violenza fisica rivolta contro gli studenti palestinesi e pro-Palestina viene equiparata a quanto vissuto dagli studenti ebrei pro-Israele, arrabbiati perché sentono descrivere Israele come un regime di apartheid genocida. Questo è il pernicioso “both-sidesism” (definibile in italiano come falso equilibrio, ndr) tanto amato dal presunto giornalismo americano oggettivo e che rimane un flagello. I media dell'establishment tendono a denigrare la linea palestinese con sfumature costantemente islamofobiche. Allo stesso modo, il collasso dell'industria dei media continua a spazzare via un numero sempre maggiore di organi d'informazione indipendenti e cruciali. Per questo motivo la capacità di produrre un giornalismo più coscienzioso e coraggioso è sempre più preclusa».

Intanto, in otto mesi di conflitto, a Gaza sono stati uccisi cinque volte più giornalisti di quanti ne siano morti in oltre due anni di guerra aperta in Ucraina.
«Bisogna essere chiari: il giornalismo che conta di più in questo momento viene proprio da Gaza, dai giornalisti palestinesi che ogni giorno raccontano dall'inferno, rischiando la vita e perdendo i loro cari a decine. Israele ha ucciso oltre 100 giornalisti palestinesi solo in questa guerra, con casi documentati di reporter presi di mira in modo specifico. L'establishment dei media statunitensi dovrebbe essere furioso per questo attacco ai nostri colleghi: non lo è, ed è una vergogna».

Ha riscontrato differenze nei modi in cui i media mainstream raccontano la guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente?
«In Germania, Paese da cui proviene mio marito, la differenza è così marcata che è difficile da credere: la totale fedeltà a Israele e la continua disumanizzazione dei palestinesi sono intollerabili. Gli esempi statunitensi sono quasi altrettanto negativi. I palestinesi sono inquadrati come terroristi, gli ucraini come combattenti per la libertà con il diritto di resistere. L'uso del linguaggio è, come sempre, rivelatore: I titoli dei giornali parlano di palestinesi uccisi, con la voce passiva. Uccisi da chi, affamati da chi? Gli stessi organi di stampa scrivono prontamente della Russia che massacra gli ucraini: senza alcun uso della voce passiva».