«Nelle università statunitensi un clima di paura: su Gaza non c'è libertà di parola»
«Negli Stati Uniti, professori universitari perdono il proprio lavoro a causa del "nuovo maccartismo" su Gaza». Così, il mese scorso, Natasha Lennard – giornalista e professoressa in giornalismo critico alla The New School di New York – titolava il suo reportage comparso su The Intercept, frutto di un'indagine nei college americani. Secondo le testimonianze raccolte da Lennard, sono numerosi i membri del corpo docente che, in diverse università, hanno negli ultimi mesi difeso il diritto degli studenti a protestare. Ma chi, fra questi, si è espresso apertamente (intra o extra muros) a favore della causa palestinese o contro le operazioni dello Stato israeliano nella Striscia ha, spesso, subito gravi conseguenze professionali. Con Natasha Lennard abbiamo approfondito la questione, tra proteste universitarie ed etica del giornalismo.
Come giornalista e direttrice associata del programma di giornalismo
critico della New School, ha vissuto la questione da osservatrice esterna e da diretta interessata. Che aria tira nelle università americane?
«Il sentimento prevalente è, per molti versi,
la paura. La più dannosa è quella della dirigenza
universitaria: paura di perdere i finanziamenti da parte dello Stato e dei
donatori privati, a causa di accuse di antisemitismo altamente
politicizzate ed estremamente gonfiate. Si tratta di una paura
strumentalizzata, prodotta in parte da un attacco repubblicano durato anni
contro l'istruzione superiore per motivi finanziari e ideologici. Le
amministrazioni universitarie stanno assecondando la volontà di
politici di destra e di gruppi conservatori pro-Israele, tradendo migliaia di studenti e professori.
Poi c'è la paura provata dagli studenti ebrei pro-Israele.
«Sì, ed è alimentata dalle stesse forze conservatrici, da
anni di condizionamento e da notizie fuorvianti dei media: se sei uno studente
e ti viene detto, ancora e ancora, che l'antisemitismo è dilagante, allora
avrai paura. Come professoressa ebrea, trovo fondamentale sfidare questa
narrazione: le proteste per la Palestina non sono antisemite. Il numero esiguo
di incidenti antisemiti registrati in questi mesi rappresenta una rara
eccezione e ci si concentra su di essi per offuscare un movimento cruciale
contro la guerra».
E dall'altro lato?
«La paura degli studenti palestinesi e di altri musulmani – contro i
quali si è assistito a un'impennata straordinaria di violenze –
riceve molta meno attenzione da parte dei media. In generale, gli studenti rischiano di essere sospesi e
perdono opportunità professionali per essersi opposti a quello che, secondo le
più alte corti internazionali, potrebbe plausibilmente essere un genocidio; per aver parlato
contro quello che quasi tutti i gruppi internazionali per i diritti umani
definiscono un regime di apartheid. Per aver sostenuto la Palestina».
L'argomento è, dunque, off-limits?
«L'"eccezione palestinese" alla libertà di parola e accademica
non è nuova, ma è arrivata a livelli agghiaccianti: decine di professori hanno
perso contratti già precari, con poche possibilità di ricorso, a causa del
proprio attivismo o, semplicemente, per aver parlato pubblicamente a favore
della Palestina. Il mio reportage ha rilevato che solo i professori
pro-Palestina, in particolare quelli di colore, sono stati presi di mira
nonostante si siano espressi nei limiti del protected speech (nel
rispetto delle regole imposte dal Primo emendamento, che garantisce libertà di
espressione, ndr). La maggior parte dei professori americani non ha più alcuna tutela sul lavoro,
quindi le condizioni per questo tipo di repressione erano mature».
La
protesta ha creato ponti o fossati tra studenti e professori?
«Ho assistito a una straordinaria solidarietà tra docenti e studenti; anche
i membri della facoltà che potrebbero non condividere l'impegno per la causa
palestinese hanno sempre sostenuto i loro studenti contro gli attacchi della polizia
e la repressione dell'amministrazione. Un senso di resistenza che non si vedeva (mi dicono i colleghi più anziani) dai tempi del movimento contro la guerra degli anni Sessanta. Naturalmente ci sono casi anomali e
preoccupanti – ad esempio un professore della Columbia Business School,
estremista e favorevole a Israele, che ha effettuato il doxxing (pubblicazione
online di informazioni private, ndr) di numerosi studenti musulmani sostenitori
della Palestina – ma per fortuna si tratta eventi rari. La vera spaccatura è
tra l'amministrazione e studenti o membri di facoltà».
Parliamo del paragone tra le proteste di oggi e quelle dell'epoca del Vietnam. Il giornalismo
americano, nel descrivere il dissenso e tutto ciò che può essere scomodo per
l'amministrazione, è migliorato o peggiorato?
«Si tratta di una questione estremamente complicata. Per molti versi, grazie al Black power, a
movimenti indigeni, femministi, queer e simili, oggi vediamo un panorama
mediatico più diversificato. Ma sulla questione israelo-palestinese e sulle proteste per la Palestina negli
Stati Uniti, l'establishment mediatico americano è come sempre complice di
narrazioni fuorvianti, razziste e distorte».
In che modo?
«La copertura mediatica delle
proteste – dal New York Times al The Atlantic, a Fox News
e altri – è stata a dir poco distorta. La violenza fisica rivolta contro gli
studenti palestinesi e pro-Palestina viene equiparata a quanto vissuto
dagli studenti ebrei pro-Israele, arrabbiati perché sentono descrivere Israele
come un regime di apartheid genocida. Questo è il pernicioso “both-sidesism”
(definibile in italiano come falso equilibrio, ndr) tanto amato dal
presunto giornalismo americano oggettivo e che rimane un flagello. I media
dell'establishment tendono a denigrare la linea palestinese con sfumature
costantemente islamofobiche. Allo stesso modo, il collasso dell'industria dei media
continua a spazzare via un numero sempre maggiore di organi d'informazione
indipendenti e cruciali. Per questo motivo la capacità di produrre un giornalismo
più coscienzioso e coraggioso è sempre più preclusa».
Intanto, in otto mesi di conflitto, a Gaza sono stati uccisi cinque volte
più giornalisti di quanti ne siano morti in oltre due anni di guerra aperta in
Ucraina.
«Bisogna essere chiari: il giornalismo che conta di più in questo momento
viene proprio da Gaza, dai giornalisti palestinesi che ogni giorno raccontano
dall'inferno, rischiando la vita e perdendo i loro cari a decine. Israele ha
ucciso oltre 100 giornalisti palestinesi solo in questa guerra, con casi
documentati di reporter presi di mira in modo specifico. L'establishment dei
media statunitensi dovrebbe essere furioso per questo attacco ai nostri
colleghi: non lo è, ed è una vergogna».
Ha riscontrato differenze nei modi in cui i media mainstream raccontano la guerra in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente?
«In Germania, Paese da cui proviene mio marito, la differenza è così
marcata che è difficile da credere: la totale fedeltà a Israele e la continua
disumanizzazione dei palestinesi sono intollerabili. Gli esempi statunitensi
sono quasi altrettanto negativi. I palestinesi sono inquadrati come terroristi,
gli ucraini come combattenti per la libertà con il diritto di resistere. L'uso
del linguaggio è, come sempre, rivelatore: I titoli dei giornali parlano di
palestinesi uccisi, con la voce
passiva. Uccisi da chi, affamati da chi? Gli stessi organi di stampa scrivono
prontamente della Russia che massacra gli ucraini: senza alcun uso della voce
passiva».