Quella tragica notte di sangue a Bel Air

Cinquant’anni fa, il 9 agosto del 1969, la tragedia: la chiamarono «la strage di Bel Air». Quattro persone piombarono in una villa sulle colline intorno a Los Angeles, al numero 10050 di Cielo Drive e massacrarono una dopo l’altra l’attrice Sharon Tate incinta di otto mesi (moglie del regista Roman Polanski che si trovava a Londra per lavoro), il suo parrucchiere Jay Sebring, l’amica Abigail Folger e il suo fidanzato Voityck Frykowski. Il commando era composto da Charles «Tex» Watson (il capo delle operazioni), Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian. Erano armati di coltelli, un revolver e una corda di nylon lunga 13 metri. E di tanta ferocia. Appena arrivati a Cielo Drive, tagliarono i fili del telefono per impedire che venisse dato l’allarme proprio mentre stava uscendo dalla villa Stephen Earl Parent, un amico del guardiano, William Garretson, a cui voleva vendere un orologio. Tex lo uccise con un colpo di pistola. E fu la prima delle cinque vittime. Tutti gli assassini erano membri della «famiglia» di Charles Manson, una Comune del deserto della California guidata da un «guru» che si autodefiniva una manifestazione di Cristo e soggiogava le menti deboli utilizzandole per compiere rapine e delitti. Gli oltre cento adepti della «famiglia», provenienti dalle culture hippy e da diversi movimenti, vivevano in modo non convenzionale, consumavano allucinogeni, praticavano l’amore libero e quando Manson lo comandava, diventavano carnefici impietosi e brutali. Un saggio articolato e minuzioso, La famiglia Manson – Dall’estate dell’amore all’estate dell’orrore (Odoya, 272 pagine, 18 euro) dello scrittore Mariopaolo Fadda, ricostruisce i dettagli e i particolari della strage che la sera dopo ebbe la replica con l’uccisione di una normale coppia di benestanti nella loro abitazione, i coniugi LaBianca. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Mariopaolo Fatta, Charles Manson, scomparso nel 2017 fu – a suo avviso – un semplice psicopatico o una persona con un chiaro disegno rivoluzionario?
«Tra tutte le ipotesi formulate da esperti, la psicopatia sembrerebbe la più adatta a descrivere la figura di Manson. Gran parte dei tratti riconducibili a una personalità psicopatica sono rintracciabili in lui: comportamento ingannevole e tendenza a mentire e a manipolare, assenza di rimorso o di colpevolezza, mancanza di empatia, comportamento sessuale promiscuo e irresponsabile, recidività in caso di libertà condizionale, delinquenza giovanile. Manson era narcisista e aveva continuamente bisogno di attenzione e adorazione ma senza provare empatia verso gli altri. Sentiva di essere un predestinato e, sin da ragazzo, aveva mostrato comportamenti antisociali e crudeli».
Quali erano le sue «doti» criminali?
«Agiva in modo metodico, aveva sangue freddo, una lunga storia di comportamenti criminali e si rifiutava di imparare dagli errori commessi, sperando solo di non essere più colto con le mani nel sacco. Manipolava gli adepti giocando con le loro emozioni, usando il suo buon livello di intelligenza verbale. Come qualsiasi psicopatico, Manson non ebbe alcun pensiero per le sue vittime e non ritenne mai di aver fatto qualcosa di sbagliato nell’ordinare gli omicidi. Voleva arrivare all’onnipotenza attraverso la musica (riteneva di poter far meglio dei Beatles) e la trovò nel crimine. Questo grazie all’adorazione di un pugno di disadattati che credevano di aver trovato il loro messia».



Con quali metodi Manson riusciva a coinvolgere nella sua malignità tanti altri ragazzi e ragazze?
«In carcere ha avuto modo di leggere alcuni testi sulle tecniche di controllo mentale – ad esempio Come trattare gli altri e farseli amici di Dale Carnegie, Dianetics: La scienza moderna della salute mentale di L. Ron Hubbard – che mise in pratica quando si inserì nell’ambiente hippie di San Francisco dopo essere uscito dal carcere nel 1967. Queste tecniche, da sole, non sarebbero state però sufficienti a trasformare una banda di ragazzini fuggiti di casa in tirapiedi di un presunto “guru” giunto sulla Terra per guidarli verso la redenzione. A quelle tecniche Manson aggiunse ciò che l’ambiente della controcultura gli mise a disposizione: il sesso libero e la droga.»
Amore libero e droga: erano questi i soli comandamenti della famiglia Manson oltre al delitto?
«No, Manson era molto attento a ciò che succedeva al quartiere Haight-Ashbury (la roccaforte degli hippie, a San Francisco) e si rese conto che la componente mistica giocava un ruolo importante nel controllo mentale degli adepti. Forte della notizia che i Beatles avevano trovato un “guru” indiano si autoproclamò anche lui “guru” e fondò la sua setta (la Famiglia) miscelando sesso, droga, rock’n’roll, satanismo, Apocalisse. Visto che il rock era per i giovani di allora uno strumento potentissimo di coinvolgimento mentale ed emotivo, prese a pretesto la popolarità dei Beatles per inculcare nei suoi adepti l’idea che questi, attraverso i testi delle loro canzoni (soprattutto Helter Skelter), parlassero a lui inviandogli messaggi criptici. A questi aggiunse la sua personale interpretazione del libro dell’Apocalisse e il gioco era fatto: gli adepti vennero addestrati per affrontare l’ultima sanguinosa guerra tra bianchi e neri da cui la setta, guidata da Manson, sarebbe a suo dire uscita vincitrice. Gli assassini Tate/LaBianca si inseriscono in questa visione apocalittica come il segnale d’inizio della guerra».

I simboli tracciati con il sangue delle vittime sulle pareti delle ville dove avvennero i delitti, sono indicativi d’una mente attraversata anche da sconnesse motivazioni politiche e razziali?
«Le motivazioni politiche e razziali sono alquanto labili e, come le avrebbe definite il procuratore Vincent Bugliosi, bizzarre. Dal punto di vista politico l’odio era indirizzato genericamente verso l’establishment (politico, finanziario, culturale, musicale...), ma non in quanto tale, ma perché non ne faceva parte. Perlomeno a quello musicale a cui aspirava tanto. Dal punto di vista razziale l’odio verso i neri non era nient’altro che uno degli ultimi maleodoranti rivoli di un segregazionismo in disarmo».
Il 1969, nel bene e nel male, fu un anno importante per l’America: la conquista della Luna, la guerra del Vietnam, Woodstock e tante altre cose. In questo contesto che cosa hanno significato i delitti di Manson e dei suoi accoliti?
«Il 6 dicembre si tenne ad Altamont, nei pressi di San Francisco, un concerto gratuito dei Rolling Stones che, pessimamente programmato e gestito, finì nel caos più totale, lasciando sul terreno quattro morti. Due giorni dopo, l’8 dicembre, Charles Manson e altri quattro membri della Famiglia vennero formalmente incriminati per gli omicidi Tate/LaBianca. Due tragici atti che mettono la pietra tombale sull’utopia giovanilistica. Un’utopia che bisogna far risalire alla prima rivolta antisociale, di stampo essenzialmente comportamentale e letterario, della “beat generation” che spianò la strada alla rivolta antisociale, antisistema degli hippie che a sua volta sfociò nelle marce contro la guerra in Vietnam e contro la segregazione razziale, ma anche in violenze che avrebbero distrutto i sogni di pace e amore di un’intera generazione. Charles Manson mise solo la ciliegina su quella torta andata a male».

La visione "alternativa" di Quentin Tarantino

«Da anni pensavo di fare un film che raccontasse la Hollywood dietro le “quinte” come l’avevo conosciuta da bambino alla fine degli anni ‘60 e che avevo amato attraverso i suoi film. Così ho scelto tre protagonisti: Rick e Cliff (Leonardo DiCaprio e Brad Pitt), due personaggi che riassumono nelle loro vicende la storia di tanti attori dell’epoca; e Sharon Tate, attrice che mi aveva conquistato quando avevo sei anni con The Wrecking Crew, una commedia folle del 1968, in cui recitava accanto ad un famoso Dean Martin. E poi c’è il 1969, anno in cui Hollywood è ad un punto di svolta, con le tante grandi star sul viale del tramonto, così come le storie che avevano segnato un’epoca e che stavano per lasciare il passo ad altri temi e ad un altro modo di narrare». Così ha raccontato, in conferenza stampa e nelle interviste, Quentin Tarantino di passaggio a Roma insieme a Leonardo DiCaprio (Rick) e Margot Robbie (Sharon Tate) per presentare C’era una volta a... Hollywood”: film che sabato sera verrà proiettato in piazza Grande a Locarno. Nel film Tarantino ci mostra la Los Angeles in cui è cresciuto, fatta di scintillii e di echi cinematografici: l’animato Hollywood Boulevard, il lungo viale centro nevralgico della vita cittadina; Sharon Tate che passeggia in stivali bianchi e minigonna, ma anche lo Spahn Movie Ranch, appena fuori città, dove negli anni ‘50 venivano girati tanti film e serie western famose e che, abbandonato dal cinema, è diventato nel 1969 il rifugio delle «ragazze» e degli accoliti di Charles Manson. Luci ed ombre di Hollywood destinate tragicamente ad incontrarsi. «Ho letto quasi tutto ciò che è stato scritto sull’argomento, ma nessuno è mai riuscito a trovare il motivo, il perché, degli omicidi perpetrati da Manson e dai suoi», ha detto Tarantino che nel ’69, come tanti losangelini, era stato con i suoi genitori allo Spahn Ranch («o forse in uno simile») per una cavalcata sulle colline di Hollywood, attività turistica redditizia che le ragazze di Manson svolgevano con «affabilità e perizia». C’era una volta a ....Hollywood è una commedia piena d’ironia e di freschezza, un affresco sorprendente e a tratti esilarante con una storia inventata, «da cinema», dove la verità che la pervade è una fitta rete sotterranea, una sorta di «bomba nascosta che tutti conosciamo», ha detto Tarantino, «il cui ticchettio scandisce il film». E Sharon Tate emerge nelle immagini come una visione luminosa, impersonata da Margot Robbie quasi senza parole, così come è scaturita dai ricordi di Debra Tate, sua sorella, nelle lunghe conversazioni con Quentin e Margot.