Lo studio

Secondo Harvard in Onsernone non c'è «feminisation»

Uno studio dell'ateneo americano si china sul lavoro femminile in Svizzera – E spunta qualche curiosità
©Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
26.01.2025 18:35

Paula Rettl lavora a Harvard e non è mai stata in Valle Onsernone. Si collega in video-chiamata da un appartamento in Massachussets, dove l’orologio è sei ore indietro e qualche decennio avanti rispetto ai villaggi delle Alpi Lepontine. A Boston la ricercatrice brasiliana è docente presso una delle «business schools» più quotate al mondo: nella Valle famosa per i manufatti di paglia le donne invece difficilmente fanno carriera. Un tempo lavoravano come contadine, o intrecciavano cappelli e ceste: un mestiere scomparso e oggi tenuto in vita solo dall’associazione Pagliarte. Per il resto in Onsernone l’occupazione femminile è peggiorata, ultimamente, anziché migliorare.

Lo studio

Insomma due mondi diversi. Si incontrano solo di sfuggita perché, in una recente indagine pubblicata a Harvard a novembre, Rettl e altri cinque co-autori hanno analizzato l’evoluzione dell’occupazione femminile e le sue conseguenze politico-culturali, prendendo come caso di studio la Svizzera. Volevano capire se alla maggiore occupazione delle donne corrisponde, e a che condizioni, una reazione collettiva di tipo conservatore (titolo: «A Gender Backlash: Does Exposure to Labour Market Feminisation Fuel Gender Conservatism?») e hanno notato una serie di cose interessanti. Tra le altre, che in alcune regioni rurali il processo - «feminisation» - è stato più lento. A volte è addirittura andato all’incontrario, come nel caso della Valle Onsernone.

Che uno studio di Harvard si chini sul mercato del lavoro elvetico, di per sé, è già un fatto curioso. In realtà il motivo è di tipo strumentale: le statistiche prodotte dalla Confederazione - si legge nello studio - sono di rara precisione e capillarità, e si prestano particolarmente bene alle analisi che interessano agli studiosi di Boston. «Volevamo restringere il campo: la Svizzera ci è sembrata un ottimo esempio anche perché l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro non è così avanzata come ad esempio nei paesi scandinavi» spiega Rettl. Anche se, concede, nel ventennio analizzato (2000-2020) a livello federale «c’è stato certamente un aumento dell’occupazione femminile in vari settori».

Più docenti e colletti bianchi

La Svizzera non è solo valli sperdute e montagne, insomma. Anche qui come negli Stati Uniti le donne, osserva lo studio, hanno conquistato fette del mercato del lavoro soprattutto in alcuni ambiti professionali (educazione, sanità, ricerca, finanza) e in particolare nelle zone urbane. L’algoritmo messo a punto da Rettl e co-autori ha prodotto una mappa dove è raffigurata su una scala cromatica che va dal blu al rosso (da +40 a -20) l’entrata (o uscita) delle donne nei settori professionali precedentemente dominati dagli uomini, comune per comune, nell’arco dei primi vent’anni del secolo. Nella mappa prevalgono le note «positive» (blu) e anche in Ticino, nonostante l’abituale gap con la Svizzera interna, il colore prevalente è quello dell’integrazione femminile.

I ricercatori hanno messo a confronto questi dati con gli indicatori di una possibile reazione dell’opinione pubblica alla «feminisation». Quello che hanno notato è che «un ruolo accresciuto delle donne nel mercato del lavoro, e quindi anche nel bilancio finanziario delle economie domestiche, non ha come conseguenza automatica una reazione collettiva e uno spostamento di parte dei cittadini verso posizioni più conservative» riassume Rettl. «La nostra tesi è che ciò non sia avvenuto in Svizzera, almeno nel periodo preso in analisi, perché non c’è stata una politicizzazione di questi temi da parte dei partiti».

La fuga delle donne

In un’America dove gli analisti stanno ancora raccapezzandosi della vittoria di Trump, interpretata da alcuni come contraccolpo («backlash») alle politiche inclusive, il tema è senz’altro d’attualità. In Ticino quello che colpisce, però, sono alcuni dettagli della mappa. I comuni dove l’integrazione femminile ha marciato sul posto o è regredita sono una minoranza (nove in tutto) e concentrati nelle periferie montane: Centovalli, Acquarossa, Campo Vallemaggia e Mergoscia hanno registrato un progresso («feminisation») pari a zero, idem Miglieglia, Novaggio e Isone nel Sottoceneri. La tendenza è addirittura invertita a Bedretto (colore arancione) e ancor più in valle Onsernone (colore rosso). Sono non a caso i territori più colpiti dallo spopolamento, e in cui i numeri delle statistiche demografiche sono così ridotti all’osso che fenomeni microscopici, per non dire quasi comportamenti e scelte individuali, balzano all’occhio . «Non conosco la situazione specifica delle singole valli, non è stata oggetto dello studio» precisa la docente di Harvard, con un sorriso. «Posso ipotizzare che nel corso dei decenni le donne in cerca di un’occupazione abbiano lasciato questi posti, per spostarsi verso le aree urbane».

Una volta in Valle Onsernone gli uomini emigravano come stagionali per gran parte dell’anno, le mogli restavano a casa e lavoravano soprattutto alla tessitura della paglia. Ma oggi quest’antica attività è quasi scomparsa e alle donne è rimasto poco altro. «Per noi oramai è soltanto un hobby» spiega Laura Blumer, che con altre sei compaesane anima l’associazione Pagliarte creata proprio vent’anni fa per far rivivere l’antico mestiere. «Le donne che lavorano non riescono a partecipare: quelle che non sono emigrate fanno le pendolari nel Locarnese, e non hanno tempo per queste cose» ragiona Blumer pensando forse anche a sua figlia, che ha fatto l’università e ora si è trasferita Oltralpe. È vero insomma che la Valle è cambiata. La «feminisation» onsernonese, se c’è, non è all’americana.

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