«Seguo le tracce dei seguaci di Dolcino nelle antiche terre ticinesi»

Pare incredibile che a distanza di oltre 700 anni dalla morte, qualcuno si raduni ogni anno per celebrare frate Dolcino, l’eretico arso vivo nel 1307 a Novara, citato nella commedia di Dante e nel Nome della rosa di Eco. Eppure, proprio domani 13 settembre, un gruppo di suoi ammiratori ne ricorderà le gesta nel Biellese. Ma nel ‘300 Dolcino ebbe seguaci anche nell’attuale Ticino. Leggere per credere.
Sul numero di giugno de l’Archivio Storico Ticinese è apparso un articolo firmato da Luca Fois, docente di storia del Cristianesimo e delle Chiese, assegnista al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia, che ricostruisce i passaggi dei “missionari” dolciniani nelle terre ticinesi. Ne emerge che all’inizio del Trecento le idee del rivoluzionario religioso perseguitato da Papa Clemente V, hanno attecchito tra Mendrisio e la Leventina.

Ma partiamo dall’inizio. Professor Fois, chi erano i dolciniani?
«I cosiddetti dolciniani – anche se sarebbe più appropriato parlare di seguaci di Dolcino – furono un gruppo eterodosso raccoltosi, all’inizio del Trecento, intorno alla figura di Dolcino da Novara, il celebre eretico menzionato da Dante nella Commedia e poi, molti secoli dopo, da Umberto Eco nel Nome della Rosa».
Quali idee professavano?
«Partendo dalle idee di Gherardo Segarelli, un altro eretico morto sul rogo nell’anno 1300 di cui era stato probabilmente seguace, Dolcino diffonde con due lettere (1300 e 1303) un messaggio profetico ed escatologico che vede l’avvicinarsi della fine del mondo con l’entrata nel quarto degli status sanctorum, quando lo spirito discenderà di nuovo sugli apostoli. Per salvarsi occorre ritornare al modello dei primi discepoli di Cristo e abbandonare la chiesa corrotta e carnale, ben (o mal) rappresentata dal papa Bonifacio VIII. Già nella prima delle sue lettere Dolcino giustificava la condizione di clandestinità dei suoi seguaci con la necessità di sottrarsi alle persecuzioni della chiesa corrotta».


In generale, che legami avevano con le attuali terre del Ticino?
«A partire dalle informazioni contenute in un gruppo di documenti compresi tra il 1303 e il 1350 si può pensare che le terre ticinesi fossero state interessate dall’apostolato dei seguaci di Dolcino. Nonostante l’impegno dell’inquisizione nello spegnere i focolai eterodossi e nell’impedire la circolazione dei predicatori itineranti, le idee dolciniane sopravvissero nelle valli (soprattutto la Leventina) per molti decenni dopo la morte dello stesso Dolcino».
Ci parli dei documenti che attestano la presenza di dolciniani da noi. Partiamo dai due atti leventinesi in merito, ce li può descrivere?
«Il gruppo di atti che attestano la presenza dei seguaci di Dolcino nelle terre ticinesi può essere diviso in due parti. La prima, più corposa, compresa tra il luglio e il novembre del 1303, ci mostra lo svolgersi di una vasta inchiesta inquisitoriale localizzata tra Verbano e Ceresio, forse connessa ad analoghe iniziative di contrasto alla diffusione del messaggio di Dolcino messe in atto a Bologna e in Emilia. La seconda, più strettamente legata alla Leventina e limitata a soli due atti del 1346 e del 1350, tramanda la presenza residuale – ma apparentemente robusta – di seguaci di Dolcino in località poste sulla strada del Gottardo. Questi due atti, già pubblicati nei Regesti di Leventina, sono stati a lungo considerati le uniche, episodiche, testimonianze dell’eresia medievale in Ticino, inquadrata come una sopravvivenza tarda e residuale di un movimento che era stato vitale in altri tempi e luoghi. In realtà mettendo in relazione gli atti leventinesi con quelli dell’inizio del Trecento riguardanti aree del Ticino più vicine alla Lombardia (e anche aree lombarde) ci si rende conto che la diffusione tra i laghi del messaggio di Dolcino fu molto più incisiva ed estesa di quanto si sia creduto finora e, in una prospettiva diacronica, durò molto più a lungo, fino almeno alla metà del secolo quando si dovette nuovamente intervenire per contenerne nuove preoccupanti fioriture».

Anche Mendrisio è toccata dal fenomeno. Vero? Qui appare anche il nome di un presunto sostenitore dei dolciniani, chi era?
«Sì. A Mendrisio furono ospitati alcuni importanti membri dell’entourage di Dolcino. L’indagine degli inquisitori, che coinvolse anche i vertici comunali, appurò che fu un sacerdote – il cappellano della chiesa di S. Sisinnio di Torre Comasino de Panellis – a ricevere in casa sua la delegazione dei seguaci di Docino e ad ascoltarne i sermoni. Il fatto interessante è che fu probabilmente un altro prete – Guglielmo de Fontana cappellano e beneficiale di Pedemonte di Locarno e poi canonico di Agno – a propiziare l’incontro, quasi a testimoniare che le idee millenaristiche di Dolcino non erano così lontane dal sentire anche di alcuni uomini di chiesa, forse desiderosi di condurre una vita religiosa più semplice e aderente al Vangelo. Ad ogni modo le parole dei predicatori ebbero una certa impressione su Comasino, che chiese di poter leggere e copiare il libro che gli eretici portavano con sé, che gli venne consegnato in un secondo incontro».
E poi c’è l’atto di Losone. In cosa consiste?
«L’atto di Losone riguarda la reazione degli inquisitori alle confessioni raccolte. Seguendo una procedura ben rodata, i frati richiesero alle comunità dove pensavano che gli eretici potessero passare un giuramento di fedeltà alle loro direttive e l’impegno a segnalare prontamente ogni persona sospetta, sotto pena di un’ingente multa (2000 lire). L’atto di Losone è la procura dei vicini ai loro consoli perché si rechino presso l’inquisitore e giurino a loro nome. Nel giro di pochi giorni un atto simile venne redatto anche dai vicini di Sesto Calende e probabilmente da altre comunità (ma se ne è persa la memoria documentaria). Per seguire meglio le operazioni l’inquisitore Tommaso de Cumis salì fino a Lesa, dove ricevette i giuramenti».


Come e dove sono stati trovati questi documenti?
«La maggior parte degli atti di cui abbiamo parlato era già conosciuta (conservata in parte a Milano e in parte in Ticino), tranne appunto quello riguardante Losone che è conservato nella biblioteca universitaria della città tedesca di Halle, insieme a molte altre pergamene di provenienza lombarda. Questo materiale è rimasto a lungo quasi inaccessibile a causa della divisione politica della Germania (Halle era nella DDR) e ha cominciato a essere studiato solo nell’ultimo decennio. Diciamo che la (ri)scoperta dell’atto di Losone ha permesso di stabilire un collegamento con tutti gli altri, consentendo di vederli come un dossier unico».
È fondata l’ipotesi che esistano altri documenti, andati perduti?
«Sì, certo. Contrariamente a quanto si pensa, l’inquisizione nel medioevo (almeno in area “lombarda”) non possedeva veri e propri archivi e molta documentazione era conservata dai singoli notai che lavoravano per il tribunale, con la conseguente frammentazione e dispersione che si può immaginare. Bisogna però aggiungere che probabilmente altro materiale attende di essere scoperto ed è ora invisibile proprio perché conservato in luoghi dove non si è ancora cercato in modo approfondito».
Chi si occupava degli eretici nel nostro territorio?
«All’inizio del XIV secolo la competenza per il Ticino ricadeva in parte sull’officium inquisitionis di Milano e in parte su quello di Como, che comunque era sottoposto al primo. A metà del secolo, dopo alcune limitazioni imposte agli inquisitori, la giurisdizione sui crimini di fede divenne mista, cioè condivisa tra l’officium e l’ordinario diocesano. Per questo motivo per la repressione degli eretici in Leventina fu nominato un apposito vicario dell’arcivescovo di Milano».

In che modo gli inquisitori contrastavano il diffondersi dei dolciniani?
«Da quanto si può comprendere dagli atti nel 1303 gli inquisitori agirono secondo due direttrici. Come abbiamo visto, da un lato raccolsero le informazioni necessarie a comprendere quali erano i loro avversari e con quali modalità agivano. Questo mediante interrogatori mirati e lievi sanzioni pecuniarie per coloro che testimoniavano, in modo da agevolare l’emergere di nuovi informatori. In secondo luogo, una volta ottenute le informazioni, stesero una rete sul territorio per catturare gli eretici, mediante la richiesta di giuramenti di fedeltà (e di pronta segnalazione) da parte delle comunità situate nei probabili punti di passaggio come appunto Losone e Sesto Calende. Il loro bersaglio, più che i semplici “fedeli”, erano evidentemente i predicatori itineranti, tra i quali vi era anche Federico Grampa, uno dei più stretti collaboratori di Dolcino».
Il Ticino è stato solo una terra di transito per gli eretici in fuga o un terreno fertile per diffondere e far germogliare le loro idee?
«Direi entrambe le cose. Negli anni tra il 1300 e il 1303 i seguaci di Dolcino percorrevano le valli alpine predicando e facendo proseliti (non fuggivano ancora dagli inquisitori). I percorsi tra i monti fornivano comode e riparate vie di comunicazione tra Trento, dove risiedeva Dolcino, e la pianura lombarda e, nel contempo, le comunità più lontane dai centri dove risiedevano gli inquisitori, offrivano buone possibilità di apostolato.Diverso è il caso della metà del secolo XIV, quando probabilmente i concetti seminati un quarantennio prima – e forse gelosamente custoditi in piccole comunità o nuclei familiari – avevano dato nuovi germogli, tanto da necessitare una repressione ad hoc».
Di quali altri gruppi eretici sono state ritrovate tracce in Ticino?
«Malgrado le ipotesi, per il medioevo, non vi sono testimonianze documentarie di altri gruppi ereticali in Ticino. Questo però se si parla di eretici in senso stretto, se poi vogliamo allargare il fuoco anche al fenomeno della stregoneria – che dal Trecento divenne il nuovo grande bersaglio dell’inquisizione – il materiale, come è noto, non manca».
Da sapere
Sedotto dagli Apostoli
Dolcino è nato in Val d’Ossola, forse a Prato Sesia, attorno al 1250. Probabilmente si chiamava Davide Tornielli. Non si sa se il termine di «frate» si riferisca a veri voti religiosi o all’autodefinizione di «fratello».
Nel 1291 entra a far parte del movimento in sospetto di eresia degli Apostoli guidato da Gherardo Segalelli (arso sul rogo il 18 luglio 1300). Prende il suo posto e predica molto nella zona del lago di Garda. Nel 1303 nei dintorni di Trento conosce Margherita Boninsegna che diventa la sua compagna e lo affianca nella predicazione.
Si attira le ire della Chiesa per le posizioni ostili a Roma e a papa Bonifacio VIII, di cui profetizza la scomparsa. Il suo messaggio ha successo tra il Vercellese e la Valsesia, che occupa militarmente nel 1304. Qui realizza il tipo di comunità teorizzato nella propria predicazione, stanziandosi a lungo in località Parete Calva.
Il 10 marzo 1306 i suoi seguaci si concentrano sul Monte Rubello sopra Trivero, nel Biellese, nell’attesa che le sue profezie millenaristiche si realizzino.
L’assedio e il rogo
Il vescovo di Vercelli Raniero degli Avogadro indice contro di loro una vera crociata. I dolciniani resistono a lungo, ma provati dall’assedio e dalla mancanza di viveri, vengono sconfitti e catturati nella settimana santa del 1307. Quasi tutti sono passati per le armi; Dolcino, processato e condannato a morte, viene giustiziato il 1º giugno, dopo avere assistito al rogo di Margherita e del suo luogotenente Longino da Bergamo.
Le citazioni: da Dante a Fo passando per Eco
«Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,/tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,/ sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese,/ch’altrimenti acquistar non saria leve»
Dante Alighieri (sotto), canto XXVII dell’Inferno

«Questo Dolcino era il bastardo di un sacerdote, che viveva nella diocesi di Novara, in questa parte dell’Italia, un poco più a settentrione. Qualcuno disse che nacque altrove, nella valle dell’Ossola, o a Romagnano. Ma poco importa. Era un giovane di ingegno acutissimo e fu educato alle lettere, ma derubò il sacerdote che si occupava di lui e fuggì verso oriente, nella città di Trento. E lì riprese la predicazione di Gherardo, in modo anche più ereticale, asserendo di essere l’unico vero apostolo di Dio e che ogni cosa doveva essere comune nell’amore, e che era lecito andare indifferentemente con tutte le donne, per cui nessuno poteva essere accusato di concubinato, anche se andava con la moglie e con la figlia...»
Umberto Eco (sotto), «Il nome della rosa»

«Pensate, nel Medioevo andare in giro a dire certe cose: la terra è di chi la lavora! È da pazzi incoscienti dirlo oggi, figuratevi nel Medioevo! Intatti l’hanno subito preso e messo sul rogo, lui e tutta la sua banda di «insaccati». Scampò uno solo. Si chiamava fra’ Dolcino, e si ritirò dalle sue parti, dalle parti di Vercelli: ma invece di starsene a casa in pace e in silenzio, visto il rischio che aveva corso, nossignori, andò intorno ancora a provocare i contadini, a fare il giullare. Andava e cominciava: «Ehi contadino!... la terra è tua, tientela, cretino deficiente, la terra è di chi la lavora...»
Dario Fo, Mistero Buffo
Salvare la memoria del "Gesù socialista"
Dolcino ha avuto un seguito importante anche diversi secoli dopo la sua morte. Soprattutto dopo la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento quando il Movimento operaio lo descriveva come una sorta di “Gesù socialista”. La sua figura, del resto, continua a suscitare interesse scientifico e ammirazione come attesta la presenza di un “Centro Studi Dolciniani” (cfr il sito http://www.centrostudifradolcino.com/) che dal Biellese continua a mantenerne viva la memoria. Abbiamo raggiunto telefonicamente il suo presidente, Aldo Fappani.
Valori antichi e moderni
“Il nostro Centro studi è nato alla fine degli anni Settanta”, ci spiega. “Nel ’74 avevamo fatto una manifestazione importante, presenti anche Dario Fo e Franca Rame. Ma il nostro uomo di punta è sempre stato Gustavo Buratti, un professore di francese a Biella, che è venuto a mancare 11 anni fa. Ha dato un grande contributo alla riattualizzazione degli Apostolici del Trecento e di Dolcino. E attorno alle sue idee ha riproposto il valore dell’ambiente e della montagna. Nel nostro piccolo cerchiamo di preservarne il pensiero, attraverso diverse pubblicazioni e una rivista, tenendo conto che non è mai stato facile farlo in passato, perché la Chiesa l’ha condannato come eretico, e resta delicato farlo oggi. Fra Dolcino era presentato come un ladro, un bandito, un assassino...»
La festa nonostante il coronavirus
«La nostra iniziativa più nota, che portiamo avanti da oltre quarant’anni, è la festa libertaria di Fra Dolcino che celebriamo ogni anno nella seconda domenica di settembre. Si terrà anche quest’anno, nonostante il coronavirus”. Per la cronaca, si terrà proprio domani lungo la strada della Panoramica Zegna, a circa mille metri d’altitudine. La festa è accostata da un culto valdese, “e non stupisce se si pensa che anche i valdesi sono stati una minoranza religiosa perseguitata”, commenta Fappani.

Il movimento operaio
La figura di Dolcino è stata riscoperta già nell’Ottocento, soprattutto dal movimento operaio. “E nel 1907, nel seicentesimo del suo martirio, sul monte Massaro i dolciniani biellesi, socialisti, anarchici, liberali, mazziniani, liberi pensatori, membri del mutuo soccorso e altri – pare che fossero diecimila persone – avevano eretto obelisco altro 12 metri in suo onore lavorando la domenica a squadre di cinque-dieci uomini». Il monumento venne però abbattuto “a cannonate” dai fascisti nel 1927 e ripristinato nel 1974 (foto sopra) con fattezze simili a quello che a Montségur, nei Pirenei occitani, ricorda il martirio dei catari saliti sul rogo il 1244.
La Resistenza
“A Dolcino si sono ispirati, nelle nostre terre, anche i leader della Resistenza durante la seconda guerra mondiale”, osserva Fappani. “I capi partigiani ricordavano il valore delle gesta di Dolcino in armi, perché aveva tecniche di guerriglia particolarmente efficaci. Dopo la guerra sono stati soprattutto i socialisti a riproporne la figura”.
«Non cedettero ai potenti»
Quando gli chiediamo cosa rappresenta Dolcino per un uomo del XXI secolo, il nostro interlocutore non ha dubbi: “Piuttosto che abiurare e salvarsi, assieme a Margherita da Trento, ha preferito portare la croce fino alle estreme conseguenze. Sono stati bruciati vivi uno a Vercelli e l’altra a Biella. Hanno avuto il coraggio e la forza di difendere le loro idee senza cedere di fronte ai potenti. E, prima di morire, hanno imbracciato le armi in nome della libertà e del Cristianesimo. Il Cristianesimo delle origini, s’intende”.