Quei capolavori nati dal genio di artisti disturbati

Alessandro Moriccioni, la sua rassegna di «Maledetti» parte da Filippo Brunelleschi che lei definisce la prima archistar della storia.
«In realtà è il capostipite degli artisti. In quel momento avviene la divisione dell’artista dall’artigiano. Prima gli architetti, i pittori e gli scultori erano identificati con gli artigiani, quelli che facevano parte di un gruppo di lavoratori che mettevano in opera ciò che veniva commissionato, ma senza lasciare traccia. Brunelleschi lascia il suo nome nella storia perché realizza qualcosa che si pensava fosse impossibile fare: la cupola del duomo di Firenze. Ha ideato anche le gru per elevarla, gli accorgimenti per la sicurezza, le grandi barche per trasportare i materiali di costruzione. A volte ha fallito altre no. Diventa un’archistar perché diventa un nome».

Perché è “maledetto”?
«Non era una persona facile, era introverso, si credeva superiore agli altri e per esempio se la prende col Ghiberti con cui era in competizione. Teneva moltissimo alle sue carte e non vuole che le vedano o ci lavorino gli altri. Ma fa anche degli scherzi a volte molto pesanti. Aveva le sue piccole follie, in alcuni casi al limite della psicopatia».

Abbiamo notato, tra le biografie che lei presenta una fitta presenza di artisti accomunati da opere d’arte allucinate, come Hieronymus Bosch.
«Nell’espressione artistica, nella capacità di esprimere la propria interiorità su qualcosa di materiale può esserci un legame tra follia, genio e talento. L’arte può essere generata dal disagio, anche se non è l’unica modalità in cui nasce. Ricorre spesso l’artista insoddisfatto che prende e sfascia tutto. Nel caso di Bosch sono state avanzate ipotesi inverificabili sulla possibilità che avesse qualche psicopatia. Ma in realtà le sue visioni erano generate dalla forte visione religiosa del mondo che si esprime in una sorta di calderone alchemico pieno di mostri che rappresentano altrettanti demoni . Ma appartengono più alle espressioni umane che al mondo religioso. Lui si rifaceva a immagini impresse sulle monete o alle visioni antropomorfe che si trovano nei manoscritti medievali».
E Munch?
«Munch era ossessionato dalla morte e se oggi si va ad Oslo ad osservare il quadro “l’Urlo”, sembra veramente di sentirlo urlare, non è un personaggio reale, è un’anima disperata che esce e quasi ci aggredisce. Anche nei pezzi di carne appesi ai ganci di Bacon o nel Papa che urla c’è un legame diretto con la visione di Munch, il tentativo di tirare fuori la propria disperazione, il disagio. Anche gli artisti che sembrano più calmi tirano fuori la loro parte più oscura finendo col realizzare le cose più belle».
Di Michelangelo leggo che era un genio che convinto di essere povero. Può spiegarcelo?
«Michelangeloera consapevole di essere un genio ed era capriccioso nei confronti dei commitenti, che nel suo caso erano anche dei Papi. Pensa fino alla fine dei suoi giorni di essere povero perché la sua famiglia aveva messo insieme una piccola fortuna che però viene sperperata nel corso del tempo da chi lo precedeva nella gestione del patrimonio famigliare. Vive questa situazione con angoscia e per tutta la vita mette da parte soldi, restando convinto di essere al limite del lastrico. Invece era ricercatissimo e molto ben pagato. Quando muore trovano in casa sua talmente tanti contanti che avrebbe potuto comprarsi un intero palazzo».
Nell’arte dei secoli passati, l’artista poteva anche essere «maledetto» ma esisteva un criterio oggettivo per valutarne il valore, al di là dei gusti personali: la sua abilità artistica, il suo virtuosismo tecnico, ... eccetera, fattori riconoscibili anche da un occhio poco esperto. Oggi solo il critico ha il diritto di sancire il valore artistico di un’opera. Non c’è il rischio che la sregolatezza predomini sul genio?
«Nella seconda metà del Novecento si rompe col passato generando ciò che vediamo oggi, dal layout del sito internet o del social alle serie in tv, alla musica alla radio. Ci si può chiedere se l’utilizzo di elementi esterni per creare arte senza preoccuparsi della tecnica crei veramente arte. La rottura sta proprio in questo: non è più necessaria la tecnica. A volte per liberarsi dei dogmi e dalle regole è necessario conoscerli, ma è vero anche che se non si vuole rimanere invischiati nelle regole e nei manierismi del passato bisogna rompere il sistema».
Come Basquiat e Warhol?
«Qui siamo negli anni Ottanta e tutto quello che succede nella pittura succede anche nelle altre arti. Ci sono delle commistioni, si torna all’artista che faceva tutto o quasi, alla comunione delle arti e l’unico scopo è l’arte in sé. Warhol (nella foto sotto) a un certo punto dice che non c’è bisogno di faticare o di essere artisti: basta il logo, un simbolo che ti fa capire che quell’idea ce l’ho avuta io e non l’ho neanche realizzata. Uno prende una scatola di cartone e la mette in una galleria dicendo questa è un’opera d’arte e la vende a peso d’oro».

Perché?
«Perché ci sono delle rivoluzioni in corso in tutte le arti. Succede ad esempio nella musica. Dopo gli anni Cinquanta, un grande scrittore che ha rivoluzionato la storia della letteratura, William S. Burroughs, incide fortemente su tutte le generazioni successive nella musica dai Grateful Dead, a David Bowie... Ebbene Burroughs era un tossicodipendente e della sua dipendenza ha fatto letteratura. Da questa ricerca di nuovi orizzonti nasce tutta la musica moderna che arriva fino al punk e all’hip hop e oltre. Si incontra con l’arte grazie a Andy Warhol che era il benefattore di Basquiat. C’è una progressione in tutto il Novecento che trasforma l’arte in una commistione di arti e porta a quella che è la rottura fondamentale: la non necessità delle regole. Non ce n’è più bisogno. Si possono utilizzare le droghe per cercare di entrare in contatto con sé stessi, con la propria anima e con un mondo altro che sta al di fuori di quello che conosciamo. In alcuni casi si torna alla primitività dell’arte, alle sue regole basilari per ripartire in qualcosa di nuovo. Il tutto culmina in personaggi che fanno uso di droga, anche in modo smodato, ma che sono in grado di fare grande arte».
Lei cita Dostoevskij quando dice che «La bellezza salverà il mondo». Non le sembra un paradosso che la bellezza, in questi casi, non ha invece salvato chi è riuscito a produrla?
«La frase è di grande effetto, ma va interpretata. Sgt. Pepper’s dei Beatles è bello, ma non ha contribuito a salvare John Lennon. Ha contribuito a rendere immortale una parte dei Beatles e della vita di Lennon. Questo vale anche per gli artisti di cui parliamo. Hanno dedicato la vita alle opere d’arte e ci hanno lasciato qualcosa di loro, tanti aneddoti, diari dai quali possiamo desumere la loro storia. Il loro sacrificio per l’arte e per il bello li ha paradossalmente resi immortali. E anche quando noi non ci saremo più, loro continueranno ad esistere con le loro opere. Tutto questo mi fa pensare a un’idea di Tiziano Terzani: dovremmo mettere il mondo in mano a un gruppo rivoluzionario di poeti, perché circondarci del bello può farci in una qualche modo ricordare la motivazione per cui siamo al mondo e smettere di distruggerci a vicenda. Perché il bello è una necessità umana e può essere sostituito con una parola: amore».

Parliamo degli artisti assassini...
«In genere la foga che si ha dentro può essere espressa anche nella violenza: succede anche agli artisti. Come Michelangelo Merisi, il Caravaggio, che più di una volta ha usato il pugnale per togliere di mezzo gli avversari e come Benvenuto Cellini. Tra i tanti c’è il caso dell’inglese Richard Dadd. Dipingeva figure minuscole di fate mentre era rinchiuso in manicomio. Impazzito durante un viaggio in Egitto, inizia ad essere un seguace di Osiride. Sostiene che Osiride gli abbia intimato di uccidere il padre che percepisce come una rappresentazione del male fatta uomo. Lo uccide, scappa e durante la fuga cerca di ammazzare un’altra persona. Si convince anche di dover uccidere il Papa. Una mente molto fragile...»

C’è pure un presunto serial killer.
«È Walter Sickert (sopra, un suo quadro del 1908). Nella sua infanzia ha avuto comportamenti sadici e scostanti, descritti in vari diari dalle sorelle, e perseguiva i propri interessi personali senza curarsi degli altri. Come quando mette in scena un’opera e lascia che le sorelle finiscano in mezzo ai rovi. In realtà è stato un grande pittore, balzato alle cronache dopo la morte perché la grande giallista Patricia Cornwell inizia a comprare i suoi quadri e, partendo dalla sua biografia e da alcuni elementi presenti nei suoi quadri, si convince che Sickert sia il famoso Jack lo Squartatore, l’uomo che nel 1888 uccideva prostitute a Londra e non è mai stato catturato. Le tesi della Cornwell sono da prendere con le molle. È vero che lui ha dipinto un quadro intitolato ‘ La stanza di Jack lo squartatore’, ma i tanti tasselli che lei mette insieme dalle varie opere per dimostrare la sua tesi sembrano una forzatura rispetto quello che mostrano veramente».
Ci sono anche donne artiste «maledette»...
«L’arte è democratica, ma chi l’ha gestita non sempre lo è stato. Non è un caso che ci siano poche donne. Il caso di Artemisia Gentileschi non fa eccezione. La ricordiamo per lo stupro che ha subito, per il processo in cui resiste eroicamente alle torture per testimoniare il fatto che era lei la parte lesa. Ma dimentichiamo che dal punto di vista artistico lei diventa artista perché il padre, anch’esso pittore, capisce il suo talento, le insegna i trucchi e poi si fa aiutare nelle quattro mura di casa. Lei dipinge nel tempo libero, tra le faccende di casa e i pasti da preparare. Emerge in maniera difficoltosa, insomma. Lo stesso vale per le altre».

Per esempio?
«Camille Claudel (sopra la sua opera L’abandon) ha la pessima idea di mettere in campo una storia d’amore col suo maestro Rodin, che da una parte la incoraggia e aiuta e dall’altra le fa ombra: a lei che è stata forse la più grande scultrice della storia dell’umanità. Anche Frida Kahlo all’inizio subisce l’ombra del marito Rivera. Nella prima mostra compare sui manifesti come Frida Kahlo ma anche come Frida Rivera. Grandi talenti che erano considerate moglie di, figlia di, amante di... Diverso il caso di Vivian Maier».
Come mai?
«Perché è stata un personaggio che in concomitanza con la sua morte è stata scoperta diventando famosa sua malgrado. In realtà la sua arte, perché la sua fotografia è veramente arte, è sempre stata nascosta, una cosa intima, mai mostrata a nessuno. Lei stessa non ha mai sviluppato, in alcuni casi, i suoi negativi e non ha mai visto le sue fotografie. Oggi è diventata famosa ma forse avrebbe preferito il contrario: un oblio per scelta».