Storie d’amore che infrangono il muro di Trump

Quelle che vogliamo raccontarvi oggi sono due storie, («fatti» precisa uno degli intervistati) che si mescolano a moltissime altre all’interno di un territorio, quello degli USA, dove la presenza messicana è forse incalcolabile. Spesso ci si riferisce agli Stati Uniti, usando genericamente il termine America, in contrapposizione al Messico. E repentina arriva la rettifica «anche il Messico è America» e qualcuno aggiunge «the real one» (quella vera), chiamando implicitamente in causa la conquista da parte degli europei che ha portato allo sterminio delle popolazioni native e quindi di un sistema che nel Nord America non esiste più. Anche in virtù di questa considerazione storica, il completamento del muro sul confine tra USA e Messico sa, agli occhi di quel popolo, di un’ennesima forzatura. Con gli occhi della modernità risulta difficile immaginare che uno stato come la California, così fortemente identificato con la cultura statunitense, un tempo fosse parte del Messico. E non è il solo ad essere stato ceduto dai messicani agli USA: la fine della guerra tra i due Paesi protrattasi per due anni, dal 1846 al 1848, e conclusasi con il trattato di Guadalupe Hidalgo, stabilì anche l’annessione agli USA del Nevada, dello Utah e di parte dell’Arizona, del Nuovo Messico, del Colorado e del Wyoming. Territori che oggi, paradosso storico, costituiscono proprio quella frontiera che il presidente Donald Trump vuole separare con un muro. Un’area in cui da sempre si incontrano e si mescolano culture eterogenee, in uno stato di perenne e immutata tensione.
Mentre tra Messico e Stati Uniti si cerca di completare l’innalzamento di un muro, spesso succede che nell’America di Trump, americani «doc» si innamorino e sposino persone provenienti dal Messico. Come è accaduto a Jeff che poco più di tre anni fa ha conosciuto Veronica, mentre era in vacanza a Tulum, una città situata nello stato di Quintana Roo. Veronica ha 27 anni, è nata a Morelia, nello stato centrale di Michoacán. Da grande per studiare si è trasferita a Città del Messico, dove si è iscritta al corso di studi in tromba presso il conservatorio della capitale. È una musicista e appassionata d’arte. Poco dopo aver lasciato gli studi si è trasferita per un periodo a Tulum dove per una scelta di vita temporanea, ma non per necessità, lavorava come cameriera presso una delle strutture turistiche della zona. Ed è qui che per caso ha incontrato Jeff, giovane professionista di New York che per una vacanza con gli amici aveva scelto di spostarsi al Sud del continente. È stato amore a prima vista, per dirla banalmente, ma scegliere di trasferirsi negli USA subito dopo un incontro non sembrava la scelta più opportuna. Lui quindi è ripartito per New York dove lavora nel settore pubblicitario, mentre Veronica è rimasta a Tulum. Nonostante la distanza, hanno continuato a sentirsi costantemente e poi un giorno Jeff l’ha raggiunta per farle una sorpresa. Avrebbe potuto trattenersi solo un giorno, ma poi il destino ha fatto il resto. Ritornato negli USA, sono continuate le telefonate e i messaggi. Poi la decisione di fare un lungo viaggio insieme, in Europa. Al rientro avrebbero voluto continuare la loro storia in una convivenza, ma Veronica aveva bisogno di un visto per andare negli USA. Aveva già provato a chiederlo in passato, ma le era stato negato. Questa volta è Jeff a farsi carico di tutto. La aiuta ad ottenere un visto da studente e Veronica dopo meno di un anno dal loro primo incontro si trasferisce a New York, era l’agosto del 2016. Nel giro di un anno si sposano e dopo tutti gli adempimenti Veronica ottiene la green card, anche se non è ancora una cittadina americana. «Di recente abbiamo fatto un viaggio in Australia – raccontano – e lì in molti hanno evidenziato la particolarità della nostra coppia: un americano e una messicana. Si stupivano, probabilmente alla luce di quello che sentivano in televisione». Un destino romantico ed ineluttabile, che si sarebbe compiuto anche se il muro con il Messico fosse stato già completato. Sono moltissimi infatti gli statunitensi che per le loro vacanze scelgono di varcare il confine. Con buona pace del presidente.
«Quattordici ore di infernale attesa e la mia vita passata al setaccio»
Viaggiare con un visto turistico e essere fermati inaspettatamente in aeroporto per 14 ore, tra continue richieste di chiarimento, per capire quali ragioni si nascondessero dietro gli arrivi frequenti negli Stati Uniti. È la storia raccontata da Isabel – nome di fantasia – una ragazza di origini messicane che negli ultimi quattro anni si è recata spesso negli USA, a New York, semplicemente esibendo un visto turistico, regolarmente ottenuto nell’ambasciata americana in Messico. L’avventura raccontata da Isabel, sembra essere la riproduzione esatta di una scena di un film americano. La storia è quella di una giovane donna intorno ai 30 anni, messicana della città di Chihuahua, nel nord del Messico, con la passione per l’arte. È una graphic designer e lavora come freelance per un’azienda messicana di base a Guadalajara che la chiama su richiesta. Per questo motivo – ci racconta – può permettersi di girare il mondo e uno dei posti del cuore è Brooklyn, il quartiere di New York ma nella sua versione hipster, quella delle aree di Bushwick e Grennpoint. Esprime la sua vena artistica nella street art, dipinge su muri della città, ama la fotografia e i social network e vive in una comunità di artisti. Ed è in questa comunità presente a Brooklyn che Isabel vive per 4 anni, dove – sostiene – le viene fornito un alloggio gratuito. Da qui continua a lavorare per l’azienda di Guadalajara, per clienti messicani. Ed è questo ciò che ha raccontato anche agli ufficiali di frontiera che l’hanno fermata nell’aeroporto di Houston per un’intera notte.


«Ero stata per un periodo a Guadalajara - racconta la donna - dove mi ero recata per ragioni professionali. Lavoro come freelance per un’azienda di servizi e quindi pur essendo nata e cresciuta a Chihuahua, nel nord del Messico, quando rientro nel mio Paese, mi reco spesso in questa città. È proprio da qui che sono ripartita per raggiungere New York ma con un volo che prevedeva uno scalo a Houston, in Texas, dove sono stata fermata. Come accade per ogni volo con scalo, sono scesa dall’aereo e sono passata per il controllo dalla polizia di frontiera, con il mio solo bagaglio a mano. Nei controlli di routine, sono previste anche delle domande sulle ragioni del viaggio negli USA. Ho spiegato che ero lì non per lavorare illegalmente, ma per ragioni artistiche che non implicavano alcun guadagno in termini economici. Sulle prime, la ragione per cui sembrano essersi incuriositi sul mio caso, sembrava il fatto che non avessi con me un bagaglio più grande, che in realtà da lì a poco sarebbe stato in volo per New York, dal momento che il mio volo era con scalo. A quella constatazione, mi hanno condotto in un ufficio e mi hanno fatto moltissime domande. Fin dall’inizio l’atteggiamento non è stato dei più concilianti. Già il primo ufficiale con cui ho parlato, mi ha chiesto ripetutamente perché arrivassi così di frequente negli Stati Uniti e come potessi permettermi di trascorrere sei mesi in vacanza (questo è il periodo di permanenza concesso a chi è in possesso di un visto turistico – ndr) e quali fossero le mie reali intenzioni. Mi sono ritrovata a spiegare fino allo sfinimento che lavoravo per una compagnia in Messico, dove mi recavo quando ne ricevevo richiesta, ma che il resto del mio tempo lo trascorrevo in una comunità di artisti di Brooklyn dove vivevo senza alcun onere di spesa».
«Era evidente – continua Isabel – che non mi credevano. Dopo il primo colloquio, sono stata lasciata sola per circa 4 ore e poi ho interloquito con un altro ufficiale, quello che mi ha segnato di più. Era di origini messicane, mi parlava in spagnolo ed è stato il più rigido tra tutti. Continuava a ripetermi cosa facessi davvero negli Stati Uniti. Sono rimasta scioccata dalla sua durezza, in fondo parlavamo la stessa lingua, ma sembrava non capirmi e che a ogni modo, qualunque cosa avessi detto non mi avrebbe creduto. Sono rimasta colpita – racconta la donna – dal dettaglio delle informazioni che possedevano. In un archivio virtuale sono stati in grado di descrivere tutti i miei viaggi negli Stati Uniti, i miei arrivi e le mie partenze, anche dei voli domestici. Non contenti di quello che gli raccontavo, hanno preso il mio cellulare e hanno controllato ogni mia conversazione e i miei social. La mia vita privata è stata messa al setaccio».

Isabel sostiene di essere atterrata a Houston intorno alle 7 di sera e di essere potuta ripartire per New York solo l’indomani mattina, intorno alle 9. «Sono stata lì 14 ore, sono stata interrogata da diversi ufficiali e a tutti ho dovuto ripetere la stessa storia. Alla fine mi hanno rilasciata, con l’obbligo di ritornare in Messico dopo sette giorni e mettere piede negli Stati Uniti, qualora l’avessi voluto, solo con un regolare permesso da artista. La cosa che ho notato – prosegue la donna – è che la maggior parte, se non tutte le persone fermate erano messicane. Ma probabilmente ciò è dovuto al fatto che il Texas è ai confini con il Messico, per cui la percentuale dei viaggiatori in arrivo in quell’aeroporto proviene da lì. Certo non posso dimenticare che al mio arrivo negli uffici dell’aeroporto c’erano alcuni ragazzi che come me dovevano chiarire meglio la loro posizione. Quando sono andata via loro erano ancora lì e mi ha colpito molto pensare a quanto tempo dovessero aver trascorso in quell'ufficio. Quelle 14 ore mi sono sembrate interminabili, ma ancora di più mi è dispiaciuto aver perso la valigia che era volata a New York. C’erano alcune mie cartelle di lavoro che, insieme al bagaglio, ora sono andate perse».