«Non sia l'attore a giudicare i personaggi»
Abbiamo incontrato l’attore peruviano coprotagonista di Reinas, il film visto ieri sera in Piazza (vedi recensione qui sotto a cura di Marisa Marzelli).
In Reinas il tema della
famiglia è molto presente. Carlos, il personaggio che lei interpreta, ne mette
in discussione gli stereotipi, è un antieroe. Come si è avvicinato a questo
personaggio?
«La prima volta che lessi il copione il
personaggio di Carlos mi sembrò subito piacevole, nonostante fosse un uomo con
anche un lato più difficile: non vede le sue figlie, mente, sparisce. A suo
favore posso dire che tenta disperatamente di amare, ma senza sapere come,
probabilmente non gli è stato insegnato e soffre molto per questo. È proprio da
questo punto di vista che ho cercato di capirlo. Credo che gli attori debbano
innanzitutto cercare di comprendere i loro personaggi senza giudicarli».
Ambientato nel Perù
degli anni Novanta, il film fa luce su un aspetto della storia recente del
Paese che raramente viene rappresentato. Cosa ricorda di quegli anni?
«In quegli anni ero nel pieno
dell’adolescenza. Sono nato a Chincha, dove rimasi fino ai dieci anni, poi
iniziò la crisi economica e ci trasferimmo a Piura, nel Nord del Paese. Lì però
l’inflazione ci travolse letteralmente, ricordo momenti molto duri. Mio padre,
come Carlos, era costretto ad avere molti lavori, così nel 1991 ci spostammo a
Lima, ma quello fu l’anno peggiore, la violenza di quegli anni si concentrava
proprio nella capitale e il clima si stava infiammando ovunque. Ripensandoci
oggi non so come i miei genitori abbiamo fatto a permettermi di uscire per le
strade con gli amici, oggi come padre impazzirei sapendo i miei figli là fuori.
Credo che il nostro fosse un modo per evadere, ci rifugiavamo nel mondo degli
amici per dimenticare quanto ci stava accadendo intorno. Vivevamo nella paura,
fu un’epoca molto difficile in cui si costruirono parecchi muri, non so come
siamo riusciti ad uscirne».
Negli stessi anni lei ha
iniziato anche a recitare.
«Quando iniziai a
recitare la situazione era un po’ più tranquilla, tuttavia avvicinarsi a una
carriera del genere durante quegli anni era qualcosa di folle. Nelle sale dei
teatri si contavano pochissimi spettatori e nel mondo del teatro vige una
regola: non si fa una rappresentazione se in sala non ci sono più spettatori
rispetto a quelle precedenti. Così capitava che invitassimo gli sconosciuti, la
famiglia, gli amici, fino ai cugini dei cugini».
Reinas ci parla però
anche di altro.
«Credo che Reinas sia una pellicola
universale perché ci parla dell’impossibilità e delle difficoltà che abbiamo ad
amare e di quell’impulso che abbiamo di non perdere un legame, come quello con
i nostri figli o con i nostri cari. Non credo che Carlos ed Elena vogliano
tornare insieme, credo che si tratti invece della necessità di guarire le
ferite, di trovare un terreno d’incontro. È questa tenerezza che accompagna
tutto il film che lo rende universale, ma allo stesso tempo molto latino e peruviano. È un film che
ci spinge a non perdere la tenerezza nonostante la violenza e la complessità
del mondo».
Reinas
Regia: Klaudia Reynicke
È come se un atleta formatosi in periferia andasse alle Olimpiadi e tornasse con un paio di medaglie. Fuor di metafora, Reinas (della regista di origine peruviana Klaudia Reynicke, che vive da anni in Ticino) è stato presentato in prima mondiale al Sundance Festival nel concorso World Cinema Dramatic (prima medaglia) e poi alla Berlinale dove è stato premiato (seconda medaglia). Reinas è il terzo film della Reynicke, dopo Il nido e Love Me Tender, entrambi presentati negli anni scorsi al Locarno Film Festival. Tratto tematico in comune alle tre opere della regista, uno sguardo minimalista e attento al femminile. Tecnicamente si nota una progressione nella complessità filmica con cui viene elaborata la materia. In Reinas la regista, in modo parzialmente autobiografico, affronta le proprie origini. Nella tumultuosa Lima del 1992, con un’ambientazione più del cuore e della memoria che non una ricostruzione puntuale, due sorelle, l’adolescente Lucia e la più piccola Aurora, stanno per lasciare il Paese con la loro mamma, mentre il padre assente rientra in scena solo perché deve firmare i documenti di espatrio. La presenza del genitore, estroverso e forse mitomane, taxista per necessità economica e millantato agente segreto, rappresenta per l’uomo la possibilità di (ri)conquistare l’affetto delle figlie; per le ragazze l’occasione di conoscerlo meglio. La sceneggiatura, scritta dalla stessa Reynicke insieme a Diego Vela (un altro peruviano che vive in Europa), affronta i temi dello sradicamento e del percorso di crescita e di passaggio dall’età infantile a quella adulta. Dunque, la famiglia e le sue tante dinamiche al centro. Storie dove le presenze femminili sono dominanti, anche se il simpatico e sgusciante padre cerca di farsi benvolere. Il tutto raccontato con abbondanza e varietà di musiche, suoni, colori da commedia, senza escludere qualche pennellata più ironica (senza esagerare). Ma questa è solo un’anima del film, quella incentrata sul privato dei personaggi, osservati spesso in dettagli minimi, con uno sguardo femminile attento e complice che sembra aver preso spunto dall’inarrivabile leggerezza di Almodovar. E poi c’è il versante politico, a tratti sullo sfondo ma sempre incombente. Come sperimentano i personaggi quando si ritrovano in polizia perché le ragazzine hanno violato il coprifuoco. Cala così sulla spensieratezza della commedia una cappa minacciosa. Un pericolo da non sottovalutare mai. Ma questo côté non fa di Reinas un film politico; sono le radici stesse della cultura sudamericana e spagnola ad aver istillato nel DNA di quei popoli la paura di dittatura latente nata da drammatiche esperienze storiche.