Risotti, bolliti misti e cercatori d’oro sulle sponde del Ticino in Italia

Incontriamo l’architetto italiano residente a Rovio, Mario Castellani, per farci raccontare un Ticino di cui ignoriamo quasi tutto. Quello a cui ha dedicato il suo ultimo libro - “Tisin e Tisinat. Vigevanesi al fiume”, Ciost edizioni. Nelle righe che seguono vi proponiamo l’intervista integrale con l’autore. Lo stesso tema è stato anche trattato, ma in modo diverso, dal regista Andrea Caccia, nel documentario “Tutto l’oro che c’è”, di cui vi proponiamo una recensione.
La premessa è geografica. Se il corso superiore o montano del fiume Ticino scorre per 91 chilometri in Svizzera, (dal San Gottardo al Lago Maggiore), quello inferiore e italiano ne misura 110 e attraversa la vallata della pianura tra Lombardia e Piemonte. Qui il suo corso è quasi selvaggio, rendendo vano “ogni tentativo di controllo delle sue acque con rigide sponde”. Un paradiso naturalistico con due parchi regionali, quello lombardo e quello piemontese, e un’invidiabile biodiversità riconosciuta dall’Unesco. È qui, più precisamente nella zona fluviale attorno a Vigevano che, macchina fotografica e calepino degli appunti alla mano, Castellani ha svolto la sua inchiesta. Ecco il suo racconto.


Mario Castellani (nella foto sotto), in Ticino non esiste una realtà come quella delle casotte nella zona di Vigevano.

«La si può trovare in alcune parte del Ticino nel Novarese, come Cameri. È una realtà dovuta alla presenza della valle frequentata dalla gente a livello di balneazione dalla fine dell’Ottocento. Inizialmente questo fenomeno si era sviluppato attorno alle zone di traghettamento, le vie di transito tra le due sponde, dove non esistevano i ponti, ma solo dei traghetti. Qui c’era un punto di sosta intorno a cui, dalla metà dell’Ottocento, hanno cominciato a sorgere ristoranti, trattorie, osterie. Con la costruzione dei ponti e le ferrovie sono diventati luoghi di frequentazione maggiore, un po’ come doveva essere il piano di Magadino in Ticino prima della bonifica».
E prima di allora?
«La zona del Ticino in Italia, a differenza del fiume di oggi nel canton Ticino, era battuta per la raccolta della legna, per l’agricoltura, per la raccolta dei sassi bianchi per l’industria della ceramica e del vetro, per la pesca – ovviamente – ma anche per la raccolta dell’oro, che si cercava già in epoca medievale».
La forma del fiume, in Italia, è assai diversa da quella in territorio svizzero.
«Sì. Il fiume è ancora così. Dall’uscita dal lago fino a Pavia, ha una conformazione di carattere torrentizio. Ha due piene all’anno e due periodi di magra che influiscono sul territorio. Quando c’è una piena il fiume si può allargare anche a un chilometro o due. È un’area non antropizzata, visto che il fiume si espande e si ritira. L’unica zona urbanizzata è quella di Pavia».

Lungo questo fiume mutevole lei ha documentato la presenza delle cosiddette casotte. Di cosa si tratta?
«Nel libro parlo dell’evoluzione, del passaggio dal periodo dello svago legato alle osterie, all’utilizzo della zona al di là della pesca, anche come punto di balneazione. E siamo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Erano zone di balneazione attrezzate, di colonie elioterapiche estive per bambini. Con la fine della guerra, queste strutture organizzate dal regime sono andate perse. Ed è cominciata una frequentazione un po’ più libertaria ed anarchica del territorio, da parte soprattutto di cercatori di funghi e di pescatori».
Cosa hanno fatto?
«Hanno cominciato a costruirsi delle piccole baracche provvisorie in legno e in frasche. E qualcuno ha messo in piedi anche una piccola attività di osteria. Grazie alla pesca, venivano serviti dei pesciolini d’acqua dolce fritti, le bottine, con del vino e delle gassose. Strutture provvisorie per il periodo estivo che servivano per i pasti veloci. Poco per volta si è cominciato a costruirne sempre di più, come luoghi di attività ricreativa del tempo libero. Nella parte alta, queste strutture sono più famigliari e sono legate alle attività del weekend come i pranzi, le cene o la coltivazione di ortaggi».
E sul fiume?
«Sul fiume sono strutture di gruppi di amici, di soci. La particolarità è che questi gruppi non sono proprietari del terreno. I terreni sono quasi tutti privati e venivano concessi in affitto a questi gruppi di amici che costruivano la casotta. Pagavano l’affitto per un certo numero di anni, poi l’edificio tornava al proprietario e da lì in avanti continuava l’affitto. In una certa zona so che i proprietari si facevano pagare con una sterlina-oro annuale».
Un ambiente molto particolare, quindi.
«Sì, il mio amico che ha curato la prefazione del volume, Vittorio Sacchi, ha trovato un’affinità tra la vita dei parigini di fine Ottocento sulla Senna, quella immortalata nei quadri di Monet per intenderci, e quella dei vigevanesi sul Ticino nello stesso periodo. Ci sono delle affinità anche fotografiche».
Anche da un punto di vista naturalistico si tratta di un posto particolare.
«Sì, e infatti oltre a due parchi regionali (Lombardia e Piemonte), l’Unesco gli ha attribuito il riconoscimento di Riserva della Biosfera».
Chi sono i Tisinat?
«Adesso, a dire il vero, persistono i vecchi, gli anziani, la gente legata al territorio. Una gran parte è costituita dai pescatori, vanno con le barche o vanno a raccogliere funghi, Vivono l’ambiente naturale secondo una logica di sfruttamento e di gestione del territorio. Non sono ambientalisti. Però conoscono i loro ambienti. Li girano con le barche, ne conoscono tutti gli angoli. E ci sono anche i canoisti. Poi ci sono i frequentatori delle casotte. Non vanno in barca, ma frequentano il territorio sulla sponda in gruppi famigliari o di amici. Gestiscono questi edifici come luoghi del tempo libero. Ci si ritrova per passare il tempo a giocare a carte o a preparare la cena del sabato sera o il pranzo della domenica».

Grigliate?
«Hanno piuttosto cucine vere e proprie: fanno dei gran risotti, bolliti misti, lessi, ravioli... Sono dei piccoli grotti di amici. E in tantissimi casi è possibile andarci anche senza far parte del gruppo o essere soci. Si partecipa al pranzo o alla cena dando una quota sulla spesa alimentare che è stata fatta. In questo sono molto aperti. Ci sono cene che a seconda delle situazioni sono fatte con dieci, venti, trenta o quaranta persone».
E i giovani?
«Qualcuno c’è e prova a gestire queste cose, ma in genere i giovani durano poco».
Invece ci sono gli extracomunitari.
«Sì, c’è una grossa comunità straniera che frequenta il fiume d’estate, lo fa molto perché è un luogo balneare sempre vissuto come tale. Purtroppo, non conoscendo le dinamiche del fiume, a volte qualcuno di loro annega. I vigevanesi, invece, sanno come comportarsi con la corrente, il fiume è torrentizio, la temperatura è bassa, ci sono buche, mulinelli, eccetera».

I PERSONAGGI
Chi sono i personaggi di questo mondo?
«Ci sono dei personaggi raccontati, perché oggi non ci sono più quelli tipici della vita degli anni Sessanta e Settanta, quelli cioè del momento clou della vita sul fiume, quando oltre a ristoranti e casotte c’era stata anche una pista da go-kart. Uno dei primi che ha avviato questa attività è un tizio che di cognome fa Dinamite, un pescatore professionista, assieme a un suo altro collega che di soprannome fa Capac e che gestiva una casotta molto frequentata e ancora in funzione. C’è Sergio Cordani, soprannominato Taraplin, che ha messo in piedi un’osteria in una zona dove inizialmente c’era un traghetto e che ha generato il toponimo del posto: oggi la zona ufficialmente si chiama Taraplino. Era gente che gestiva le osterie. Ma ci sono anche i cercatori d’oro: alcuni esistono ancora. In una ex cava trovi anche un gruppo di persone che giocano a carte tutti i pomeriggi su dei tavoli. Era importante avere una memoria scritta di questo mondo, fino ad ora inesistente».
Il libro lancia una specie di grido d’allarme: questo mondo sta finendo?
«Diciamo che sopravvive, ma c’è ancora. Gli edifici ci sono, le persone che li frequentano ci sono e infatti sono andato sul posto, le ho incontrate e fotografate, ho parlato con loro. Le foto, detto per inciso, le ho raccolte da vecchi archivi, soprattutto quelle di un bel personaggio, morto da alcuni anni: il fotografo del giornale locale, L’Informatore Vigevanese, Carlo Ischias, il quale era sempre al fiume con la macchina fotografica. Ma otto volte su dieci non aveva il rullino. Gran parte de suo archivio è andato perso. Ho recuperato alcune di queste foto, e le altre – la stragrande maggioranza - le ho fatte tutte io nell’arco di diversi anni. Che dire? Oggi non è la vita degli anni d’oro, tant’è vero che la maggioranza dei ristoranti al fiume è chiusa. Ci sono gruppi. Ci sono le darsene: delle tre storiche, due sono chiuse e l’ultima ha quaranta soci. Inoltre ha preso vita un intervento del parco con una darsena che conta un centinaio di barche, il che significa che la frequentazione c’è. E dagli anni Ottanta c’è un’associazione storica di amici del Ticino, che però non ha la stessa vitalità di un tempo. Insomma, si resiste».


LA STORIA
Tra il XII e il XIV secolo i diritti sui luoghi a ridosso del fiume Ticino nella zona studiata da Castellani entrano in possesso dei Comuni che, con i loro statuti, regolamentano gli usi civici come la pesca e la ricerca dell’oro, la raccolta del legname e il passaggio del fiume. In seguito sarà il Ducato di Milano a vantare controllo e diritti sul Ticino.

Nel 1743, con il trattato di Worms, Vigevano è annesso al Piemonte. Il Ticino diventa linea di confine e i terreni in sponda sinistra, da sempre parte del comune di Vigevano, passano al milanese. I terreni demaniali entrano
a far parte del patrimonio statale sabaudo e austriaco.
Dall’inizio dell’Ottocento i territori della valle facenti parte del Demanio sono ceduti a privati. Con il Novecento gran parte della zona boschiva, detenuta da famiglie facoltose come i Necchi di Pavia e i Crespi di Milano, è destinata ad attività venatorie, realizzando riserve recintate. Luoghi dotati di case per i custodi guardia caccia e per i gruppi di cacciatori ospiti. La frequentazione dei boschi viene così preclusa ai cittadini lasciando liberi solo alcuni percorsi di accesso al fiume.
Prima del XX secolo il territorio della valle percorsa dal Ticino è un luogo in cui si svolgono solo attività di carattere produttivo. Sul fiume si pesca, si cerca l’oro e si raccolgono i ciottoli per le pavimentazioni stradali e i sassi bianchi per l’industria.
Con la seconda metà del XIX secolo i vigevanesi cominciano a frequentare diversi luoghi fuori dalla città, dove impegnare il tempo libero dei giorni festivi, in particolare nel periodo estivo. In tale epoca inizia la frequentazione dei primi luoghi di ritrovo nei pressi del fiume che prende maggiore vigore con la costruzione del ponte sul Ticino, completato nel 1870 con la nuova strada realizzata in sostituzione delle vecchie vie di collegamento con il servizio di traghettamento. Si costruiscono sono tre ristoranti.
Con la fine della seconda guerra mondiale l’uso delle sponde del Ticino ha un maggiore utilizzo da parte dei vigevanesi con la costruzione delle cosiddette “casotte”, sorte tra gli anni Cinquanta e Settanta in sostituzione delle prime strutture provvisorie realizzate a ridosso del fiume.

IL DOCUMENTARIO Cacciatori, nudisti, cercatori d’oro: è il piccolo mondo raccontato da Andrea Caccia

È un mondo «a parte» che - come spiega Mario Castellani nell’intervista sopra - è popolato da personaggi molto particolari. Questa atmosfera, sommessa ma al tempo stesso assediata dal mondo di fuori popolato da rumori assordanti di automobili, elicotteri e degli aerei che decollano o atterrano dallo scalo di Malpensa, è al centro di un recentissimo documentario coprodotto dalla luganese Rough Cat di Nicola Bernasconi e dalla RSI: Tutto l’oro che c’è, girato dal regista italiano Andrea Caccia che in quella regione è nato e cresciuto ed è tornato a vivere con la famiglia dopo una lunga parentesi milanese. Presentato in prima mondiale nei mesi scorsi al Festival di Rotterdam, Tutto l’oro che c’è si potrà vedere nei prossimi mesi anche nella nostra regione secondo modalità ancora da definire.
Non è quindi un caso che - dopo una breve sequenza girata sul passo della Nufenen, dove il Ticino è appena nato e dopo averlo seguito nelle rapide della Leventina dove è ancora un impetuoso torrente di montagna, il regista sappia insinuarsi in questo universo con piena cognizione di causa. Da una parte, Caccia si concentra sulla fauna dei luoghi (curioso il fatto che nei titoli di coda le specie animali filmate, con tanto di nome latino, appaiano nella lista degli interpreti) catturando immagini suggestive da vero e proprio ornitologo. D’altra parte, però, al centro del suo lungometraggio ci sono una serie di personaggi reali che sa «sfruttare» in maniera perfetta, seguendoli nei loro spostamenti nell’area del fiume sull’arco di una giornata e -pur non facendoli mai incontrare e senza che nessuno di loro pronunci mai una parola per tutta la durata del film - suggerendo una possibile vicenda che leghi i loro destini. C’è il cacciatore che spara ai volatili dalle rive degli specchi d’acqua che forma il Ticino e si fa riportare le prede dai cani. C’è il naturista che passa la giornata nudo, in assoluta solitudine, nei luoghi meno accessibili tra bagni d’acqua e di sole. C’è l’ultimo cercatore d’oro (Rinaldo Malaschi, lo stesso ritratto nel libro di Castellani) che setaccia instancabilmente la sabbia del fiume. C’è un ragazzo in cerca d’avventure che trasforma il fiume in un compagno di giochi. E c’è un ufficiale dei Carabinieri che fotografa a raffica anche gli indizi più insignificanti e rastrella la zona a tappeto. Chi sta cercando quest’ultimo? Il cacciatore (di frodo?), il nudista (molesto?), il cercatore d’oro (illegale?) o il ragazzo (fuggito da casa?)? Andrea Caccia suggerisce senza fornire alcuna certezza allo spettatore, grazie a un montaggio che cuce sapientemente tra loro lunghe sequenze e brevi inquadrature spesso molto suggestive.
Tutto l’oro che c’è si inserisce così a pieno titolo in un filone documentaristico dai tratti etnografici, che richiama alla mente le opere del cineasta bresciano Franco Piavoli che ottenne un notevole successo con Il pianeta azzurro (1982) e di cui si ricordano anche Nostos - Il ritorno (1989) e Voci nel tempo (1996). Quella proposta da Caccia è una full immersion in un mondo fragile, popolato da una fauna (umana e animale) per lo più in via d’estinzione, che durante i weekend estivi (come testimonia la breve sequenza finale del film) viene invaso da bagnanti in bikini, dai fumi delle grigliate e persino dai vucumprà. Un mondo fuori dal mondo di oggi che custodisce ancora molti segreti e dove «l’oro» non è tanto il luccicante metallo prezioso, quanto piuttosto l’atavica forza di non adeguarsi alle necessità del presente.