Se il cambio di rotta dell’Europa disegna un mondo «nuovo»

Che cosa significa, in concreto, «Conseguire la pace con la forza»? Perché i 27 Paesi dell’Unione Europea, con la sola eccezione dell’Ungheria, hanno adottato questa formula per sintetizzare la strategia che dovrebbe condurre alla fine del conflitto in Ucraina? E, soprattutto: è credibile che la stessa Unione proponga un simile disegno?
All’indomani del Consiglio europeo straordinario che giovedì, a Bruxelles, ha deciso di far svoltare la politica di difesa continentale, molti si chiedono se il cambio di rotta sia realmente possibile. L’UE ha stabilito, quantomeno sulla carta, di «rafforzare la propria prontezza generale alla difesa, di ridurre le dipendenze strategiche, di affrontare le carenze critiche in termini di capacità militare e di rafforzare, di conseguenza, la base tecnologica e industriale della difesa europea». E ha individuato un «primo elenco di settori prioritari, tenendo conto degli insegnamenti tratti dalla guerra in Ucraina: difesa aerea e missilistica; sistemi di artiglieria, comprese le capacità di attacco di precisione profonda; missili e munizioni; droni e sistemi anti-drone; fattori abilitanti strategici, anche in relazione alla protezione dello spazio e delle infrastrutture critiche; mobilità militare; cibernetico; intelligenza artificiale e guerra elettronica».
Cambio di paradigma
Secondo Massimo de Leonardis, storico delle relazioni e delle istituzioni internazionali e presidente della International Commission of Military History, il documento del Consiglio europeo «va nella giusta direzione. Il problema è che rischia di alimentare reazioni negative da parte dell’opinione pubblica perché, evidentemente, pur con tutti gli artifici contabili che si possono trovare, per più di mezzo secolo l’Unione europea - e prima ancora la CEE - hanno dato precedenza al welfare, allo Stato sociale, e non al warfare, ovvero al comparto difesa. Adesso - spiega de Leonardis al CdT - si tratta di rivedere questo paradigma. L’UE deve attuare una profonda revisione di tutta la propria impostazione, del proprio modo di pensare, da sempre orientato verso il concetto di potenza civile che esercita influenza attraverso il soft power, e non con la dimensione militare».
Se dalle parole si passerà ai fatti, se cioè i documenti di giovedì non rimarranno puramente declamatori, «come pure sono state in passato molte decisioni dell’Unione europea nel campo della politica estera e di sicurezza o di difesa, lo vedremo dagli sviluppi - dice ancora de Leonardis - Certo, si dice che l’UE faccia sempre progressi quando è messa di fronte a una crisi molto grave, qual è l’attuale. Ma il problema non è nuovo. Tutt’altro. Fin dai primi negoziati dell’Alleanza atlantica, gli Stati Uniti hanno sempre insistito perché l’Europa facesse di più, spendesse di più nel campo della difesa. Questa continua insistenza, finché c’è stata la guerra fredda, serviva a poco. Nel caso di conflitto globale, sarebbe stata decisiva l’arma nucleare. Oggi lo scenario è profondamente diverso. E il problema, per l’Europa, non è tanto mettere sul campo uomini, ma rivedere drasticamente e riavviare le proprie industrie degli armamenti e i propri sistemi d’arma per non dipendere più totalmente dagli Stati Uniti».
Nella testa del presidente
È proprio il rapporto con Washington che sta determinando, in massima parte, questi cambiamenti. Sin dal suo insediamento, e anche prima di essere rieletto alla Casa Bianca, Donald Trump è sembrato comportarsi molto poco da alleato e molto più da contendente. Lo stesso ha fatto il suo vice, JD Vance, che ha addirittura accusato l’Europa di scarsa democrazia.
Secondo Andrea Beccaro, docente di Pensiero strategico, dottrine operative e aree di crisi alla Scuola Universitaria Interdipartimentale in Scienze Strategiche (SUISS) dell’Università di Torino, «è evidente che molte cose sono cambiate rispetto alla presidenza Biden e alle precedenti amministrazioni americane. Se altri presidenti, vuoi per posizioni più concilianti, vuoi per un maggiore desiderio di collaborazione e anche per un sistema internazionale con crisi meno impegnative, non hanno mai posto un problema da questo punto di vista, Trump ragiona in maniera diversa. A partire dal fatto che non riconosce l’Unione europea come soggetto politico». Se tutto questo abbia un senso e, soprattutto, possa avere effetti fortemente negativi, resta un interrogativo cui è difficile rispondere.
«Nessuno è nella testa di Trump - dice Beccaro al CdT - e nessuno sa con certezza che cosa stia facendo, se la sua strategia sia o no logica. Molti analisti, e io sono tra loro, pensano che il presidente degli Stati Uniti voglia disinnescare la guerra per non spingere definitivamente la Russia tra le braccia cinesi. Cosa che fin qui sta avvenendo. Trump individua in Pechino la minaccia principale. E, per questo, cerca di riavvicinarsi a Mosca. Non un’alleanza, che non è il termine giusto. In un sistema internazionale a tre potenze, Stati Uniti, Russia e Cina, ciò che la Casa Bianca sta tentando di fare è portare la Russia più verso le posizioni americane, in modo da controbattere la politica cinese. Che tutto questo possa funzionare o che abbia invece conseguenze nefaste, si vedrà. Ma c’è un fatto che dovrebbe far riflettere: i colloqui tra Stati Uniti e Russia si svolgono in Arabia Saudita, l’altro grande Paese per capacità energetiche. Un segnale che non andrebbe sottovalutato. In questi tre anni la Russia non è mai stata del tutto isolata, come pure qualcuno ha voluto raccontare, e uno dei Paesi con cui ha sempre avuto ottimi rapporti è proprio l’Arabia Saudita».
Una cosa è certa: le mosse di Trump hanno ricompattato l’Europa, e non soltanto quella continentale. «Quanto sta accadendo - conclude Massimo de Leonardis - non dico annulla, ma comunque sfuma molto la divisione prodotta dalla Brexit. Appena dopo la Brexit, nei colloqui di Lancaster House tra Gran Bretagna e Francia era stato detto che sul piano militare la collaborazione sarebbe rimasta. Un’Europa della difesa non può fare a meno del Regno Unito. Adesso è chiaro a tutti».