«Oggi l’Artico è una cortina di ghiaccio che separa due blocchi»
Avevamo conosciuto Marzio Mian a Chiassoletteraria. Allora (2018) presentava Artico. Sono cambiate molte cose in pochi anni, anche attorno all'Artico.
«Sì, c’è un prima e c’è un dopo rispetto all’inizio della guerra in Ucraina. Allora l’Artico era ancora “condannato” alla pace, oggi allo scontro, a vari tipi di scontro, anche quello armato. Oggi l’Artico è una cortina di ghiaccio, che separa l’Occidente dal fronte formato da Russia e Cina. Ed è cruciale».
Dopo l’inizio della guerra di invasione russa, è stato sospeso il Consiglio Artico. Ora come viene gestita l’area?
«Già in precedenza la gestione era precaria. Il Consiglio Artico è un organismo intergovernativo con funzioni specifiche ma nessun potere, di fatto era un tavolo di discussione, tutto qui. Oggi non c’è più neppure questo. Sono saltati, di colpo, 420 progetti tra Stati Uniti e Russia, e nell’Artico è calato il buio. Le leggi internazionali sono anacronistiche rispetto all’Artico, e la regione è diventata un grande Far West».
Il via libera della Norvegia ci ricorda, quindi, che di fatto ogni Stato può fare ciò che vuole.
«Sì, è così. Ed era passata sotto silenzio un’altra notizia. Nel febbraio scorso, la commissione dell’ONU che valuta le rivendicazioni marine sulla base della Legge del Mare ha approvato in larga parte il dossier con cui la Russia sostiene che una vastissima regione dei fondali dell’Artico centrale, incluso il Polo Nord, è la continuazione della sua piattaforma continentale, cioè terra russa».
Nel 2007 già i russi avevano issato la loro bandiera al Polo.
«Un atto simbolico molto forte. E comunque le rivendicazioni russe sulla dorsale di Lomonosov faticano a nascondere le ambizioni di Mosca di mettere le mani su enormi quantità di gas e petrolio. Tornando alla Norvegia, be’, potrebbe essere davvero la prima ad avventurarsi nell’esplorazione mineraria sui fondali artici. Ma d’altronde la Norvegia è un Paese concreto e spregiudicato. Il rapporto tra la Norvegia e le tematiche contemporanee della sostenibilità e dell’ambiente è controverso. E bisogna tenere conto del fatto che la Norvegia, negli ultimi due anni, ha incassato cifre enormi dall’esportazione di gas, beneficiando di fatto della crisi dovuta alla guerra. Però, ecco, qui c’è un salto notevole nello sfruttamento delle materie prime, di minerali che serviranno per l’energia verde, si parla in particolare di zinco e cobalto, magari anche di terre rare. Ma questo salto lo si fa andando a intaccare un equilibrio, quello dell’Artico, molto fragile, molto vulnerabile».
Il tema in questo caso è la caccia alle materie prime, ma in ballo c’è anche la questione delle rotte commerciali.
«Le rotte artiche sono scorciatoie sempre più cruciali. Ma non credo che, qui, si raggiungeranno mai le grandi cifre del canale di Suez. È vero, comunque, che il traffico marittimo lì è in grande espansione. Negli ultimi dieci anni l’incremento è stato del 200-300%. C’è anche un aumento del traffico militare, nella regione. E l’incidente è sempre dietro l’angolo, un po’ perché alcuni territori e confini sono ancora disputabili, un po’ perché la rotta è sempre più trafficata. Secondo gli americani, per esempio, è molto probabile un incidente alle Svalbard legato alla pesca».
Insomma, una guerra è, di fatto, già in atto. Possiamo dirlo?
«Be’, anche perché qui diamo per scontato tutto il discorso legato alla militarizzazione russa. I gioielli, dal punto di vista degli armamenti, i russi ce li hanno proprio lì. E poi c’è l’impegno della NATO nell’area. E oltre alla NATO, una NATO parallela, quella dei Paesi nordici, la cosiddetta coalizione del Nord, che si organizza con il sostegno americano».
In mezzo a tutto questo, gli indigeni sembrano lasciati a loro stessi, ormai. È così?
«Sono molto pessimista sul destino delle popolazioni indigene, compresa quella groenlandese degli Inuit. Con l’interruzione di ogni rapporto e la spaccatura politica che c’è stata nell’Artico, le popolazioni indigene sono ancora più isolate e hanno ancora meno voce in capitolo».