Portogallo, 50 anni di libertà
Esta é a madrugada que eu esperava / O dia inicial inteiro e limpo / Onde emergimos da noite e do silêncio / E livres habitamos a substância do tempo: «Questa è l’alba che attendevo / Il giorno iniziale intero e limpido / In cui emergiamo dalla notte e dal silenzio / E liberi abitiamo la sostanza del tempo». Il 25 Aprile di Sophia de Mello Breyner Andresen, una delle grandi voci poetiche del Novecento portoghese, riassume in quattro righe tutta la straordinarietà di un avvenimento che ha segnato, 50 anni fa, la rinascita del Paese iberico.
La Rivoluzione dei garofani fu un evento quasi unico, una sorta di colpo di Stato alla rovescia, con una parte (maggioritaria) delle forze armate che si sollevarono contro un regime autoritario per ristabilire la democrazia.
«I portoghesi non amano molto parlare di Rivoluzione dei garofani, un’espressione nata da una copertina del Times in cui si vedevano i soldati con i fiori nelle canne dei fucili. Preferiscono semplicemente fare riferimento alla data: il 25 Aprile», dice al Corriere del Ticino Vincenzo Russo, associato di Letteratura portoghese all’Università Statale di Milano e autore, tra gli altri, di La Resistenza continua. Il colonialismo portoghese, le lotte di liberazione e gli intellettuali italiani (Meltemi 2020), un testo in cui si fa luce anche sulle cause che portarono alla fine incruenta e quasi pacifica dell’Estado Novo imposto da Salazar nel 1932.
«Il 25 Aprile portoghese è strettamente collegato alla fine del colonialismo di Lisbona - dice Russo - nasce nelle caserme e tra i militari, soprattutto in Africa, dove almeno due generazioni di uomini in armi avevano combattuto una guerra sporca e violentissima, la guerra coloniale appunto», diretta conseguenza della nascita e poi dell’affermarsi dei movimenti di liberazione in Angola, Guinea Bissau e Mozambico. Un conflitto sanguinoso e, alla lunga, insostenibile. «Una guerra, va detto, che il Portogallo fece anche per conto dell’Occidente - spiega il professor Russo - il Paese iberico non avrebbe potuto sicuramente affrontare un conflitto così lungo senza il sostegno e le armi fornite dalla NATO, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla stessa Italia. Salazar sosteneva che il Portogallo sarebbe stato l’ultimo bastione cristiano bianco in Africa, un freno all’avanzata del comunismo e dei movimenti di liberazione che facevano riferimento all’ideologia del marxismo-leninismo. Fu una lotta diplomatica, retorica, mediatica, impossibile da capire fuori dallo schema della guerra fredda».
I timori dell’Europa
Nella primavera del 1974 l’Europa guardò inizialmente con paura al Portogallo: «Si temeva che potesse ripetersi quanto accaduto in Grecia con i colonnelli, ma poi si scoprì che i militari lusitani avevano un programma preciso e molto diverso dalla giunta golpista di Atene. Volevano infatti “democratizzare”, “sviluppare” e “decolonizzare” il proprio Paese». Chiudere per sempre, insomma, con l’Estado Novo, «un autoritarismo strettamente innervato dal colonialismo - lo definisce Vincenzo Russo - Quando salì al potere, Salazar guardò sicuramente al fascismo di Mussolini, di cui copiò il corporativismo, il partito unico, la polizia politica, la censura preventiva, senza però farne propria anche la mitologia rivoluzionaria, il culto della personalità. Salazar era un oscuro docente universitario, un cattolico conservatore che non si schierò apertamente con Hitler e Mussolini durante la Seconda guerra mondiale e cercò sempre un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e con l’Inghilterra, Paesi che gli garantirono una sinecura per il suo regime. Il Portogallo di Salazar - dice ancora Russo - era tutto “Dio patria e famiglia”, una nazione povera ma felice, orgogliosamente sola e distante dalle istanze modernizzatrici, governata da un regime molto bigotto e incarnato da un dittatore che si vedeva poco e che, tutte le mattine, faceva un discorso alla radio raccontando un Portogallo fantasmagorico».
Definizione difficile
Il 25 aprile 1974, sottolinea il docente milanese, «iniziò il futuro del Portogallo, non più atlantico e imperiale ma europeo». Un futuro segnato dall’ingresso, assieme alla Spagna nel 1986, nella Comunità europea, e dalla conseguente modernizzazione. Un processo che non ha però risolto alcune questioni, le stesse che oggi sono tornate a segnare il dibattito politico-sociale: «La questione coloniale, con il ritorno in patria di un milione almeno di persone. O la questione razziale, con la ghettizzazione degli afrodiscendenti. Tutti problemi che toccano i nervi scoperti di una società fintamente pacificata».
Oggi è difficile definire il Portogallo in maniera netta. «La rivoluzione del 1974 ha garantito al Paese una proiezione internazionale che prima non aveva - conclude Vincenzo Russo - l’onda di libertà ha permesso che la nazione si mostrasse in tutto il suo splendore. Ma negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi città, la “turistificazione” di massa ha eroso i connotati urbanistici culturali e identitari: i quartieri tradizionali sono diventati preda degli Airbnb, molti cittadini sono stati mandati via dalle proprie case e sono scomparse tradizioni amatissime». Un processo che spiega, in qualche modo, il recente successo delle destre .