Processo Pelicot, un'occasione per smuovere le coscienze
In Francia c’è già chi lo chiama il “processo del secolo” quello che si è aperto a inizio settembre sul caso di Gisèle Pelicot, la donna che per una decina di anni è stata drogata a sua insaputa dal marito Dominique e fatta violentare da decine di sconosciuti. Una mostruosità che ha scioccato l’opinione pubblica d’Oltralpe, emersa quasi casualmente nel 2020, quando l’“orco” è stato sorpreso in un supermercato mentre era intento a riprendere con il suo smartphone sotto le gonne di alcune clienti. Lo sliding door di una storia dell’orrore, che ha portato alla luce un segreto fino a quel momento tenuto ben nascosto all’interno di computer e chiavi Usb contenenti i filmati degli stupri, dei quali la vittima non ricordava nulla. Il modus operandi del suo carnefice era sempre lo stesso: drogare con un cocktail di ansiolitici e tranquillanti la donna, che finiva in uno stato catatonico prima di essere data in pasto al predatore di turno contattato su Internet. Una lunga lista di uomini dai profili più disparati, tutti insospettabili, che vanno dal giovane militare al pensionato, passando per il libero professionista, il giornalista e il muratore. Una cinquantina in tutto quelli finiti alla sbarra, per i quali sono stati richiesti dai 4 ai 18 anni di carcere, mentre per Dominique l’accusa ha domandato 20 anni, il massimo della pena.
A differenza del marito della vittima, che ha riconosciuto i fatti, gli altri imputati si giustificano minimizzando o affermando di non essersi accorti che la loro preda fosse drogata. Una difesa risuonata più come una dimostrazione di arroganza maschile alle orecchie di buona parte del pubblico, rimasto pietrificato dalla banalità del male emersa nelle arringhe degli avvocati. Per questo, collettivi di femministe e buona parte dei francesi vogliono per tutti gli imputati la stessa pena richiesta nei confronti di Monsieur Pelicot, come recita anche uno striscione affisso nei pressi del Tribunale di Avignone dove si sta svolgendo il processo: «Uno stupro è uno stupro. 20 anni per tutti». Un modo per rendere tutti colpevoli allo stesso modo, senza sminuire la responsabilità di nessuna delle persone coinvolte.
Il caso di Mazan attraverso il suo abitudinario abominio è diventato in Francia un’occasione per smuovere le coscienze sul problema delle violenze sessuali. «È tempo che la società patriarcale e maschilista cambi», ha detto in aula Gisèle Pelicot. La sua scelta di far svolgere a porte aperte il processo, dove si è sempre presentata a viso scoperto, certe volte addirittura sorridendo, ha reso la donna di 71 anni l’emblema di questo cambio di paradigma per la generazione post MeToo. Lo dimostrano le decine di persone che a ogni udienza la accolgono con fiori, applausi e complimenti, ma anche l’attenzione dei media internazionali che stanno dando una risonanza mondiale a quanto accaduto. Da settimane il suo volto campeggia su cartelloni e striscioni esposti durante le manifestazioni femministe, i talk show le dedicano intere serate e puntate speciali, mentre sui muri di diverse città francesi cominciano a comparire opere di street art che la ritraggono.
Da vittima quale era, Gisèle è diventata un’icona grazie al suo coraggio e alla sua forza di volontà, impiegata in una lotta volta a sensibilizzare il grande pubblico e a spingere le altre donne che hanno subito lo stesso destino a reagire seguendo il suo esempio. «Non siamo noi a dover avere vergogna, ma sono loro», ha dichiarato la donna, sottolineando la sua determinazione nell’esporsi in prima persona, quasi come a voler indicare il cammino da intraprendere.
La sottomissione chimica
Così, in Francia ci si comincia a chiedere se dopo questo processo, la cui sentenza verrà annunciata entro il 20 dicembre, cambierà l’approccio al problema. In particolare, l’attenzione si focalizza su alcuni concetti chiave, come la definizione giuridica di stupro o l’inserimento della nozione di consenso all’interno del Codice penale che divide osservatori ed esperti nonostante il parere favorevole del presidente Emmanuel Macron. Ma anche sulla mentalità dell’opinione pubblica, in particolare maschile. Nell’attesa di una risposta, la politica sembra rimanere lontana, limitandosi alle condanne di circostanza a sinistra e alle promesse di pene più dure a destra secondo il solito gioco delle parti.
Ma il processo Pelicot ha aperto il dibattito anche su un’altra piaga: quella della “sottomissione chimica”. Un problema strettamente legato alle violenze sessuali, sul quale non sembra esserci ancora una piena consapevolezza. Il fenomeno è «più diffuso di quanto non si creda, poco conosciuto dalle donne e dal corpo medico», afferma Caroline, una dei tre figli di Gisèle, nel suo libro “E ho smesso di chiamarti papà”, dove si ripercorrono i momenti più duri che hanno portato la famiglia Pelicot a scoprire il proprio dramma. Perché la minaccia non viene solamente dal Ghb, conosciuta come la “droga dello stupratore”, che viene spesso mischiata all’interno dei cocktail delle vittime in discoteca o nei locali. Ansiolitici, sonniferi, e altre sostanze psicoattive che si possono acquistare in farmacia «sono all’origine di molte aggressioni sessuali», spiega la figlia di Gisèle, che ha anche creato un’associazione per sensibilizzare sull’argomento. Un altro ostacolo culturale, quindi, nei confronti del quale cominciano ad aprirsi le prime crepe. Una prima risposta dalle istituzioni è arrivata la scorsa settimana, quando il premier Michel Barnier ha annunciato il lancio di kit utili a individuare questo tipo di casi, contenenti una serie di strumenti e indicazioni utili alle donne che temono di aver subito violenze. L’iniziativa è stata lanciata in via sperimentale e comprende anche una campagna di comunicazione, oltre alla possibilità di sporgere denuncia in tutti gli ospedali del Paese. Un primo passo verso una maggiore consapevolezza, compiuto grazie al sacrificio di una donna che ha deciso di metterci la faccia per cambiare le cose.
«Ci devono essere leggi specifiche»
Roberta Schaller è giurista, criminologa, specializzata in violenze di genere e violenza domestica. Con lei riflettiamo sul messaggio di Gisèle Pelicot. In particolare, partendo da una sua dichiarazione secondo cui la società ancora tende a banalizzare un tema come quello dello stupro e della violenza di genere. «Credo che prima di tutto bisogna fare una distinzione tra stupro o violenza sessuale fuori da una relazione e stupro o violenza sessuale all’interno di una relazione . Nel caso Pelicot, si tratta di stupro all’interno di una relazione, e sono d’accordo che questo tipo di violenza sia fortemente banalizzato. C’è ancora la percezione che stuprare la propria moglie in fondo non sia un vero stupro, che l’attività sessuale sia un dovere coniugale. Conosco vittime di violenza domestica che vengono sistematicamente stuprate, o si devono accordare per quanti rapporti sessuali devono avere a settimana, o gli viene imposto di avere rapporti sessuali con altre persone e altro ancora, ma la percezione è che non sia una vera violenza. Mentre lo è a tutti gli effetti. E per giunta sono solitamente violenze reiterate. Per lo stupro o violenza sessuale fuori da una relazione le cose non vanno meglio, perché la vittima deve ancora provare di essere credibile, che non ha avuto comportamenti fuorvianti, come era vestita...». Insomma, nell’immaginario, la vittima deve dare questa immagine di perfezione. «Si è visto poi che secondo le disposizioni internazionali, queste condizioni non sono più attuabili e soprattutto che i comportamenti durante - il cosiddetto freezing - e dopo la violenza devono tenere conto del trauma». Come sottolinea Roberta Schaller, «bisogna lavorare ancora sulla collettività sulla nozione di consenso. E con magistrati, avvocati, giudici, sulla traumatizzazione secondaria durante il processo». Si è parlato molto del coraggio e della forza delle scelte della Signora Pelicot. La capacità di mettere i colpevoli di fronte alla vergogna. «Le scelte della Signora Pelicot sono state molto coraggiose e molto intelligenti. Ha voluto un processo a porte aperte, perché il messaggio che voleva dare è: io non ho niente di cui vergognarmi, siete voi autori che dovete vergognarvi. È riuscita a vedere che quello che aveva subito non la definiva come essere umano, perché la Signora Pelicot ha un valore molto più grande della violenza subita. Più che la vergogna di fronte all’abuso commesso, per me è più importante il riconoscimento di quello che si è fatto sull’altro, assumersi le proprie responsabilità non solo di fronte alla vittima ma anche alla collettività e soprattutto riconoscere la sofferenza causata». A volte si ha la sensazione che la stessa Giustizia non contribuisca a correggere e a punire adeguatamente le violenze sessuali e domestiche. È così? «Ci devono essere leggi adeguate, prima di tutto, specifiche per la violenza domestica e la violenza di genere. E questo non è ancora il caso ovunque. La violenza domestica è un problema strutturale ma non lo si risolverà solo con punizioni o correzioni ma con un coinvolgimento della comunità intera, quindi con una soluzione trasversale. Una rete compatta e interdisciplinare che lavora insieme». È in fondo questo il senso - pensando alla nostra realtà - dell’iniziativa cantonale depositata in settimana da Roberta Soldati (UDC) e cofirmatari, con cui si indica al Gran Consiglio di chiedere all’Assemblea federale articoli ad hoc. La formulazione degli articoli di legge proposti nell’iniziativa sono stati elaborati proprio da Roberta Schaller. La quale con noi riflette, infine, sull’eredità che lascerà il processo Pelicot. «Il cambiamento ci sarà se sarà fatto un processo riparativo, altrimenti come capita spesso dopo il rumore mediatico tornerà di nuovo il silenzio fino alla prossima Signora Pelicot».