«Sempre più sotto pressione: ai giovani mancano le regole»
Giovani in difficoltà e spesso violenti, social media e un contesto che preoccupa. Il dibattito andato in onda ieri su TeleTicino ha ripreso il tema al centro della cronaca in queste settimane: un gruppo di minorenni che si faceva giustizia da solo. A La domenica del Corriere, condotta da Gianni Righinetti, la problematica è stata affrontata grazie a Fabiola Gnesa, magistrata dei minorenni, Karin Valenzano Rossi, municipale di Lugano, Alessandro Trivilini, esperto di tecnologie digitali, Fabia Cereghetti, psicologa e psicoterapeuta presso il servizio medico e psicologico di Mendrisio e Vito Lo Russo, direttore dell’Istituto Von Mentlen. Ed è proprio dal caso che ha coinvolto 18 minorenni del Luganese che parte il confronto. Si tratta «di una fattispecie nuova», ha spiegato Gnesa. «Non era mai successo nulla di comparabile. Dobbiamo cercare di arginare e di porci delle domande su come farlo». In generale, ha chiesto allora Righinetti alla magistrata, quali sono i reati più comuni fra i giovani? «Negli ultimi due anni, ci sono stati molti reati contro il patrimonio: rapine, furti, estorsioni, soprattutto nella zona di Lugano. Poi c’è la violazione alla legge sugli stupefacenti e della circolazione stradale».
Lugano, dunque, è stata particolarmente interessata dal fenomeno. «Ma in città non ci sono zone off-limits», ha detto Valenzano Rossi. «Non tutti i giovani sono problematici, non c’è una generazione di delinquenti. Né a Lugano, né in Ticino». Secondo la municipale PLR, però, è giusto fare alcune riflessioni quando accadono casi simili. «Bisogna capire che cosa correggere. Come città è da un po’ che ci rendiamo conto che c’è un disagio giovanile crescente. Da un lato, mi preoccupano molto i giovani sotto pressione e sempre più arrabbiati, dall’altro il consumo di alcol». Per Valenzano Rossi, le campagne di sensibilizzazione contro l’abuso di alcol negli ultimi anni sono sparite. A Lugano, comunque, ci sono dei cosiddetti «hotspot», conferma la municipale. «Di notte, alla pensilina spesso si concentrano gruppi di facinorosi. Anche la foce è un punto sensibile». I mezzi di intervento sono però «limitati».
Il problema è anche capire l’origine del disagio giovanile, come ha rilevato Cereghetti: «A livello clinico notiamo una richiesta di sostegno che arriva da chi si occupa dei ragazzi in ambito educativo», ha spiegato. «Sono le stesse figure educative di riferimento a essere in difficoltà nel dare dei limiti, nel gestire le manifestazioni di aggressività. Spesso ci viene fatta una domanda sul piano educativo, e questo deve interrogarci come società». Il tema dei social, ad ogni modo, è centrale. «Per capire il ruolo che oggi le tecnologie moderne hanno, bisogna smarcare due elementi: il primo è lo strumento, lo smartphone, il secondo è il contesto, le piattaforme social digitali», ha sottolineato Trivilini. «In mezzo ci sono i vuoti, gli obiettivi che magari i giovani non hanno» e che riempiono tramite i social. «Sono isolati dalla realtà. Bisogna recuperare la prevenzione e l’igiene digitale». Secondo l’esperto, è corretto allora concentrarsi su quei vuoti, aiutando quindi i ragazzi a trovare delle alternative. Vietare dunque il telefono? «Non credo che la privazione porti a qualcosa», ha evidenziato Trivilini. «Tutta la società deve recuperare una certa educazione» rispetto a tecnologie che si sviluppano in modo estremamente veloce. «I giovani – ha spiegato dal canto suo Lo Russo - sono sempre più sotto pressione se pensiamo che già al termine della scuola dell’infanzia vengono valutati. E non tutti hanno la fortuna di contare su figure di appoggio, che possano aiutarli nella crescita. Noi cerchiamo di accoglierli e ascoltarli, di trovare insieme le soluzioni. Ma in questo periodo ci sono casi molto complicati». Valenzano ha quindi posto l’accento sull’uso dei social o del telefono degli adulti. «La società porta a investire moltissimo nell’aspetto esteriore, nell’aspetto fisico», ha sottolineato ancora Cereghetti. «Nei ragazzi che già stanno cercando di capire chi sono, spesso porta a un’iper-sessualizzazione dei vestiti o degli atteggiamenti». «I ragazzi si sentono poco compresi dagli adulti, mentre i social non li giudicano», ha spiegato da parte sua Gnesa.
Quali consigli, allora? «Dare regole è molto importante, perché il dispositivo oggi è in grado di persuadere e convincere l’utente, l’adolescente. È quindi determinante riportare nella realtà il concetto di limite», tramite appunto delle regole. «Non bisogna partire dall’adolescente, bensì dai genitori» per compiere questo percorso. Anche gli adulti devono quindi essere coerenti sull’uso di social e smartphone. Spesso, infatti, sono loro i primi ad abusarne. In conclusione, Righinetti ha chiesto se i giovani sono sfrontati anche nei confronti delle autorità. «Come magistrati, abbiamo il compito di capire il ragazzo che abbiamo di fronte», ha rilevato Gnesa. «Dobbiamo comprendere la loro situazione prima di valutare e decidere una sanzione. Loro lo capiscono: spesso noi siamo le prime persone a mettere dei limiti a questi giovani». Insomma, «cerchiamo di esserci, di far loro capire ciò che possono e non possono fare. È difficile, ma non ci arrendiamo». E sul caso dei 18 minorenni fermati, Gnesa ha spiegato: «Tutti siamo d’accordo su certe lotte, ma non era loro compito agire». Tanto più che a muoverli, ha detto, «era più un impeto di violenza che un senso di giustizia».