Società

«Perché non fate i nomi?»

A quali condizioni si possono citare nelle cronache le persone coinvolte in un incidente o sospettate di aver commesso un reato? La questione chiama in causa interessi essenziali come il diritto all’informazione e il rispetto della sfera privata - Uno studio rilancia il dibattito
Quando pubblicare il nome di una persona coinvolta in un reato o vittima di un incidente? © cdt archivio
Paolo Galli
21.05.2021 06:00

«Perché avete fatto quel nome e sottaciuto quell’altro?» La questione dei nomi negli articoli di cronaca nera e giudiziaria solleva più di un interrogativo non solo tra i lettori i quali non di rado si chiedono come mai in taluni casi vengono riportati e in altri no. La questione è dibattuta anche (e soprattutto) all’interno della categoria dei giornalisti, i quali troppo spesso si muovono in un ginepraio di Codici che non consentono una lettura univoca e lineare. Domande del tipo - È un personaggio pubblico? Era conosciuto? Abbiamo il consenso dei parenti? O ancora: Che prove ci sono? È stato aperto un procedimento penale? – ritornano frequentemente nelle redazioni dei quotidiani. Eppure.

Eppure, del tema si è occupata anche l’Associazione Ticinese dei giornalisti (ATG) che ieri ha presentato l’esito di uno studio redatto in collaborazione con l’Istituto di media e giornalismo e l’Osservatorio di giornalismo dell’USI. «È giunto il momento di aprire un dibattito, per sensibilizzare l’opinione pubblica, e in particolare, il mondo della politica su alcuni paradossi o storture che il quadro legale impone e crea», ha esordito il presidente Roberto Porta.

Un esempio? Nell’aprile del 2019 in un albergo di Locarno viene uccisa una giovane ragazza inglese. La notizia viene ripresa dai quotidiani e siti internet britannici, oltre che dai social media. Fuori dai nostri confini nazionali il nome della giovane donna, così come alcune sue fotografie, vengono pubblicate senza esitazione. In Svizzera? Nulla. La legge lo impedisce. Un bene?

Secondo l’ATG la disparità si mostra con maggiore evidenza nel confronto con i social media. «Un mondo parallelo dove finisce dentro di tutto», ha chiosato il vicedirettore della Regione Andrea Manna, intervenuto ieri con il responsabile della cronaca giudiziaria del Corriere del Ticino John Robbiani. «Da 10 anni dobbiamo convivere con una camicia di forza, con un Codice di procedura penale ipergarantista che ha reso più restrittive le disposizioni sulla cronaca giudiziaria e nera».

«La bestia nera»

Nodo del contendere, soprattutto, l’articolo 74 del Codice di procedura penale che al capoverso 4 impedisce la pubblicazione del nome delle persone coinvolte in fatti di cronaca. «Qualora sia coinvolta una vittima, le autorità e i privati possono (...) divulgarne l’identità soltanto se (...) i suoi congiunti vi acconsentono». Un diritto che porta a situazioni paradossali, con quotidiani che parlano di incidenti con vittime senza farne i nomi, ma poi, «persino nella stessa edizione figurano tra annunci funebri», ha chiosato Robbiani.

«Siamo di fronte a una situazione ingarbugliata per una serie di omissioni varie», ha aggiunto il giornalista e studioso di etica dei media Enrico Morresi, il quale ha offerto un percorso storico sulla genesi dell’articolo 74 entrato in vigore con l’unificazione del codice di procedura penale nel 2011. «Questa situazione svizzera è un unicuum. Nessun altro Paese impone limiti così stringenti al lavoro dei giornalisti». Non solo. Secondo Morresi l’articolo sarebbe frutto di un lavoro sommario. «Perlomeno di sarebbe dovuto distinguere tra vittima di reato e vittima di incidente. In quest’ultimo caso, perché non fare il nome?»

Evitiamo le beghe

In realtà, la questione è ancora più complessa. Aldilà della fastidiosa concorrenza geografica e dei social - dove tutto è dicibile - il tema si complica con i nomi degli autori di reato. «Il problema è che abbiamo una legislazione contraddittoria», ha spiegato Robbiani. «Gli articoli di Legge non mancano. Abbiamo il Codice di procedura penale, il Codice penale, il Codice civile, la Costituzione, oltre al Consiglio della stampa, secondo cui - per esempio - la cronaca giudiziaria deve essere fatta in forma anonima fino al momento della sentenza. Ma di quale sentenza si parla? Di primo, secondo o terzo grado? Alla fine, il risultato è che i giornalisti e le testate decidono di non fare i nomi per evitare azioni legali».

Il valore aggiunto?

Non sempre, però, il nome è necessario. Anzi. Se il mondo dei social dimostra che la libertà di espressione può essere utilizzata per denunciare corruzione e negligenza, spesso questo canale presta il fianco anche a scivoloni sensazionalistici poco elvetici. Su altri binari, per contro, di muove la nostra stampa che - oltre all’inviolabile principio di presunzione di innocenza e alla necessità di tutelare le vittime di reato - si attiene alla Dichiarazione dei doveri del giornalista, dove il dilemma tra diritto all’informazione e diritto alla protezione della sfera privata, è definito in questi termini: «Il giornalista rispetta la vita privata delle persone, quando l’interesse pubblico non esige il contrario». Ecco la regola d’oro che ogni buon giornalista di giudiziaria conosce bene, ancorché non sempre di facile interpretazione. In altri Paesi (vedi articolo sotto) basta essere sottoposti ad indagine per venire citati, senza considerare né lo status né l’utilità pubblica della notizia. La conclusione? «Ogni caso specifico va ragionato, ma fino a un certo punto. Serve maggiore uniformità per non scaricare le responsabilità sul giornalista o la testata», ha concluso Robbiani.

«Adesso chiediamo alla politica di fare la sua parte»

«In Italia la situazione è radicalmente diversa». Lo sguardo comparativo è quello di Philip Di Salvo, ricercatore dell’USI e co-autore dello studio. «Nella stragrande maggioranza dei casi ai giornalisti italiani è consentito fare i nomi delle persone coinvolte nei fatti di cronaca, tranne in pochissime eccezioni legate alla tutela delle vittime. Anche in ambito giudiziario, le limitazioni sono estremamente contenute». Non esiste, insomma, alcun divieto alla pubblicazione del nome di una persona coinvolta in reati. Al contrario, ha aggiunto Di Salvo, sul fronte italiano, il problema è un altro e riguarda l’uso perverso delle querele temerarie. «Uno strumento giuridico che troppo spesso viene utilizzato per intimidire il giornalista, vista la facilità con cui questa causa può essere intentata. Anche se non porta da nessuna parte blocca il lavoro del giornalista sollevando la questione delle spese giudiziarie».

Più in generale, lo studio rappresenta una tappa nella riflessione che l’ATG vuole promuovere a livello di società. «Ora si tratta di prendere contatto con la politica, sia a livello cantonale sia a livello federale per tentare di allentare la presa dell’articolo 74.4 del Codice di procedura penale», ha concluso il presidente Roberto Porta. «Si tratta di una riforma che andrebbe a vantaggio del pubblico e della trasparenza della nostra società». L’obiettivo, insomma, non è aprire la porta al sensazionalismo, ma di raccontare con maggiore precisione e chiarezza i fatti di cronaca. Nel rispetto delle vittime e della sfera privata.