Raffigurare l’orrore è possibile: quando la Storia diventa fotografia
Fausto Colombo, ordinario di Teoria della comunicazione e dei media all’Università Cattolica di Milano - ateneo del quale è anche prorettore e nel quale dirige il Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo - ha scritto nel 2018 un libro-chiave sul rapporto tra le immagini e la morte: Imago Pietatis. Indagine su fotografia e compassione (Vita e Pensiero). Un testo che, partendo dalla ormai celebre foto di Alan Kurdi - il bambino curdo-siriano morto in un naufragio davanti alle coste di Bodrum, in Turchia, e ripreso ormai senza vita sulla battigia dalla giornalista turca Nilüfer Demir - spiega i meccanismi della narrazione visiva.
Di fronte alle foto che Alex Kühni ha scattato in Ucraina, foto che hanno permesso al reporter di guerra bernese di vincere lo Swiss Press Photo Awards 2023, la riflessione di Colombo prende le mosse in chiave storica.
«I primi reportage fotografici di guerra - dice il sociologo della Cattolica al Corriere del Ticino - risalgono alla Crimea, a metà dell’Ottocento, servizi dai quali era esclusa la rappresentazione della morte perché il fotografo inviato dall’Esercito inglese aveva il compito di far vedere che i soldati stavano bene. Le cose cambiano con la guerra civile americana, mentre le atrocità esplodono visivamente con la guerra di Spagna, dove sul campo sono presenti i giornalisti dei grandi Paesi: pensiamo a Robert Capa e alla sua compagna, Gerda Taro. Le immagini dei campi di concentramento tedeschi alla fine della Seconda guerra mondiale o gli scatti in Vietnam sono poi una galleria degli orrori, che si ripete identica con le guerre del Golfo e l’11 Settembre».
La questione non è quindi raffigurare la morte con l’obiettivo di una macchina fotografica, ma quale senso dare a questa rappresentazione: «Bisogna sempre chiedersi se e quanto il fotogiornalismo sia efficace, e per che cosa. Se sia funzionale alla propaganda contro il proprio nemico o voglia dimostrare la barbarie dell’uomo». Capire, insomma, quale sia il messaggio che intenda veicolare.
«Perché la fotografia - spiega Colombo - è uno strumento estremamente potente ma incompleto. Ha bisogno di una narrazione che l’accompagni. Senza contesto è nuda, fuori tempo. Difficilmente commenta da sola. È una testimonianza del racconto, una prova, che completa un contesto più ampio di ricostruzione. Deve perciò essere sempre accompagnata dalle parole».
Il richiamo a Guernica
Lo scatto di Alex Kühni, ad esempio, «richiama un po’ la Guernica di Picasso - osserva il prorettore della Cattolica - è freddo, anche nei colori, in esso non c’è forma né vita residua, niente di umano. Forse è proprio ciò che vuole essere: una testimonianza radicale dell’uomo ridotto a materia, con i cadaveri che sembrano rovine». Una foto sicuramente esplicita, ma che rischia di non creare empatia. L’elemento chiave che, a detta di Colombo, è in grado di colpire o scuotere chi osserva.
«Edith Stein diceva una cosa interessante: per essere empatici dobbiamo riconoscere nell’altro un nostro simile, sentire ciò che sentiremmo noi se fossimo al suo posto. Essere “parenti” nella sofferenza. Torniamo alla foto di Kühni. Sicuramente ci fa riflettere, ne comprendiamo la funzione documentale, ma è difficile empatizzare con le vittime, che non conosciamo e che sono pure poco riconoscibili. E anche lo sguardo del fotografo appare freddo, distaccato».
Molto spesso, insiste Fausto Colombo, «un dettaglio colpisce più dell’insieme, anche e soprattutto nelle immagini di morte. Inquadrare una parte, senza esporre del tutto la vittima allo sguardo, rimanda ad esempio alla sua umanità: è un’intenzione rispettosa, che può trovare corrispondenza empatica nello spettatore».
Certo, è complicatissimo stabilire una regola fissa, cogliere il confine tra la testimonianza e il voyeurismo. Ma non impossibile. Sebbene sia «facile lasciarsi trascinare dal fascino dello spavento, dal fascino della morte. Lo diceva anche Nietzsche: se guarderai troppo a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te».
L’etica del vedere
C’è ancora un elemento che Colombo sottolinea: il mutamento di prospettiva causato dall’irruzione nel sistema della comunicazione di massa dei social media, tema al quale lo studioso comasco ha dedicato molte delle sue ricerche.
«Purtroppo, noi guardiamo ormai tutto con indifferenza e troppo velocemente, mentre dovremmo saper scegliere. Per soffermarci, e costruire, se possibile, l’empatia di cui parlavo prima». E anche il rapporto con le immagini, che tutti scattano dai propri telefonini, è radicalmente cambiato. «Di fronte a un evento, pure tragico, sempre più spesso le persone si preoccupano soprattutto di testimoniare la propria presenza. Non c’è più commozione per quanto accade, nessuna predisposizione all’empatia». Citando il libro di Susie Linfield La luce crudele, nel secondo capitolo di Imago Pietatis Colombo spiega: «La domanda principale […] non è quante immagini vediamo, o quanto siano brutali, esplicite o “pornografiche”. E non possiamo imputare alla fotografia di non essere riuscita a sconfiggere la violenza; come ha detto una volta James Nachtwey, “I più grandi statisti, filosofi, umanitari […] non sono riusciti a mettere fine alla guerra. Perché imporre questa pretesa alla fotografia?”. Il vero nodo della questione è l’uso che facciamo di queste immagini di crudeltà. Possono aiutarci a dare significato al presente e al passato? E se sì, quali significati trarremo, e come agiremo in base a essi? Le risposte ultime a queste domande non vanno cercate nelle immagini ma in noi stessi. I fotogiornalisti sono responsabili dell’etica del mostrare, ma noi siamo responsabili dell’etica del vedere».