«Ravanare? Lo dicono i giovani, ma la parola esisteva già nel Seicento»

«Archeologo della lingua italiana? Antropologo? Non esageriamo». Quando gli chiediamo come possiamo definirlo, Ottavio Lurati ci guarda divertito. «Diciamo piuttosto che mi sento uno che usando la lingua, si incuriosisce. Archeologo è un livello alto. Mi metto e sono sempre al livello della gente. Infatti, mi fa piacere concludere la mia carriera con un testo intitolato ‘Tra la gente’» (per la precisione: Tra la gente. Parole «giovani» fascino di luoghi e famiglie echi biblici nel nostro parlar corrente, SalvioniEdizioni, ndr). Non c’è dubbio che l’ultima fatica editoriale dello studioso nativo di Chiasso, per anni professore di linguistica all’università di Basilea, strizzi l’occhio alle persone normali, raccontando la storia delle parole «alla buona, senza alcuna solennità». L’autore ha i piedi ben piantati per terra, la sua e la nostra terra ticinese. Offre così una singolare rassegna – sia tecnica che popolare - di nomi di luogo, cognomi di famiglie, termini gergali colti al volo (magari viaggiando sul TILO, nella foto Maffi sotto) e riverberi biblici scovati nella lingua di tutti i giorni. Alla fine capisci che sotto il significato corrente delle parole se ne nascondono altri che proprio non sospettavi. Leggete per credere.

Ottavio Lurati: né archeologo, né antropologo della lingua italiana. Ma allora lei cos’è?
«Vengo da un mondo a Basilea in cui regnava il positivismo, ancora negli anni Cinquanta e quello che contava era la fonetica. A poco a poco mi sono ribellato. Non conta solo la fonetica, ci sono anche altre cose. Per esempio i gerghi, i cognomi, il nome della gente. Devi anche vedere la lingua nella sua dimensione sociale e umana. Per rispondere alla domanda: non ho mai fatto cose teoriche, vengo dalla gavetta».
Nel suo ultimo libro, «Tra la gente», lei prende in considerazione quattro aree tematiche: il linguaggio dei giovani, la toponomastica locale, i cognomi ticinesi e gli echi biblici del nostro parlare. Scelga una parola per ognuna di queste aree e ce la racconti...
«Per il linguaggio dei giovani cito ravanare, un termine che oggi è diventato un tecnicismo. Penso agli sbandati del CAS che quando non trovano la pista dicono ‘em ravanaa tütt al dì’. Significa perdersi. La parola mi ha incuriosito e andando ad analizzare degli schedari, scritti tutti a mano, ho visto che il termine c’era già nella Lombardia del tardo Seicento col significato di ‘star male’, ‘sentirsi a disagio’, ‘non capire più in che situazione ci si trovi’».
Come facciamo a saperlo?
«Conosciamo queste cose attraverso i comici, i poeti che parlavano di cose banali ed evocavano non solo situazioni poetiche, ma anche, appunto il ’ravanare’ della gente».
Ci racconti, ora, un nome di luogo.
«Allora partiamo da Ticino. Ticino è il nome di un fiume che scorre dalla Leventina e dalla Val di Blenio. Il Brenno è un’invenzione dei geografi del tardo Ottocento. ‘Tasin’ che è parente del ‘Tos’ (Toce) è uno dei nomi che gli amministratori del grande Napoleone hanno dato a questo dipartimento. I francesi da secoli davano il nome ai dipartimenti sulla scia del nome del fiume che li percorreva».

Fra i cognomi noti di oggi, le propongo, invece di commentare Cassis.
«Su Cassis ho lavorato qualche giorno. Ogni tanto lo vedi in giro nella nostra Collina d’Oro. Cassis è un plurale in ‘is’ ablativo. Si riferiva a coloro che abitavano ‘alle case’. I notai bergamaschi lo scrivevano con due ‘s’, ma in sé ce ne vorrebbe solo una. I più poveri abitavano nei tuguri, altri in capanne e salendo di grado i signori, gli ‘aldiones’, quelli che erano liberi ma non avevano enormi terreni a disposizione, avevano le case. Con una certa forma di comodità, che spesso era caminata, cioè provvista di un camino. I Caminada erano coloro che avevano una casa di questo tipo».
Ci dica una bella espressione che viene dal mondo religioso.
«Direi ‘I gamb ma fan giacum giacum’, mi tremano le gambe, non mi reggo, non ce la faccio più. È una desematizzazione, una banalizzazione di un termine alto che si riferiva al percorrere la strada di San Giacomo verso il Finisterre, e a poco a poco, continuando a ripetere ‘quello è sulla strada di San Giacomo’ (cioè: è morto) si è arrivati alla banalità nostra per cui si dice ‘i gamb ma fan giacum giacum’, nel senso che mi tremano. Ma era il segno della debolezza definitiva».
L’etimologia non sempre è una scienza esatta. Lei stesso a volte contesta le interpretazioni di alcuni suoi colleghi. Scelga un termine legato al Ticino che a suo modo di vedere è stato male interpretato.
«Sì, l’etimologia è un’approssimazione, ma anche la medicina lo è. Per l’esempio, direi ‘Morcote’, ‘Morcò’. Tradizionalmente il nome vien fatto discendere da un signore latino che venne ad insediarsi lì e che ha lasciato il suo nome. Invece per secoli si scriveva ‘Murcau’. Era diventata ‘u’ quella che era una ‘e’ in protonia. E ‘marcau’ indicava un posto dove c’era un importante confine, un segnale di confine. In questo caso tra Como e Milano. Stessa faccenda per Muzzano, che prenderebbe il nome da un certo Mucius. Ma non abbiamo riscontri in questo senso. Muzzano è invece la zona mezzana della strada che sale».

Nel suo libro traspaiono qua e là alcuni aneddoti di storia locale che in un qualche modo incidono anche sulla lingua. Può fare un esempio?
«Nel libro cito il caso di Aranno (nella foto CdT sopra) dove oltre un secolo fa c’era un muratore che la sera leggeva la Bibbia in piazzetta, subito fantasiosamente battezzato san Paolo dai compaesani. Sempre ad Aranno c’è poi una bella casa sulla piazza chiamata ‘Tribunale federale’, vista la litigiosità che regnava in paese».
Ci si può innamorare di una parola?
«Perché no? Di solito sono parole che riguardano il luogo dove sei nato. La gente di Salorino si illumina quando dici il nome del loro villaggio. E poi ci sono parole come ‘Dio’, ‘la mè mamm’, la parola ‘patria’ che è stata a lungo assente dalla nostra pubblicistica. Non faccio parte di nessun partito politico, ma mi piace la radicatezza. Siamo un po’ tutti sradicati. Anche ‘radici’ è una bella parola».
E ci sono parole che detesta?
«No. Non mi piacciono – commenta ironico -le sgridate in dialetto balernitano di mia moglie quando ‘la ma alza da pes’. Un’espressione che fa riferimento al tempo dell’inquisizione, quando le persone venivano sollevate con la corda per fare scricchiolare le sue ossa. Se non ‘cantava’, lo tiravano sempre più su. ‘Al m’a valzà da pes’ vuol dire ‘mi ha fatto un trattamento molto duro’. Ecco l’origine di ‘mi ha dato un’alzata’».
Lo scorso 10 dicembre, a Lugano, il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, ha lanciato l’allarme sulle troppe parole forestiere e sul depotenziamento dell’insegnamento della lingua italiana nelle scuole. Un allarme che condivide?
«Stimo molto Marazzini e lo conosco da tempo. Quello che dice è giusto, ma il problema a volte è a monte. Abbiamo tanti ragazzi che vanno al liceo demotivati, vanno lì per fare un piacere ai genitori. C’è un po’ la mania di avere il figlio che ha studiato. E così la Svizzera va verso la disoccupazione intellettuale. Il problema, quindi non sta tanto nella lingua, ma nell’uomo. Mia figlia insegna in una quinta ed è raggiante quando vede una pagina scritta con una struttura. Molti allievi del liceo scrivono testi molto scarsi».
E l’uso pervasivo delle parole straniere?
«Non è un problema. L’italiano sarebbe una povera lingua se dovesse tremare perché arrivano parole inglesi. È tutta una questione di superficie. Chi vuol fare lo chic cita parole inglesi, ma il gran fiume della lingua non viene scalfito dall’inglese. In passato abbiamo avuto la fase dei francesismi, che poi ha generato parole importantissime, e la lingua è andata avanti. Sono ottimista. Mi preoccupa di più il fatto che in molti giovani ci sia poco senso della memoria».

Lei scrive che la conoscenza della Bibbia serve anche all’agnostico? Perché?
«La Bibbia è una base solida anche dal punto di vista umano. Non bisogna essere clericali per leggere la Bibbia, che trasmette un messaggio di comprensione e di umanità, di civiltà e di cultura. Quelli che hanno forse sbagliato con la Bibbia sono i direttori di seminari, compreso il nostro di Lugano negli anni Quaranta e Cinquanta, in cui la Bibbia non veniva letta e venivano lette solo L’imitazione di Cristo e altri libri analoghi. Ci sono dei baratri, anche in certi parroci, e il problema della solitudine di molti preti. San Carlo Borromeo, che presumo fosse di un rigorismo estremo, ha voluto distinguere i preti, anche con la tonaca, in modo da renderli isolati».
E infatti, a sorpresa, nel libro lei prende posizione sulla questione del celibato obbligatorio dei preti.
«Sì. Ho visto troppi preti scoraggiati. Ne conosco parecchi non scoraggiati dalla lotta con la carnalità, ma dalla lotta contro il fatto di sentirsi inutili. Una moglie o una compagna potrebbe aiutarli a legarli al mondo. Ci sono preti che non sai più se sono legati al Vangelo, o alla comunicazione con la gente e si sono un po’ inariditi. Non tutti! Ma l’impressione è che la Curia di Roma li mandi al combattimento senza munizioni».
Ha dedicato il libro ai giovani e li invita a guardarsi attorno. I giovani di oggi non sono abbastanza curiosi?
«Spero che qualcuno di loro legga il libro. Nei tanti anni di insegnamento ho avuto la fortuna di avere degli allievi molto aperti e curiosi. Uno degli stimoli della vita è la curiosità. Non si può vivere nella piattezza. Ho insegnato qualche anno al liceo di Lugano, con allievi come Fulvio Pelli e Aldo Sofia, per dire. Tra loro c’era molto interesse e anche un pizzico di contestazione...»
Chiudiamo in bellezza: regali una parola ai giovani.
«Beh: speranza o curiosità».