L'intervista

«Non è facile oggi disegnare l’identikit dei nuovi immigrati»

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Paolo Ruspini, docente di Migrazioni e società multiculturali all’Università Roma Tre
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Dario Campione
10.02.2025 06:00

Paolo Ruspini insegna Migrazioni e società multiculturali all’Università Roma Tre ed è anche ricercatore associato all’Istituto di Ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra. Dal 2008 al 2017 è stato ricercatore senior all’Università della Svizzera Italiana, a Lugano.

Professor Ruspini, nel suo ultimo libro lei riafferma la «natura inseparabile di memoria e migrazioni», concetti che definisce «polarizzanti», e si sofferma in particolare sul rapporto tra Svizzera e Italia. È possibile, oggi, fare un identikit di chi emigra, e in particolare di chi sceglie il Ticino come terra di approdo?
«È necessaria una premessa: nei miei studi applico un approccio transnazionale che consente, non solo a me, naturalmente, di leggere i processi migratori in modo globale, come fatto totale. Per certi versi, oggi, anche in virtù dei cambiamenti di flussi, le categorie di emigrante e immigrato sono ridiscusse dalla comunità scientifica, appunto nell’ottica di una visione più complessiva dei processi e dei legami che gli stessi migranti mantengono. In senso lato, le narrazioni sulle migrazioni che fanno comodo ad alcune parti politiche, di fatto, non corrispondono più alla realtà di ciò che accade sul terreno. Oggi, buona parte dei Paesi, in tutta la Terra, sono al contempo sia luoghi di immigrazione sia di emigrazione. Inoltre, giocano un ruolo importante sia la migrazione interna sia la migrazione di transito: se si pensa, ad esempio, al caso italiano, molti sono coloro che transitano lungo la Penisola diretti verso l’Europa del Nord».

Insomma, la migrazione è un fenomeno molto più complesso di quanto si potrebbe immaginare o, normalmente, si descrive.
«È così. Ho fatto una lunga premessa anche per sfatare tutto il linguaggio relativo alle “invasioni”. Numeri e statistiche, in realtà, sgonfiano e riducono significativamente la portata dei processi. Detto questo, è chiaro che il caso svizzero è molto interessante perché la Confederazione è un Paese storico di immigrazione, non da ieri e nemmeno dall’altro ieri, ma dall’inizio del secolo scorso. Ed è un Paese che, a sua volta, ha attraversato numerose fasi di emigrazione: pensiamo, semplicemente, ai ticinesi che sono andati a vivere e a lavorare in America del Sud».

Torniamo alla domanda iniziale: esiste un possibile identikit dei migranti in Svizzera e in Ticino?
«Diciamo innanzitutto che molto è cambiato rispetto al passato, e non soltanto perché sono scomparsi i migranti con le cosiddette valigie di cartone. Il primo fattore da tenere in considerazione è anagrafico. Nell’epoca dei grandi flussi post Seconda guerra mondiale, la Svizzera - così come altri Paesi del Nord Europa - aveva firmato alcuni accordi per favorire l’arrivo di migranti. Siamo nel periodo dei cosiddetti lavoratori ospiti o lavoratori stranieri nel contesto svizzero. I Gastarbeiter. Persone, soprattutto quelle provenienti dall’Italia, che sfuggivano da contesti di disoccupazione o inoccupazione, invogliate anche ad andarsene proprio in virtù degli accordi bilaterali tra Governi. In Italia c’era un surplus di manodopera che, obiettivamente, non trovava sfogo in una situazione postbellica drammatica».

Poi le cose sono cambiate.
«Sì, e il cambiamento significativo dei flussi migratori verso la Svizzera avviene dopo il 1973, quando diventa possibile il ricongiungimento familiare. Parliamo del periodo successivo alla cosiddetta iniziativa Schwarzenbach, che fu votata e respinta con il 54% dei voti il 7 giugno 1970. Prima, di fatto, chi emigrava era solo, con statuti anche temporanei e magari con impieghi stagionali. Soddisfaceva una forte domanda del mercato del lavoro elvetico in tutta una serie di comparti, dalle ferrovie all’industria. Tra gli anni ’50 e gli anni ’60, la Confederazione stava sviluppando le proprie infrastrutture industriali e trovò una forte risposta alla sua ricerca di manodopera in questi 40-50enni, all’epoca visti appunto come braccia, scomodando sempre la frase abusata di Max Frisch».

«Cercavamo braccia, sono arrivati uomini».
«Esatto. E questo ci permette anche di fare una riflessione sulle caratteristiche delle comunità di migranti».

Quale riflessione?
«Erano comunità coese, nelle quali le persone si sostenevano maggiormente le une con le altre. Di fronte a un ambiente ostile, i migranti facevano gruppo. Non scomodo la psicologia sociale, ma reagivano a un contesto che, pragmaticamente, dal punto di vista lavorativo, li cercava e da altri punti di vista, invece, li avvertiva come un corpo estraneo».

E oggi?
«Oggi molto è cambiato. Pensiamo ai flussi della mobilità intraregionale o ai percorsi circolari di chi decide di intraprendere o di completare un percorso di studi e poi fare ritorno a casa in assenza di offerte di lavoro giudicate interessanti o sufficientemente remunerative. Va detto, tuttavia, che in questa migrazione di successo, con la ventiquattrore anziché con la valigia di cartone, c’è anche una costruzione significativa dal punto di vista politico, qualcosa che tende a nascondere la realtà internazionale di un mercato del lavoro fortemente deregolamentato da politiche neoliberiste. Le nuove generazioni, rispetto al passato, devono comunque faticare, sgomitare per trovare un lavoro. E a fianco dei super-competenti di successo, di chi ha la fortuna o i numeri per poter approdare a dottorati prestigiosi e a offerte di impiego conseguenti, vi è una cosiddetta neo-immigrazione operaia che si è mossa approfittando anche degli accordi bilaterali e che trova sbocco nel mercato del lavoro elvetico».

Si può quindi dire che le ragioni della nuova emigrazione sono molto più complesse e molto più sfaccettate rispetto a quelle della metà del secolo scorso.
«Sì. La ricerca di lavoro è un fattore forte, però c’è una generazione che cerca anche occasioni e possibilità diverse. Torniamo alla lettura della migrazione come fatto globale: per molti giovani migrare significa spostarsi per cercare nuove opportunità, fare esperienze nuove, cambiare vita. Qualcosa di molto diverso rispetto all’unico motivo che, letteralmente, spingeva una generazione a cercare il pane».

Lei nel suo libro parla anche della memoria dell’emigrazione, che sembra scomparsa: non c’è più la memoria di tutto quello che è accaduto in passato.
«Ai miei studenti faccio vedere i filmati dell’Archivio RSI affinché capiscano che cosa provassero, negli anni ’70, i figli dei migranti italiani. Le nuove generazioni di migranti hanno meno consapevolezza. Hanno rescisso quei legami forti che i loro genitori o i loro nonni avevano allacciato, organizzandosi e reagendo insieme a un contesto estraneo».

Tra identità e modernità: il libro

Il saggio di Paolo Ruspini, «Memoria e migrazioni. Percorsi di ricerca tra Svizzera e Italia in prospettiva transnazionale» (Mimesis, 2024) analizza appunto il legame tra migrazioni e memoria. I temi trattati comprendono le vecchie e le nuove migrazioni italiane verso la Confederazione, le cosiddette «seconde generazioni» e le dinamiche dell’invecchiamento in un’ottica nazionale ed europea. Nella parte conclusiva offre pure modelli formativi sul tema del rapporto tra identità e memoria.