Rita Atria, «la settima vittima di via D'Amelio»
Era il 26 luglio 1992. Una settimana dopo la strage di via d’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. In quel giorno di 31 anni fa, il corpo senza vita di Rita Atria fu ritrovato sul marciapiede antistante il palazzo in cui viveva, al civico 23 di viale Amelia, a Roma. Aveva 17 anni e veniva da Partanna, in Sicilia. Nel novembre del 1991 si era rivolta alla magistratura in cerca di giustizia per gli omicidi che avevano colpito la sua famiglia. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni era stato il giudice Paolo Borsellino, al tempo procuratore a Marsala. «L’ho capito da lei cosa vuol dire avere coraggio. Ho imparato che nella vita non ci si deve inchinare alla prepotenza e che alla giustizia non servono parole tonanti, ma racconti veri, fatti concreti», scriverà in seguito in una lettera indirizzata a Borsellino. L’iniziale voglia di vendetta per l’uccisione del padre e del fratello si era infatti trasformata in sete di giustizia.
La «settima vittima di via D'Amelio»
Rita Atria nasce a Partanna, provincia di Trapani, nel 1974, da Vito e Giovanna. Il padre è pastore e proprietario di sette ettari coltivati a vite e ulivo. Appartiene a una cosca mafiosa e il figlio Nicola, di dieci anni più grande di Rita, ne segue le orme. Nel 1985 Vito viene ucciso. Nicola vuole vendetta e cerca di rintracciare il killer del padre. Ma nel 1991 anche lui viene ucciso, all’età di 27 anni. Piera Aiello, vedova di Nicola, denuncia i killer e collabora con la polizia, violando la legge dell’omertà. E viene trasferita a Roma sotto protezione.
Rita si sente abbandonata e tradita. Si reca a Marsala e racconta a Paolo Borsellino le dinamiche di famiglia. Si instaura un rapporto di fiducia (e amicizia) e comincia una fitta collaborazione. Le dichiarazioni della «picciridda» (piccolina, ndr) porteranno all’arresto di decine di mafiosi e alla loro condanna. Anche la ragazza viene trasferita a Roma sotto protezione. Mentre cresce la sua consapevolezza, Rita scrive un diario con considerazioni cariche di condanna per la cultura mafiosa. Come quella (diventata celebre) contenuta nel suo tema di maturità: «L'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo».
Il 1992 è un anno difficile, la strage di Capaci prima e quella di via D'Amelio poi sono un peso troppo grande. «Quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, col loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito». Il 19 luglio scrive: «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l'unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta». Il 26 luglio 1992 Rita Atria vola dal balcone dell'appartamento in cui viveva, al settimo piano del civico 23 di viale Amelia, a Roma. Finisce sul marciapiede, in una pozza di sangue. Vittima di un apparente suicidio.
Il libro-verità: «Io sono Rita»
Lo scorso anno, a trent'anni dalla sua morte, Marotta&Cafiero ha pubblicato Io sono Rita scritto da Giovanna Cucè (giornalista del TG1), Nadia Furnari (co-fondatrice dell’Associazione antimafie Rita Atria) e Graziella Proto (fondatrice e direttrice della rivista Le Siciliane). Un libro che spezza la retorica con cui si racconta la storia di Rita Atria, poiché mette in evidenza le responsabilità mancate delle istituzioni italiane. E che parte da una testimonianza: una signora che avvicina una delle autrici e le dice «Io sono quella che le ha tenuto la mano fino a quando è arrivata l'ambulanza. Mi ricordo che la persiana era chiusa più di metà». Come era possibile che la persiana fosse chiusa? Un primo dubbio, un primo interrogativo, da cui partire. Quindi, dopo anni, l'accesso ai verbali. In cui c'era scritto che la 17.enne «suicida» era una ragazzina normale e non una testimone di giustizia. Una ragazzina non sotto la protezione dell'Alto commissariato. Io sono Rita, per stessa ammissione delle autrici, non intende creare scoop, ma ricostruire il contesto. E lo sfondo «pesantissimo di mafia» in cui Rita Atria è cresciuta. Uno «sfondo» in cui era coinvolto anche Matteo Messina Denaro. E che ha raccontato. «Dopo 30 anni scopriamo cose che non si erano mai dette», scrive l'associazione. «Se non si racconta che la ragazzina è cresciuta in questo fango la si riduce a una semplice picciridda. Se l'hanno ammazzata l'hanno ammazzata perché lei era sola e se si è suicidata lo ha fatto perché era sola».
Trent’anni dopo, il libro-inchiesta ricostruisce la storia di Rita Atria. Per far emergere quello che non è mai stato cercato, chiesto, investigato e scritto sulla storia scomoda della giovane testimone di giustizia. Perché la memoria è una responsabilità. Così come lo sono verità e giustizia. Tanto che più di un anno fa l'associazione antimafie Rita Atria, con Anna Maria Atria, sorella di Rita, ha presentato la richiesta di riapertura delle indagini sulla morte della ragazza.