Società

«Sbarcati» in Ticino, in cerca di stabilità

La comunità eritrea ha un passato doloroso, e cerca di lasciarselo alle spalle, ma non è facile
© cDt / Chiara Zocchetti
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
07.04.2024 13:38

I chicchi verde pallido aspettano di essere tostati ma tanto non c’è fretta. «Servono almeno quindici minuti prima che si abbrustoliscano e altrettanti prima che la loro polvere macinata dia il giusto sapore al caffè», rimarca con voce timida Araya Medhin, madre di Eldana e Lulia, che per preparare al meglio la bevanda si è seduta su uno sgabello altezza terra attorno a un fornelletto e a un vassoio sul quale sono appoggiate sei tazzine tradizionali eritree. Quasi del tutto simili a quelle italiane eccezion fatta per l’assenza del manico.

Araya abita in un piccolo palazzo di Caslano tra il passaggio a livello e il lago. È arrivata 9 anni fa dall’Eritrea, un Paese diventato improvvisamente ostile dopo che l’esercito si è presentato a casa sua alla ricerca di suo marito che non si era più presentato in caserma. «Non ho aspettato la seconda volta che venissero, sapevo che in contropartita avrebbero preso me e le mie figlie». Non ha aspettato ed è fuggita. Per cinque mesi ha vagato tra Sudan, Libia e Mediterraneo. Prima di sbarcare in Italia e raggiungere la Svizzera. Araya non ha voglia di ricordare. Anche perché Eldana e Lulia avevano 5 mesi la prima e 5 anni la seconda. «Di mio marito non ho avuto più notizie», rivela rovesciando il caffè in un pentolino per poi riversarlo ancora nel recipiente che lo sta bollendo. Che assomiglia a una piccola brocca di terracotta e si chiama jebena. Il segreto del caffè eritreo sta proprio qui. Nella lunga e meticolosa preparazione. Che non deve essere fatta di fretta.

Sequestrato dai trafficanti

Anche Tesfib Bokretsion ha attraversato il deserto del Sahara una volta approdato in Sudan. Era il 2014. «Abbiamo viaggiato in 40 su due pick-up. Gli autisti correvano veloci senza preoccuparsi del carico. Uno di noi è anche caduto. Sembrava morto, poi gli hanno dato dell’acqua e si è ripreso». Tesfib si ricorda tutto. Anche quando sulla strada una carovana di banditi armati fino ai denti lo ha rapito e liberato solo dopo aver pagato 3mila dollari di riscatto.

La pista che non finisce mai. La sete che ti assale e non puoi bere neppure un goccio d’acqua. «Qualcuno ha tirato fuori delle taniche. Abbiamo bevuto l’ultima acqua che c’era anche se sapeva di benzina». Una volta in Libia gli è capitato di peggio. Un trafficante gli ha puntato alla testa una pistola prima di finire in un centro di detenzione per migranti. Anche la partenza dalle coste non è stata semplice. «La prima volta il barcone è stato intercettato a poca distanza dalle acque italiane. Il secondo tentativo è riuscito e sono sbarcato a Crotone».

Generazione senza futuro

Tesfib è scappato dal suo Paese perché non vedeva un futuro per sé e la sua generazione. Un destino comune a molti suoi connazionali. Almeno mille quelli arrivati in Ticino negli ultimi anni. Una comunità per molti versi ancora sconosciuta, la loro. Qualche fatto di cronaca nera sui giornali. Alcuni tafferugli scoppiati in sequenza proprio negli ultimi mesi in Svizzera. I sostenitori del governo di Isaias Afewerki da una parte, gli oppositori dall’altra.

C'è una dittatura in Eritrea. Le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Chi può scappa anche se non ha il permesso di lasciare il Paese. «Il 90% dei giovani viene arruolato, il restante, se va bene, trova un posto nell’apparato statale grazie agli appoggi politici giusti», specifica il ragazzo. Che oggi ha 25 anni e nonostante sia in Svizzera da 10 anni, lavori e rispetti la legge è ancora in attesa di un permesso che gli permetta di vivere più serenamente. Anche perché senza un documento capace di dargli più stabilità non può uscire dalla Svizzera. Non può neanche farsi una settimana di vacanza all’estero. Come fanno tutti quelli che lavorano tutto l’anno come lui e amerebbero anche solo una volta passare le ferie in modo diverso.

Tra differenze e altri mondi

L’Eritrea è lontana e la sua comunità fa come fatica a essere percepita. A distanziarla dalla Svizzera sono anche la lingua, la cultura e il clima. Molti differenti da quelli occidentali. Tre differenze non da ridere che richiedono importanti sforzi di avvicinamento da ambo le parti. Non capita così però con i giovanissimi che sono nati qui o ci sono arrivati da piccolissimi. Eldana ad esempio si esprime in un italiano perfetto, mentre sua mamma stenta. Stessa cosa Lulia. Che finite le Medie non sa ancora cosa vorrà fare da grande ma ha già idea di esplorare altri mondi, viaggiare. «Mi piacerebbe andare in Inghilterra», precisa. Eldana vorrebbe invece fare la maestra di scuola elementare. «Voglio studiare», afferma. Il presente fa invece rima con il fatto di essere l’unica bambina eritrea in classe. «A volte mi sento speciale, perché sono l’unica arrivata da un Paese lontano», sottolinea con orgoglio. Perché le differenze quando si è ancora bambini possono essere belle, se guardate con lo sguardo giusto.

Ricominciare tutto da capo

Neanche Girmai Gebreyesus ha troppe difficoltà a esprimersi in italiano anche se è arrivato 7 anni fa, quando di anni ne aveva 23. «Ho imparato prima da autodidatta poi a scuola a Canobbio», sottolinea, prima di continuare. «Avevo un’altra immagine del continente europeo, ma una volta arrivato mi sono reso conto che la realtà non coincideva con le mie aspettative. I primi tempi mi sono sentito isolato, però questa esperienza mi ha dato l’occasione di vedere la realtà da un altro punto di vista. Dovevo ricominciare tutto da capo, una nuova lingua, nuove abitudini e un altro clima. Per me è stata una piacevole sfida apprendere uno stile di vita diverso da quello a cui ero abituato». Chi la dura la vince, c’è scritto sulla frase di presentazione del suo profilo Whatsapp. Un motto, uno stile di vita per Girmai. Che ora sta imparando il tedesco e insegna anche il tigrino, la lingua più parlata in Eritrea, alle nuove generazioni come Eldana e Lulia. Che invece fanno fatica con la loro lingua madre. «La capisco ma ho difficoltà a parlarla», ammette Eldana. Ecco perché Germai le dà lezioni. A lei e ad altri otto bambini a Pregassona negli spazi concessi dall’associazione Amélie (un’organizzazione senza scopo di lucro attiva a Pregassona dal 2021 che si dedica con impegno a promuovere lo sviluppo sociale e l’integrazione attraverso una varietà di attività rivolte a famiglie, bambini, anziani, richiedenti d’asilo e persone bisognose del quartiere). «Non lo faccio solo perché in questo modo i bambini nati qui possano comunicare meglio con i loro genitori ma anche per tramandare la nostra terra e la sua cultura alle nuove generazioni nate o arrivate da piccole in Ticino».

Un regime di terrore

Un ponte con il passato per costruire meglio la strada del futuro. Sembra essere questo il destino degli eritrei che vivono in Svizzera che non vogliono dimenticare la loro patria. «L’Eritrea oggi è ritenuto il Paese africano dove i diritti dell’uomo sono tra i più violati - spiega Girmai -. L’attuale presidente, un dittatore, è a capo d’un governo falso. Tutti gli uomini, donne, bambini, tutti quelli che si sono sacrificati per portarci la pace, sono stati dimenticati. Il popolo vive in un regime di terrore e progressivo impoverimento». Non sorprende che ogni mese più di 4.000 eritrei fuggano dal loro Paese, iniziando un viaggio verso l’Europa che inizia dal deserto del Sudan, la prima nazionale confinante a Nord.

Un viaggio della disperazione e della speranza. Ma anche un viaggio a volte senza ritorno. Come dimostrano le molte tragedie dimenticate. Che ogni tanto spuntano sui giornali. Per poi scomparire pochi giorni dopo. «Non sognavo di venire qui in Europa, sono stato costretto perché non avevo scelta - riprende Girmai -. Ho dovuto affrontare tanti pericoli e situazione difficili per attraversare il deserto libico e il Mar Mediterraneo. Amo il mio paese, ma purtroppo la corruzione dei politici ha portato solo distruzione e stragi di innocenti». Il caffè è pronto. Araya lo versa nelle tazzine ed Eldana lo serve agli ospiti. Prima al più anziano come da tradizione poi via via fino al più giovane. L’Eritrea ora è molto più vicina. Rimane attaccata al palato come il gusto tostato della sua bevanda tradizionale

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