Torricella

«Sono cresciuto in un castello tra stanze proibite e vita contadina»

Michele Trefogli racconta l’epopea della sua famiglia
La vista da una delle torrette del castello trefogli. © CDT/Chiara Zocchetti
Carlo Silini
29.05.2021 06:00

Che strano. Se lo vedi dall’esterno, il castello di Torricella appare come una sontuosa villa signorile di epoca remota. Poi ci cammini dentro insieme all’ultimo discendente dell’uomo che gli ha dato quella forma e capisci che niente è come sembra. Perché l’edificio ha (almeno) due storie: una parla di blasone, di lusso, di successo economico e sociale; l’altra di fatica, di sudore, di vita semplice tra stalle e campi. Qualcosa che tiene insieme sfarzose sale affrescate e umili fienili, eleganti limonaie e pollai, stanze d’alta rappresentanza e una trattoria da strapaese. Proprio così: il castello dei contadini. O, se preferite, la fattoria dei castellani.

© CDT/Chiara Zocchetti
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Annotatevi il nome: Michele Trefogli. L’avrete già sentito: corrisponde all’identità di un giornalista di lungo corso della RSI. Probabile che ne abbiate già visto qualche servizio in tv. La nostra storia inizia e finisce con lui (nella foto Zocchetti sopra). Singolare destino – il suo – segnato, più o meno consapevolmente, dalla perfetta omonimia col trisononno, l’archistar ante litteram Michele Trefogli che oltre un secolo fa, reso ricco e famoso da una fortunata emigrazione in Perù, ha deciso di trasformare il caseggiato rurale di famiglia in una residenza lussuosa, spettacolare e – per i criteri dell’epoca – iper tecnologica.

Un viaggio nel tempo

«Questo è un castello stratificato», ci spiega facendoci strada il trisnipote. Dal paese si vedono due eleganti facciate, ma il nucleo abitativo originale, quello più antico e semplice, resta dietro e consiste in un’infilata di costruzioni a monte. «In pratica entri in uno stabile di inizio Novecento e addentrandoti ti trovi in ambienti dell’Ottocento e, infine, del Settecento. È una tipica costruzione di famiglia che non è mai stata toccata, ma alla quale sono stati aggiunti sempre nuovi strati, sia dal punto di vista architettonico che a livello di mobilia, di suppellettili e di quadri... Un viaggio nel tempo».

In pratica entri in uno stabile di inizio Novecento e addentrandoti ti trovi in ambienti dell’Ottocento e, infine, del Settecento

Quando, nel 1906, il trisnonno aveva deciso di ristrutturare la casa paterna, i due frontespizi non c’erano. «Ha voluto ingrandire la casa di famiglia perché aveva sei o sette figli nati a Lima che facevano la spola dal Ticino al Perù. Laggiù aveva assunto una posizione sociale molto rilevante, al punto che uno dei suoi figli, il bisnonno Marco Antonio, si è insediato in questa casa come console del Perù. Anche per questa ragione l’architetto Michele, all’età di 70 anni, ha deciso di trasformarla adeguandola al suo status».

© CDT/Chiara Zocchetti
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Intendiamoci, non è che gli antenati del celebre architetto fossero dei signori nessuno. La famiglia stava bene. Per tre secoli ha vissuto di economia rurale, ma nel corso delle generazioni ha dato i natali ad artisti, uomini di legge e di chiesa. Il padre dell’architetto, Marco Antonio, lavorava dai Savoia a Torino e dipingeva. Aveva iniziato lui ad abbellire le stanze, affrescandole in stile pompeiano.

Ma a dare l’aspetto signorile che vediamo oggi è stato Michele. Lo stile delle parti ristrutturate è eclettico, un mix in cui rientra la pittoresca torre neogotica e quella – un po‘più sobria – neorinascimentale. L’antenato ha fatto le cose per bene e ha costruito le zone nuove seguendo i rilievi del terreno.

Le finestre a ghigliottina

Eccoci, quindi ai piedi della torre neorinascimentale dove è stato incastonato lo stemma di famiglia (un leone e tre trifogli). Il nostro accompagnatore ci fa notare le «finestre a ghigliottina» uniche nel loro genere, almeno in Ticino. Da qui in avanti si apre un mondo bipartito: da una parte, nell’affaccio dell’edificio, quello – diciamo così – nobiliare e, sul retro, quello agreste.

© CDT/Chiara Zocchetti
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Potremmo raccontarvelo come farebbe un dépliant, citando i differenti ambienti e soffermandoci soprattutto sulle opere d’arte e i loro autori: il camino in stucco attribuito a Pietro Trefogli, il quadro con Guglielmo Tell di Carlo Bellosio, gli affreschi delle quattro stagioni nella sala della caccia dipinta da Luigi Faini. Ma questo non è un giro turistico, è un viaggio più intimo, guidato da un trisnipote che in quella casa ci è cresciuto e oggi si muove sotto il ritratto del trisnonno.

Ma da giovane questa casa mi imbarazzava. Era in uno stato di trascuratezza e avvertivo tutto questo come una ferita, quando era esattamente il contrario

Già, il ritratto. Si trova in una stanza all’ingresso dell’edificio. «È un quadro che mi accompagna da sempre. Nel 1927, alla bell’età di 90 anni, aveva costruito la scuola per l’infanzia di Torricella (ponendo la condizione che la maestra fosse laica e che fosse aperta a tutti i bambini). Anch’io l‘ho frequentata negli anni Settanta e all’epoca il quadro era là. Lui aveva creato un fondo per finanziare regali ai bambini, tipicamente per comprare loro la cartella. Guardavo il dipinto sapendo che rappresentava un mio parente, ma non ne capivo molto. Percepivo delle stranezze nella casa, sentivo che c’era dietro la sua mano. Ma da giovane questa casa mi imbarazzava. Era in uno stato di trascuratezza e avvertivo tutto questo come una ferita, quando era esattamente il contrario. Bello poter fare qualcosa per dargli lustro ora. È come una missione».

© CDT/Chiara Zocchetti
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La passione tecnologica

Gli occhi di Michele vedono cose che al visitatore normale, comprensibilmente più concentrato sugli aspetti artistici, sfuggono. La sua mano si sofferma su un vecchio termosifone in ghisa nella sala Tell (nella foto di Chiara Zocchetti sopra). «Il nonno viveva qui, come ora mio papà, con tre quarti della casa perennemente chiusi. I termosifoni in stile liberty li ha fatti mettere Michele Trefogli. Fino ad allora qui ci si scaldava col camino. Lui ha voluto il riscaldamento a carbone e ha inserito nella casa questo elemento che per l’epoca era di alta tecnologia. Ha portato qui dentro il mondo scintillante della Lima di inizio Novecento, una città esuberante che attirava artisti e ingegneri europei come lui (che oggi è sepolto nel cimitero monumentale della capitale peruviana, ndr). I lavori risalgono al 1906, ma l’impianto non deve essere stato usato a lungo, mio nonno che è nato nel 1920 non ricordava che funzionassero». La passione tecnologica dell’antenato si evince anche dal lampadario belle époque che pende dal soffitto: «Notate i fili a vista: risalgono ai primissimi anni della rete elettrica. D’altra parte, a Vezio, Michele e suo fratello Bernardo avevano comprato una centrale elettrica lungo la Magliasina. Potremmo dire che i primi lampioni, qui, li hanno accesi loro...». Idem per l’acqua. «Michele l‘ha portata in casa trovando le sorgenti nella selva castanile qua dietro. Insomma, ha costruito le canalizzazioni per il bagno e la cucina, ha portato l’elettricità e il riscaldamento. Era di una modernità incredibile».

Sono cresciuto in una casa il cui baricentro era l’osteria. Il resto del caseggiato, soprattutto le parti ristrutturate nel primo Novecento, per me bambino era un posto avventuroso. Il salone da pranzo affrescato, la stanza più prestigiosa del complesso, era sempre chiuso

E l’anima contadina? «Quella il castello non l’ha mai persa. Per quanto mi riguarda, per esempio, sono cresciuto in una casa il cui baricentro era l’osteria. Il resto del caseggiato, soprattutto le parti ristrutturate nel primo Novecento, per me bambino era un posto avventuroso. Il salone da pranzo affrescato, la stanza più prestigiosa del complesso, era sempre chiuso. La nonna stirava e cuciva nell’anticamera che loro chiamavano Frirù. All’epoca non mi piaceva, oggi mi affascina. Qui il personale portava le vivande. Da bambini ci entravamo di soppiatto coi cugini. Era un luogo magico».

© CDT/Chiara Zocchetti
© CDT/Chiara Zocchetti

Il fienile e l‘osteria

Perché nell’infanzia, il Michele Trefogli contemporaneo ha conosciuto piuttosto gli ambienti «poveri» di quei luoghi incantati. Infatti, apri una porta dietro la prestigiosa sala e ti trovi di colpo negli interni agresti. In faccia alla cucina nobiliare ce n’è una contadina con tanto di sediola accanto al camino «che ricordo sempre acceso perché la mattina faceva freddo. Noi si viveva all’osteria, un’azienda famigliare, si lavorava anche il sabato e la domenica». Quando ci apre il fienile, ancora integro sempre là, dietro le facciate d’alta classe, le pupille scintillano. «Sono cresciuto tra mucche, pecore e letame. In novembre facevamo la mazza con le nostre luganighe, il lardo, il prosciutto. Avevamo i capretti, facevamo la fienagione. E qui giocavamo sui mucchi di fieno». Facciamo un salto giù in cantina. Sulle botti le scritte in gesso indicano le annate 1992 e 1993. «Vendemmiavamo a settembre. Ecco il torchio e l’alambicco per la grappa. Ricordo che qui si parlava spagnolo e dialetto. Lo spagnolo l’ho appreso passivamente, così come alcuni cugini che vivevano in Perù capivano il dialetto alla stessa maniera».

Ci spostiamo nella torre esagonale, quella che ruba gli sguardi da tutta la valle. Se vi concentrate, potete vederla già da Lugano. Ci credereste? È in legno

Ci spostiamo nella torre esagonale, quella che ruba gli sguardi da tutta la valle. Se vi concentrate, potete vederla già da Lugano. Ci credereste? È in legno e l‘hanno rifatta negli anni Ottanta. Dentro non ci sono stanze, puoi giusto salirci per lasciar correre lo sguardo su tutta la pianura. «Da bambino mi inerpicavo qui coi compagni e da adolescente venivo a bere birre e giocare a carte». Oggi, spazzato dai venti che sibilano dalle finestre sotto la cupola, c’è un letto in legno coperto da un lenzuolo. Una stanza d’aria. «E ogni tanto vengono a dormirci certi miei amici», spiega divertito.

© CDT/Chiara Zocchetti
© CDT/Chiara Zocchetti

La quintessenza del castello, tuttavia, il luogo dove le due anime si fondono, è la soffitta che Michele definisce «il museo di famiglia». Se ne occupa suo padre che ha messo nella parte più antica della casa oggetti che appartengono alla cultura contadina; gli ampi calderoni per fare il formaggio, ad esempio. E alcuni altri che rimandano al mondo delle arti. Come un cavalletto per dipingere e un burattino anatomico che, immaginiamo, serviva da modello per riprodurre le posizioni dei corpi. Sfioriamo un mobile-biblioteca. «Ci sono ancora i quaderni coi compiti fatti a scuola dal nonno. Lo ricordo molto bene: aveva studiato, era stato sindaco, si chiamava pure lui Michele. Negli anni ‘70 mi ha insegnato il tedesco sintonizzandosi sui canali d’oltre San Gottardo. Aveva perso la mamma da piccolo ed era l’ultimo che ricordasse i fasti del castello. È morto nel 1999 a 79 anni».

Fino a quando c’era il mio bisnonno Marco Antonio, figlio dell’architetto, c’erano anche i mezzi finanziari per mantenerlo. Poi è arrivato il declino. Il baricentro della famiglia si è spostato dietro il castello, dove avevamo un’osteria

Nel «museo», c’è pure un baule da viaggio che apparteneva al famoso architetto. Dentro resistono alcuni cilindri per ascoltare la musica coi grammofoni. Vediamo una culla in ferro. E, addentrandoci nel sottotetto, scopriamo perfino un‘antica grà.

Il futuro

L’avevamo anticipato: il castello di Torricella contiene diversi mondi che in parte sono andati perduti ma, in un qualche modo, stanno per rivivere. «La manutenzione dell’intero complesso si è fermata nella generazione dei miei nonni e dei miei genitori. Fino a quando c’era il mio bisnonno Marco Antonio, figlio dell’architetto, c’erano anche i mezzi finanziari per mantenerlo. Poi è arrivato il declino. Il baricentro della famiglia si è spostato dietro il castello, dove avevamo un’osteria. Tutta l‘attività economica ed esistenziale dei Trefogli si è trasferita sul retro e la casa nobiliare è rimasta chiusa in una sorta di bolla, anche se ci vivevamo dentro con i nonni, gli zii e i cugini: in tutto una decina di persone. Quando siamo diventati grandi siamo partiti tutti per studiare o lavorare, anch‘io. All’epoca pensavo che non sarei più tornato. Poi, nel 2003, l’osteria è bruciata. È stato un vero dramma, ma qualcosa si è smosso».

© CDT/Chiara Zocchetti
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Dal 2004 il castello ha intrigato un professore dell’Accademia di architettura di Mendrisio, Bernard Furrer, che ha proposto esercitazioni didattiche a gruppi di suoi allievi. Dal 2009 ci lavorano anche i ragazzi del corso di laurea in conservazione e restauro della SUPSI

È rimasto mio padre, c‘è mio zio e ci sono io. Tocca a noi

«Abbiamo detto di no alla proposta di creare appartamenti di prestigio. E ora vogliamo ristrutturare la parte agricola. Il comune sta modificando l’azzonamento per creare un piano particolareggiato che ci permetterà di ristrutturare gli edifici, le stalle e creare un’attività possibilmente turistico-alberghiera soft».

C’è pure un progetto con Heimatschutz, che gestisce una catena di appartamenti di vacanza in case storiche. Un contesto non di lusso, destinato a un‘utenza che cerca posti fuori dall’ordinario che mantengano le caratteristiche originarie. «Abbiamo iniziato ad affittare questi spazi per eventi privati, grazie al passaparola. Abbiamo ritrovato il bandolo della matassa per occuparci di tutta la proprietà e darle un degno futuro. La famiglia grande come allora non c’è più. È rimasto mio padre, c‘è mio zio e ci sono io. Tocca a noi. Vorrei riattivare il complesso per tutto il territorio, sogno un forno per il pane, la farina, la vigna, la viticoltura, il brunch». Di Trefogli in Trefogli, il castello e le sue anime si preparano alla prossima vita.

© CDT/Chiara Zocchetti
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