Quando nei bar di Bodio si parlava il sardo e anche i pollai erano abitati

La Monteforno è morta nel 1994 ma il suo fantasma tormenta ancora la Leventina, ricordandole un periodo florido, quando l’industria pesante trainava l’economia e attirava in Ticino lavoratori d’ogni dove (soprattutto dall’Italia, Sardegna in testa, da Polonia, Ungheria, ecc.). «L’azienda era una miniera d’oro negli anni del boom economico», afferma Gildo Ducoli, elettricista di Bodio alle dipendenze dell’acciaieria per oltre 40 anni. «Ha dato da vivere a tutti. A stacanovisti e fannulloni, a santi e avanzi di galera ubriaconi. Alla Monteforno giravano salari tra i più alti del cantone, per i lavoratori non qualificati. Anche se non eri tra i più svegli guadagnavi 4.000 franchi al mese». Poi è cominciata la crisi e i licenziamenti. «Sono stato io, insieme ad un collega di Biasca, a togliere la corrente allo stabilimento nel 1995. Ne ho vista di gente disperata...». Poi la valle si è trasformata, continua il nostro interlocutore. «Si è impoverita». Cerchiamo di capire come e di ricostruire le storie di quelle donne e quegli uomini venuti da lontano che hanno segnato la Bassa Leventina, la vera protagonista dell’approfondimento di oggi. Mentre nella pagina accanto il sindaco di Bodio, Stefano Imelli, rivolge uno sguardo carico di speranza al futuro. Vi proponiamo insomma un altro viaggio nelle periferie del Ticino (per la puntata sulla Valle di Muggio leggi l’edizione del 5 aprile).
Arriviamo a Bodio un pomeriggio piovoso d’aprile. Entriamo in un quadro desolato ma allo stesso tempo fascinoso, incastrato tra le montagne. Per strada nessuno. Alla ricerca di testimoni di quel «glorioso» passato setacciamo bar e ristoranti. Sono parecchi – poco meno di una decina – per una popolazione che nel 2017 contava appena 1.031 unità, dati dell’Ufficio cantonale di statistica alla mano (erano 1.477 nel 1980 ). «Adesso però – ad eccezione dei bordelli – faticano a campare», osserva un avventore. «Mentre una volta in paese c’era un gran movimento e i locali pubblici – una ventina – erano pieni di gente a tutte le ore. C’erano calzolai, barbieri, alcuni negozietti, persino una lavanderia e una banca. Le case e gli appartamenti erano pieni zeppi, persino i pollai erano abitati». «Ora, guardando certi edifici abbandonati, come l’ex Motel Monteforno, ti vengono le lacrime agli occhi», dice Mario Spano del Circolo culturale sardo Coghinas di Bodio che esiste dal 1980, testimonianza di un flusso migratorio importante proveniente dall’isola.

Siamo al Ristorante Giardinetto, posto nelle vicinanze della zona industriale, punto di ritrovo storico dei lavoratori della Monteforno. «Erano parecchi a iniziare e finire la giornata qui», racconta il gerente Attilio Vietri che non ha perso il suo accento campano nonostante sia in Leventina dagli anni Novanta. L’uomo con un sorriso aperto saluta i clienti, li conosce tutti per nome, prima di preparare loro il caffè. Uno, in particolare, cattura la nostra attenzione. Porta ancora la tuta da lavoro della Monteforno, blu oltremare con lo stemma giallo e rosso. Non possiamo che avvicinarci. Si chiama Candido Moneghini, «conosciuto come l’Austriaco poiché nato in provincia di Trento», ci spiegano (vedi foto sopra). Ha 87 anni, gli occhi limpidi e le mani nodose. Davanti ad un Barbera ci racconta volentieri la sua storia fatta di lavoro: «Ho la quinta elementare e ho sempre rubato il mestiere a chi lo sapeva fare bene. Il diploma, infatti, bisogna averlo in testa e non in tasca». Dal 1952 in Ticino, si è rimboccato le maniche svolgendo lavori disparati: muratore e carpentiere, aiuto-infermiere, operaio alla Fabbrica di birra Rosian (attiva dal 1852 al 1972, quando è stata acquistata da Birra Bellinzona, a sua volta assorbita da Eichhof). «Poi mi sono sposato con una bellissima ragazza di Avellino – io che non volevo saperne delle napoletane (ride, ndr.) – e ho dovuto cercare un posto pagato meglio. Così mi sono presentato ai cancelli della Monteforno». Era il gennaio del 1965. «Da allora e per 30 anni ho lavorato come colatore di liquidi d’acciaio. Maneggiavo materiale tra i 1.600 e i 1.700 gradi. Faceva un caldo infernale là dentro. Il rumore, poi, era fortissimo. Quando partivano le macchine tremava tutto lo stabile. C’erano giovani che si spaventavano e se ne andavano nel giro di pochi giorni. L’acciaieria era proprio un porto di mare». Il nostro interlocutore si blocca un attimo per aggiustarsi l’apparecchio acustico. «Ma chi rimaneva si appassionava. Eravamo bravi, facevamo concorrenza a tutta la Svizzera. Poi è arrivata la Von Roll... La Monteforno, che ha salvato tante famiglie, non è morta di malattia ma l’hanno uccisa. Lo scriva pure sul giornale».

«È stato un vero peccato», commenta Carino Lazzarotto, nato nel 1946 in Veneto e arrivato a Bodio nel 1971. «Non volevo andarmene di lì, nemmeno a pedate. E pensare che all’inizio non mi piaceva...». In acciaieria è arrivato perché ci lavorava suo fratello. «Prima facevo le finiture delle case in Bretagna e nel Locarnese», racconta. «Il lavoro in serie mi sembrava strano. Ero abituato alla soddisfazione di costruire qualcosa di bello, qualcosa che rimaneva. Alla Monteforno c’erano solo lingotti che scomparivano e gente che li prendeva a calci». Però in quell’esercizio nudo e crudo si è immerso, fino appunto alla chiusura dello stabilimento.
Dopo una puntatina all’Osteria Silverado – dove incontriamo Diego Pedroli di Bodio, ex impiegato nel settore manutenzione elettrica della Monteforno che ricorda come il lavoro a quei tempi fosse «spericolato» («maneggiavano elettrodi come fossero pagnotte e saltavamo da una gru all’altra, ma allora si faceva così dappertutto») – ci dirigiamo verso il Circolo culturale sardo.
Ci blocca Berardino Rauseo di Aquilonia, in Campania. Lavorava nel laminatoio della Monteforno, dove si producevano tondini per l’edilizia e cerchioni per i veicoli. «Lavorare in acciaieria era pericoloso», sottolinea. «Quando sono arrivato, negli anni Sessanta, il ferro si lavorava a mano. Dovevi prenderlo al volo con una tenaglia, girarlo e infilarlo nell’altro buco. Se sbagliavi eri morto». In seguito la mansione è stata meccanizzata. «Dopo che ho ricevuto il “regalino” però... Già, perché nel 1967 mi sono bruciato e ho fatto 4 mesi all’ospedale di Faido sotto una “gabbia” che teneva alzate le lenzuola per non farmele attaccare alla pelle. Non sentivo più la parte sinistra del corpo». Ma almeno era vivo. Ad altri è andata peggio. Negli anni si sono infatti verificati oltre una decina di incidenti mortali: operai caduti nella fossa di colata, schiacciati tra i meccanismi dei treni, saltati in aria nei camion, fulminati dall’elettricità...

Circolo culturale sardo, dicevamo. Ci aspetta Antonio Fadda nato a Tula, in provincia di Sassari, 80 anni fa. «Eravamo tantissimi in Leventina», sostiene. «Così tanti che nei bar della zona si parlava quasi solo sardo. Ci venivano a cercare in Sardegna e noi firmavamo contratti senza nemmeno sapere dove saremmo finiti». L’impatto con l’acciaieria e con la valle è stato durissimo, dice l’uomo. «Era il 1963. Non avevo mai visto una fabbrica e mi hanno messo ai forni. In Sardegna facevo il contadino e il manovale, ero abituato a stare all’aperto con l’aria buona. Qui invece, rinchiuso con tutta quella polvere e il baccano, c’era da impazzire. Oltretutto con le montagne che ti cadevano addosso (ma lui ha perseverato e ha fatto carriera, ndr.)». Il primo problema da risolvere era trovare una sistemazione. Antonio è stato ospitato per qualche tempo da compaesani e poi, con la moglie e il figlio neonato giunti dalla Sardegna, ha trovato un piccolo appartamento a Pollegio. «Siamo arrivati di notte e alle 5 di mattina sono andato al lavoro. Finito il turno sono tornato a casa e ho trovato mia moglie in lacrime. “Dove mi hai portato?”, mi chiedeva. “Qui ci sono solo montagne e il cimitero”». Ma a quel luogo la coppia si è affezionata. «Volevo stare in Ticino due o tre anni e ne sono passati 56. Ora nella casa che abbiamo costruito in Sardegna andiamo solo due volte l’anno».
Anche Annino Carboni, classe 1946, è sardo ed è stato reclutato dalla Monteforno nel 1970. Ha penato parecchio prima di trovare un’abitazione confortevole. «A Personico dividevo una camera d’albergo con due altri paesani. Era piccola e senza bagno, ci entravi di traverso. Per mia sfortuna uno dei paesani russava, non riuscivo a dormire. E il giorno dopo bisognava faticare. Così sono passato alle baracche della Monteforno, delle specie di dormitori per gli operai. Non era male, sembrava di essere al militare». Infine è approdato al Motel Monteforno di Giornico, 90 camere singole col bagno: un lusso (la struttura oggi è, come detto, abbandonata). «Mi trovavo bene. Il paese era vivo e noi operai di cose potevamo farne. C’era la squadra di calcio, il gruppo dei ciclisti, il coro della Monteforno. Mancava solo il tempo di annoiarsi». «Ma la nostalgia di casa non è mai passata», sottolinea un altro «reclutato sardo», Peppino Canu, giunto a Giornico nel 1963. «All’inizio Franscini non voleva assumermi perché avevo il diploma di meccanico d’auto e alla Monteforno di personale specializzato non ne volevano, poi ha cambiato idea. Sono rimasto finché la fabbrica ha chiuso». In seguito ha partecipato al progetto Transfer (leggi articolo nella pagina accanto in basso) ed è stato assunto in un’officina a Giubiasco, dove ha terminato la carriera.


E gli altri dipendenti della Monteforno? Che fine hanno fatto dopo il 1994? Lo scopriamo durante l’ultima tappa del nostro viaggio. Ci troviamo all’Albergo Stazione di Bodio, in passato chiamato Hotel Monteforno. «Durante un certo periodo dirigenti dell’azienda dormivano infatti qui e avevano un garage dove le loro auto venivano controllate», spiega Tiziana Guzzi, Batzu da nubile. Lei, figlia di un ex operaio dell’acciaieria sardo, è nata a Faido e ha sposato il ticinese Paolo Guzzi, il cui nonno Lorenzo nel 1910 ha inaugurato l’albergo in questione. «In passato c’era più vita mentre ora il paese è desolato. Solo la sera si muove qualcosa... (si riferisce alla manciata di postriboli lungo la strada cantonale, ndr.). Dopo la chiusura della Monteforno, infatti, alcuni ex operai si sono riciclati in settori diversi mentre altri sono rientrati in Italia. I giovani nati qui si spostano vicino ai centri: Biasca, Bellinzona, Lugano. Le imprese chiudono (vedi Elti) e noi tiriamo a campare. Ospitiamo gente d’oltralpe in valle per lavoro, d’estate un po’ di turisti, specie olandesi, che fanno tappa qui per poi raggiungere l’Italia o tornare a casa. Nessuna donnina coi suoi clienti che portano sempre caos. Poca roba, quindi. Speriamo in un miracolo per ripartire».
Donne in prima linea
La Monteforno non è stata solo una storia di acciaio e di uomini. È stata anche la storia di donne, le compagne e le figlie degli operai dell’acciaieria. Signore che non si occupavano solo della casa e dei figli ma che lavoravano nella storica acciaieria (nel settore delle pulizie oppure in amministrazione e in mensa come Maria, la moglie di Berardino Rauseo «che ne ha fatto una malattia quando la fabbrica ha chiuso i battenti») ma anche altrove: servette in case altrui, cameriere, operaie in sartorie, fabbriche di spazzole, ecc. Strappate a loro volta dalla terra natia, magari in riva al mare, per insediarsi tra le montagne che oscurano il cielo della Bassa Leventina (vedi la vicenda della moglie di Antonio Fadda). E, tra le pieghe della storia, si nascondono amori romantici che sanno di un passato che non esiste più. Come quella di Rosa e Carino Lazzarotto. «L’ho conosciuta in Veneto per caso nel 1965», dice lui. «Avevo 19 anni. L’ho vista due sere e ho pensato: questa diventerà mia moglie. Poi sono andato in Bretagna per lavorare. Ci siamo scritti per due anni e dopo ci siamo rivisti a Losanna, dove Rosa era emigrata con la famiglia. Non ci siamo più lasciati».
Un'avventura finita male
Il pizzo e la cobianchi
La Monteforno è nata a Giornico (la società aveva infatti sede in quel comune, dove pagava le imposte) nel dicembre del 1946 «prendendo a prestito il nome del Pizzo Forno che si erge sopra i comuni di Faido, Giornico e – più a sud – Bodio e Pollegio» (leggi l’interessante saggio di Mattia Pelli «Monteforno. Storie di acciaio, di uomini e di lotte», Fontana edizioni). Alla testa dell’impresa l’avvocato italiano Aldo Alliata Nobili, proprietario della Società metallurgica Cobianchi di Omegna, e l’ingegner Luigi Giussani, colui che comprava in Svizzera i prodotti dell’azienda piemontese.
Non troppi ticinesi
I lavoratori della Monteforno venivano da principio reclutati soprattutto nel nord Italia: Bergamasco, Bresciano, Lombardia, presso il Lago d’Orta, Val d’Ossola, Veneto. Lo spiega Carlo Franscini, vicedirettore e capo del personale dell’azienda. «A partire dal 1961 e fino al 1970 – si legge sul libro di Pelli – ad arrivare furono lavoratori meridionali, che l’acciaieria di Bodio andò, con una politica attiva di reclutamento, a cercare fino in Sardegna». Il direttore tecnico dell’azienda Giovanni Morini – che da tenente aveva fatto parte della «leggendaria» Brigata Sassari e dunque conosceva il carattere dei sardi – disse a Franscini: «Carlo tu devi andare in Sardegna, i sardi sono operosi, obbedienti, è gente onesta» (questo aneddoto ce lo racconta un ex operaio, Antonio Fadda, leggi articolo principale). Scrive ancora Pelli: «Accanto ai sardi, ai campani, ai bergamaschi, ai polacchi e agli ungheresi, fin dall’inizio della storia della Monteforno in acciaieria c’era una percentuale di lavoratori ticinesi. Piccola perché, secondo numerose testimonianze (...), gli indigeni consideravano il lavoro duro e, almeno inizialmente, scarsamente retribuito.
La decadenza
L’età dell’oro dell’acciaieria ticinese – che è arrivata ad impiegare 1.750 persone, secondo il «Dizionario storico della Svizzera» (DSS) – finisce attorno al 1977, quando l’azienda passa nelle mani della Von Roll, un’impresa siderurgica con sede a Gerlafingen nel canton Soletta. «Da allora si assistette a una diminuzione progressiva del numero di dipendenti (920 nel 1982, 420 nel 1986, 340 nel 1994)», precisa il DSS. «In seguito a crescenti perdite, Von Roll decise nel 1994 la chiusura degli stabilimenti (31 dicembre), la quale ebbe pesanti ripercussioni per l'occupazione e l'intera economia delle Tre Valli» (l’ultimo forno venne in realtà spento definitivamente qualche mese dopo).