«Possibile rinviare il desiderio di maternità»

Nikola Biller-Andorno, con il «social freezing» le donne si servono di una procedura di medicina riproduttiva originariamente sviluppata per il trattamento dell’infertilità e questo senza che vi sia una necessità medica. Un comportamento difendibile dal punto di vista etico?
«Si può argomentare dicendo che le donne, congelando i propri ovuli, possono compensare in un certo qual modo uno svantaggio biologico legato al genere: in confronto all’uomo la capacità riproduttiva della donna diminuisce in un’età relativamente giovane per le condizioni di vita odierne. Già nel quarto decennio di vita aumenta il rischio di complicanze legate alla gravidanza così come la probabilità di anomalie cromosomiche. Non tutte le donne però in quel momento hanno la possibilità di fare una famiglia. Il social freezing può aiutarle a rimandare il desiderio di avere un figlio, invece di abbandonarlo».
Con questa «nuova» tecnologia le donne possono diventare madri anche in età avanzata. C’è un limite d’età per una gravidanza o per una maternità?
«Anche molti uomini divengono padri in età avanzata, quindi è necessario un buon motivo per un limite d’età per la maternità. Nel caso in cui la fecondazione artificiale è rischiosa per la salute della donna e del potenziale bimbo a tal punto che un intervento di medicina riproduttiva sarebbe irresponsabile, un limite d’età è giustificabile. Di principio la valutazione dei vantaggi e dei rischi spetta però alla donna, com’è il caso anche per altri interventi medici. A maggior ragione sono importanti spiegazioni esaustive».
Non si agisce, nel caso del social freezing, secondo il principio: «Maggiore è l’offerta, maggiore è la richiesta»?
«Non so se le donne possano optare per un prelievo di ovociti e una fecondazione in vitro sconsideratamente. Gli oneri di tipo fisico, psichico ed economico sono troppo rilevanti. Però è corretto dire che sarebbe moralmente riprovevole un modello di mercato che tenti di rifilare alle donne una tecnologia lucrativa».
La fecondazione in vitro porta con sé rischi più elevati, anche per il bambino (come un minor peso e possibili malformazioni). Come giudica complicanze simili da un punto di vista dell’etica?
«La fecondazione in vitro è nel frattempo diventata un intervento standard di medicina riproduttiva e si pratica da decenni: oltre il 2% dei bambini in Svizzera nasce così. Ciononostante c’è sicuramente ancora necessità di ricerca sui rischi e anche per quanto concerne possibili conseguenze a lungo termine. Si discute ad esempio di un rischio possibilmente aumentato di pressione alta. Ma bisogna anche riconoscere che ai fini dello sviluppo non è neppure ottimale quando una donna stressata e sovraccaricata concepisce un figlio in via naturale in un momento per lei sfavorevole e porta a termine una gravidanza».
È diffusa l’opinione che il social freezing possa minare l’impegno sociale per una maggiore conciliabilità tra lavoro e famiglia. Condivide questo parere?
«Quest’opinione presuppone che la conciliabilità tra lavoro e famiglia avanzerebbe più rapidamente se solo le donne non cercassero una scappatoia tecnologica per essere all’altezza dei parametri lavorativi attuali. Fino a poco tempo fa il social freezing non era disponibile; questo non ha fatto sì che le esigenze di carriera venissero ridotte, bensì che le donne abbandonassero le proprie ambizioni professionali oppure il desiderio di maternità. Una carriera professionale richiede tipicamente un impegno molto intenso, sempre. La disponibilità del social freezing non ci impedisce di far di tutto al fine di creare il più rapidamente possibile buoni presupposti per una conciliabilità tra lavoro e famiglia per le donne e gli uomini. Allora anche la richiesta di questa pratica, presumibilmente, diminuirebbe».


Non è paradossale essere favorevoli, in nome di visioni progressiste, ad un tipo di pratica che rende possibile la più «tradizionale» delle riproduzioni (al contrario dell’adozione, ad esempio)?
«A dipendenza del contesto un intervento tecnologico può avere effetti differenti. Mentre qui da noi (alle condizioni lavorative attuali, caratterizzate da concorrenza e da una grande richiesta di mobilità e disponibilità) il social freezing facilita alle donne attive la realizzazione del proprio desiderio di maternità, la tecnica può essere percepita piuttosto come un onere nei Paesi “pronatalistici”, dove le donne vengono incoraggiate ad avere il maggior numero possibile di figli biologici. È corretto chiederci sempre se una nuova tecnologia estende effettivamente il nostro spazio di manovra oppure lo limita».
Quanto è distante il pericolo di navigare sempre più verso una società da noi modellata come ci pare e piace?
«“Come ci pare e piace”, per cominciare, non suona male. Cosa sarebbe il contrario, l’adempimento scontento ai propri doveri? È sicuramente simbolo di una società ricca il potersi permettere di dare molto spazio a obiettivi individuali. Ma dobbiamo fare attenzione a prendere sul serio la nostra responsabilità sociale, pensata anche su un piano globale e nel futuro».
Ricorre alla pratica chi non ha ancora il partner "giusto"
Dietro al cosiddetto «social freezing», più formalmente crioconservazione degli ovociti, si cela una tenica di procreazione medicalmente assistita dibattuta anche alle nostre latitudini. Non per nulla TA-SWISS, Fondazione per la valutazione delle scelte tecnologiche, ha di recente pubblicato uno studio in proposito. Il social freezing consente alle donne di prolungare l’età fertile tramite la conservazione dei propri ovuli e prevede il prelievo (in seguito a una stimolazione ormonale, possibilmente entro il 35. anno d’età), il congelamento e la conservazione dei gameti femminili. L’ultima fase concerne infine la fecondazione artificiale degli ovociti. «In caso di necessità – si legge – gli ovociti possono essere scongelati e fecondati con gli spermatozoi dell’aspirante padre anche a distanza di anni». Le donne che ricorrono al social freezing hanno tendenzialmente più di 35 anni, dispongono di un buon livello d’istruzione e non sono impegnate sentimentalmente. Gli autori evidenziano che la ragione principale del ricorso al social freezing è la mancanza di un partner; la carriera, spesso erroneamente considerata il motivo numero uno, appare solo di rado nell’elenco delle motivazioni. Tra i vantaggi di questa pratica, la possibilità per una donna che desidera una gravidanza in età matura di ricorrere ai propri ovociti congelati quando era più giovane. In questo modo aumentano le prospettive di successo rispetto all’utilizzo di ovociti prelevati in età più avanzata. Se al fatto che molte donne interessate alla procedura hanno più di 35 anni «si aggiunge che spesso vengono conservati meno ovociti di quelli raccomandati per una prospettiva realistica di gravidanza, ne consegue che le donne investono molto denaro in una procedura dalle prospettive di successo poco definite, che alimenta speranze potenzialmente illusorie». Gli autori raccomandano di ricorrere al social freezing con cautela e sottolineano l’importanza di promuovere le ricerche scientifiche. Da notare che oggi l’età media delle donne alla nascita del primo figlio è di 31 anni, mentre nel 1971 era attorno ai 25. Originariamente la procedura era stata concepita per le pazienti oncologiche al fine di consentire loro una gravidanza anche dopo l’esposizione a cure chemioterapiche o radioterapiche.