L'analisi

Rovesciare Teheran: l’obiettivo di Israele è un «rischio globale»

Arturo Marzano, storico del Sionismo, spiega come il premier Benjamin Netanyahu non abbia in questo momento «sufficienti contrappesi» alla sua politica di aggressione militare - Le elezioni americane e la debolezza dell’amministrazione Biden si rivelano forse fattore decisivo
Dopo l'uccisione di Hassan Nasrallah lo scontro tra Israele e le milizie sciite di Hezbollah si è fatto sempre più duro e violento. ©JOAO RELVAS
Dario Campione
03.10.2024 06:00

«Non so se la risposta militare dell’Iran, Paese che pure ha limiti tecnologici evidenti, sia stata contenuta per non rischiare una reazione ancora più dura da parte di Israele. So che la situazione è molto preoccupante. Tutti navigano nel buio di fronte a qualcosa di nuovo sullo scenario mediorientale». Arturo Marzano, associato di Storia e Istituzioni dell’Asia all’Università di Pisa, ha pubblicato da pochi giorni l’ultima sua ricerca sul conflitto israelo-palestinese (Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina, Laterza), tema di cui si occupa da anni.

L’elemento di novità che Marzano vede è riferito, in particolare, agli assetti politici del Governo israeliano. «Di solito, negli esecutivi israeliani c’è sempre stato un bilanciamento: falchi e colombe, moderati e radicali siedono assieme allo stesso tavolo. La volta in cui non è accaduto fu nel 1982», quando esplose la “prima guerra del Libano”. In quel frangente, ricorda Marzano al Corriere del Ticino, «nessuno faceva da contrappeso a Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Ariel Sharon e Rafael Eitan. Tutti quanti - cioè premier, ministro degli Esteri, ministro della Difesa e capo di Stato maggiore delle Forze armate israeliane - erano falchi, e infatti accadde quello che ciascuno di noi sa»: non una operazione limitata al sud del Libano, ma un assedio a Beirut durato mesi e un’occupazione del sud del Paese durata fino al 2000.

L’attuale governo israeliano, dice ancora Marzano, oltre alla presenza di falchi «ha dentro di sé un’anima messianica, radicale. E non ha alcun contrappeso. Nemmeno esterno. Quarant’anni fa, alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan e gli Stati Uniti leggevano ogni contesto internazionale secondo il prisma della Guerra fredda: il via libera a Israele contro l’OLP e la Siria era quindi funzionale alla lotta contro il comunismo. Oggi, gli USA sono deboli, perché l’amministrazione Biden è paralizzata e il Paese è in piena campagna elettorale. Nessuno se la sente o è in grado di dire qualcosa di molto forte a Israele. Mancano, appunto, contrappesi. E questo è un problema, secondo me».

Mani libere

Benjamin Netanyahu, insomma, sente di avere le mani totalmente libere. Pensa di poter agire come meglio crede. Forte anche di evidenti successi militari. «È chiaro che prima l’uccisione a Teheran di Ismail Haniyeh e poi quella di Hassan Nasrallah a Beirut sono due successi dal punto di vista strategico - spiega lo storico dell’Università di Pisa - conseguiti, soprattutto il secondo, colpendo centinaia di civili, scelta che può essere solo condannata. Ma Israele ha dimostrato di essere riuscito a penetrare completamente il sistema di sicurezza di Hezbollah. E ha forse alimentato nel premier Netanyahu la convinzione di poter fare ciò che vuole. Nel discorso pronunciato alle Nazioni Unite, Netanyahu ha sottolineato la necessità di sostenere la popolazione iraniana nello scrollarsi di dosso il regime degli ayatollah. Se la sua ambizione è passare alla storia come colui che ha contribuito a far questo, mutando le sorti mediorientali, vuol dire che siamo davanti a un rischio veramente grave».

Fino a dove può, o vuole, spingersi l’attuale leadership di Israele?, si chiede Marzano. E chi saprà fare da contrappeso? «Ormai siamo oltre la legittima difesa. Dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre di un anno fa era inevitabile colpire Hamas, ma siamo andati molto più in là, distruggendo quasi completamente l’intera Striscia di Gaza».

Purtroppo, riflette lo storico, «l’Iran ancora una volta ha offerto il fianco a Israele. Teheran ha “dovuto” rispondere agli attacchi ad Hamas, a Hezbollah e agli Houti per dimostrare comunque la sua capacità di deterrenza, per ribadire soprattutto ai sauditi di essere una potenza regionale. Ma si è esposta».

Attaccare il regime degli ayatollah, però, significherebbe allargare il conflitto a dimensioni sino a questo momento sconosciute. E drammatiche. Per tutto il Medio Oriente. «A quel punto - sottolinea Marzano - l’intera stabilità regionale potrebbe essere a rischio perché, ad esempio, nessuno potrebbe garantire la stabilità della Siria da eventuali ambizioni dell’Arabia Saudita nell’avere a Damasco un regime alleato di Riyad».

Una sorta di gigantesca polveriera, la cui esplosione pochi sarebbero in grado di controllare. Per quanto, dice ancora lo storico dell’Università di Pisa, «non ritengo plausibile una saldatura della cosiddetta “Terza guerra mondiale a pezzi”, espressione che peraltro non condivido. Posso anche sbagliare, ma non riesco a vedere questo scenario. Non credo che la Russia abbia interesse a sostenere l’Iran in questo momento, saldando appunto i fronti del conflitto».

Palestina, questione irrisolta

Una cosa appare evidente. Lo spostamento della guerra verso il Libano di Hezbollah e verso il fronte iraniano sta facendo venir meno l’attenzione sulla questione palestinese e sul dramma della Striscia di Gaza, dove in un anno sono morti quasi 42 mila civili.

«L’attacco criminale del 7 ottobre 2023 voleva rilanciare la Palestina come problema politico a livello regionale e internazionale: sia dimostrando come la sicurezza israeliana non possa essere garantita se non da un accordo con i palestinesi, sia facendo saltare gli accordi tra Israele e Arabia Saudita che molti vedevano vicinissimi. Ma l’unico modo per risolvere la questione è riconoscere il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato: in quali forme, se con una soluzione due popoli - due Stati, o in uno Stato binazionale o in una federazione o confederazione tra Israele e la Palestina si può discutere. Ma da questo imbuto non si esce. La questione palestinese è politica: non confessionale, non economica, non culturale. Una soluzione al conflitto passa solo dalla realizzazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. Bisogna sciogliere questo nodo», insiste Marzano. Che conclude ribadendo un punto «essenziale: la preoccupazione, che mi pare la comunità internazionale non abbia, per la sorte di tutte le popolazioni mediorientali: libanese, siriana, palestinese, israeliana, iraniana. La guerra porta distruzione e morte. È di questo che dovremmo occuparci. E preoccuparci».