Ottobre 1993: gli spari sulla prima democrazia russa
Tra gli eventi che segnano il decennio cruciale della Russia moderna, dalla fine dell’Unione sovietica all’arrivo di Vladimir Putin (1991-2000), ce n’è uno rimasto impresso in molti di noi, attraverso le immagini dei notiziari: i carri armati a Mosca, nell’autunno 1993, che sparano sulla Casa dei consigli, detta Casa bianca. L’edificio, all’estremità esterna della celebre Nuova Via Arbat, aveva ospitato le autorità della Russia sovietica; oggi vi si trova il governo russo, mentre la presidenza ha sede al Cremlino, anche se Putin si trattiene piuttosto nella tenuta di Novo Ogorëvo, fuori città, o in altri luoghi mai ben precisati.
Il 4 ottobre 1993 la Casa bianca si tinge di nero, incendiata dai proiettili sparati dal vicino ponte sulla Moscova. I fatti hanno molti nomi: tentato golpe, crisi costituzionale, «ottobre nero»: comunque li si chiami, sono un bivio per la Russia postsovietica. Non nascono e non finiscono nel nulla: ecco perché.
La ruggine delle costituzioni sovietiche
L’Unione sovietica era una confederazione di 15 repubbliche. Ogni repubblica aveva la propria Costituzione: le costituzioni locali coesistevano con quella federale e ricalcavano i suoi principi. L’insieme delle costituzioni era stato riformato l’ultima volta tra il 1977 e il 1978, durante il segretariato di Leonid Brežnev.
Allo sciogliersi dell’Unione sovietica, nel 1991, questo stato di cose genera un’incongruenza: la Costituzione federale cessa di esistere, ma quelle delle singole Repubbliche restano. Così, i nuovi Stati nati dallo scioglimento dell’URSS si avviano all’indipendenza e alla democrazia con costituzioni che impongono i meccanismi istituzionali del defunto sistema sovietico.
La Russia non fa eccezione. Non esiste un vero parlamento: il potere legislativo è esercitato da un Congresso dei deputati del popolo al cui interno non vige ancora una dialettica fra partiti che rispecchi la realtà sociale. Il Congresso si riunisce una volta l’anno o in sessioni straordinarie. Tra le sessioni, il potere è gestito dal Soviet (consiglio) supremo. Non esiste un presidente della Russia, il primo cittadino è il presidente del Soviet; il governo, a differenza delle normali democrazie, non è indipendente dal potere legislativo.
Il primo Presidente della Russia, da sempre
Il 17 marzo 1991 i russi approvano per referendum l’introduzione della carica di Presidente della Russia. Il 12 giugno Boris Eltsin viene eletto capo dello Stato con il 58% dei voti. Ma cosa può fare, il Presidente, funzione mai vista prima nella storia della Russia?
Nella Costituzione vengono aggiunti nuovi articoli che ne regolano i poteri, ma la loro formulazione è incerta: il Presidente «dirige l’attività del Consiglio dei ministri» (art. 121-5 cpv. 6), che gli è sottoposto, ma non ne presiede le sedute; non è chiaro chi determina l’indirizzo politico del governo. Come in epoca sovietica, il Congresso considera il governo come una propria emanazione esecutiva: deve solo eseguire le decisioni del potere legislativo, senza alcuna indipendenza.
L’attualità preme, l’economia soffoca: il governo deve prendere decisioni pesanti. Di fronte all’incertezza, il 1. novembre 1991 il Congresso accetta di conferire a Boris Eltsin «poter speciali» per un anno, allo scopo di realizzare riforme decisive. Grazie a questi poteri Eltsin può dirigere il governo in prima persona.
Liberalizzazione dei prezzi: il grande malcontento
La più discussa riforma economica è la liberalizzazione dei prezzi del gennaio 1992, affidata a Egor Gajdar, già protagonista della «privatizzazione in voucher». È un passo inevitabile: i prezzi sono ancora determinati dallo Stato, secondo logiche dirigiste. A queste condizioni è impossibile avviare normali meccanismi economici che portino merce nei negozi: le lunghe code che i russi ricordano dall’epoca sovietica non sono finite. Finiranno proprio grazie alla riforma, ma in tanti luoghi discosti i negozi vuoti resteranno un triste cruccio quotidiano.
L’aumento dei prezzi causato dalla liberalizzazione è vertiginoso. Il Congresso raccoglie il malcontento popolare: vuole revocare i poteri speciali conferiti a Eltsin, ma Eltsin non molla. E’ convinto delle sue azioni ed è preoccupato per la tendenza che si sta consolidando al Congresso: la volontà di revocare la dichiarazione con la quale Eltsin stesso, pochi mesi prima, insieme ai dirigenti di Ucraina e Bielorussia, aveva sancito la fine dell’Unione sovietica e la fondazione della Comunità degli Stati indipendenti.
Il Partito comunista alimenta questa tendenza, con l’intento di imporre la ricostituzione dell’URSS; anche la nascente estrema destra di Vladimir Žirinovskij è attratta da questo richiamo. Eltsin vuole tenere la guida del governo: sa che tentare di resuscitare l’URSS metterebbe la Russia in guerra con le altre 14 repubbliche ex sovietiche e con il mondo, perché costituirebbe una patente violazione del diritto internazionale. Nasce lì, il lungo sentiero che porta alle pretese di Putin su Georgia e Ucraina, e alla guerra di oggi.
Una cultura che rifiuta la separazione dei poteri
Il Congresso, da parte sua, non accetta che il governo guidato da Eltsin diventi un potere indipendente: così dovrebbe essere in ogni Stato democratico, ma la Costituzione russa è ancora quella sovietica. Con le ultime modifiche, poi, è diventata un vestito d’Arlecchino dove ogni pezza è peggiore del buco. Nel pensiero politico russo, la cultura della separazione dei poteri non ha radici: lo si capisce dagli interventi infuocati dei deputati al Congresso, in quei giorni.
Ruslan Chasbulatov, presidente del Soviet supremo, e Aleksandr Ruckoj, vicepresidente della Russia, s’impuntano: Eltsin deve cedere i poteri speciali, il controllo sul governo deve tornare al Soviet e al Congresso. Vladimir Milov, che diventerà giovane viceministro dell’energia, definisce così lo scontro fra Eltsin e il Congresso: «Non era un conflitto di competenza fra due poteri dello Stato: era una lotta a chi vince piglia tutto».
Il referendum di aprile
Eltsin si gioca il tutto per tutto: convoca per il 25 aprile 1993 un referendum sulla sua persona e sul Congresso. Nelle urne, la popolazione approva la politica di Eltsin e chiede lo scioglimento del Congresso, con indizione di elezioni anticipate.
Per i deputati del Congresso è una batosta. Eppure resistono: approvano una risoluzione per destituire Eltsin; Eltsin, con un decreto rimasto celebre per il suo numero, «Ukaz 1400», dispone lo scioglimento del Congresso per indire le elezioni anticipate chieste dalla popolazione con il referendum. Seguono disordini urbani e scontri sempre più violenti fra le istituzioni. I dimostranti contro Eltsin assaltano il municipio di Mosca; Ruckoj, dal balcone della Casa bianca, li incita a caricare il palazzo della televisione. Si contano morti e feriti.
Eltsin proclama lo stato di emergenza: la mattina dopo, 4 ottobre, per stanare Chasbulatov e Ruckoj, i carri armati sparano sui piani alti della Casa bianca, che prendono fuoco. L’immagine passa sulle TV di tutto il mondo. Eltsin, nelle sue memorie, conferma di aver approvato il dispiegamento dei blindati, di fronte a un titubante Pavel Gračëv, Ministro della difesa. Le operazioni vengono dirette con ordini non scritti: la tesi, piuttosto diffusa, secondo cui Eltsin stesso avrebbe ordinato di sparare sulla Casa bianca, non è documentabile. Testimoni ricordano che tra i militi sembrava regnare una certa confusione. Dopo i fatti, una commissione d’inchiesta viene costituita ma subito disciolta.
Responsabilità a senso unico?
E’ difficile attribuire la responsabilità dei fatti dell’ottobre 1993 a senso unico, al Congresso oppure a Eltsin. Lo scontro nasce dall’inadeguatezza della Costituzione, ereditata dalla cultura istituzionale sovietica, incapace di regolare il gioco tra poteri indipendenti che si controllano a vicenda, pietra fondante di uno Stato di diritto.
Sarebbe servita moderazione, ma sia il Congresso sia Eltsin spingono a fondo l’acceleratore del reciproco accanimento. Da una parte, cieco dinanzi ai tempi che cambiano, il Congresso, intorno a Chasbulatov e Ruckoj, non vuole rinunciare al potere assoluto che l’ordinamento sovietico gli garantisce; dalla parte opposta, Eltsin e i suoi fedeli – tra cui figure di spicco come Viktor Černomyrdin ed Egor Gajdar, che dimostra lodevole assennatezza – si rivelano incapaci di trovare una conciliazione con la controparte.
La testardaggine, il tener duro fino in fondo che due anni prima aveva fatto di Eltsin l’eroe della resistenza contro il golpe di agosto, questa volta gioca contro di lui e gli impedisce di fermarsi in tempo, prima di trascinare la democrazia russa nella cenere.
La Russia prova a risorgere
Dalla cenere, come una fenice, la Russia risorge, o almeno ci prova: la crisi del 1993 mette in chiaro che serve una nuova Costituzione, in progetto da tempo. I russi la approvano con referendum il 12 dicembre. Sparisce la vecchia incastellatura sovietica, spariscono il Congresso e il Soviet supremo. I russi eleggono un normale parlamento, la Duma di Stato. Pur con limiti ed errori, nella società russa la democrazia genera dibattito, in quegli anni. La speranza di tempi migliori è ancora accesa: a reggere la fiaccola resta Boris Eltsin, sempre più acciaccato. Di lui torneremo presto a occuparci da vicino.
Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per leggere la seconda puntata clicca qui. Per leggere la terza puntata clicca qui. Per leggere la quarta puntata clicca qui.Per leggere la quinta puntata clicca qui.