Strage di Via D'Amelio: trent'anni dopo ancora non c'è verità
Cinquantasette giorni dopo Falcone: Paolo Borsellino. Una strage annunciata. Non sono trascorsi neppure due mesi dalla strage di Capaci. È il 19 luglio del 1992. Paolo Borsellino pranza a Villagrazia in compagnia della moglie Agnese e dei figli Manfredi e Lucia (Fiammetta è all'estero). Poi si reca con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivono la mamma, Maria Pia Lepanto, e la sorella, Rita Borsellino. Alle 16:59 una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre, imbottita con circa cento chili di tritolo, esplode. Muoiono il magistrato e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico a sopravvivere, gravemente ferito, è l'agente Antonino Vullo. «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo - racconterà in seguito -. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto».
L'ultimo discorso
25 giugno 1992, Paolo Borsellino compare in quello che sarà il suo ultimo intervento pubblico, durante un’assemblea organizzata a Palermo da La Rete. «Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. In questo momento, oltre che magistrato, io sono un testimone. Ma prima di parlare in pubblico anche delle opinioni e delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo le confidenze di Giovanni Falcone, questi elementi che porto dentro di me io debbo per prima cosa comunicarli all'autorità giudiziaria che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone. Per prima ne parlerò all'autorità giudiziaria». Borsellino non risparmia parole pesanti contro «qualche giuda» che aveva lasciato solo l’amico e collega Giovanni Falcone. «La magistratura forse ha più responsabilità di tutti» nell’avere isolato Falcone prima dell’omicidio. Nel non avere voluto riconoscere il valore del suo lavoro da magistrato ma anche da tecnico in forze al ministero della Giustizia.
«Non voglio esprimere opinioni circa se si è trattato di mafia e soltanto di mafia. Ma di mafia si è trattato comunque. e l'organizzazione mafiosa quando ha preparato e attuato l'attentato del 23 maggio l'ha fatto proprio nel momento in cui a mio parere si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia. Ecco perché quando Caponnetto (Antonino, a capo del Pool antimafia dal 1984 al 1990, che culminò nel maxi processo, ndr.) dice "Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988" ha ragione, anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece per poter continuare a lavorare. Possono essere avanzate tutte le critiche, ma non si può contestare che Giovanni Falcone, in questa sua brevissima esperienza ministeriale, lavorò soprattutto per poter al più presto tornare a fare il magistrato. E questo gli è stato impedito. Perché è questo che faceva paura».
Il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana
Paolo Borsellino non poteva sapere che queste parole sarebbero state le ultime pronunciate davanti a un pubblico. E neppure che «quelle confidenze» dell'amico ucciso, frutto di un lavoro condiviso, se le sarebbe portate con sé nella tomba solo 24 giorni dopo. Perché l'autorità giudiziaria non lo sentì mai. È settembre, sono passati pochi mesi. Finiscono in manette i pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino, due balordi con precedenti penali per rapina, spaccio di droga e violenza sessuale. Si accusano del furto della Fiat 126 caricata di tritolo. Scarantino: un analfabeta che vive di furti d’auto che scambia con qualche dose di eroina, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra, lo scemo della borgata Guadagna. Ma ha confessato e lo Stato ha un colpevole. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente.
Da quel momento le indagini entrano nel più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Contrassegnato dalla complicità di molti, dall’incompetenza e dalla superficialità della macchina giudiziaria. E tanti tanti giudici. Furono riempiti 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione, spediti a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, neppure gli inquilini del palazzo di via D'Amelio. Il consulente informatico della polizia venne estromesso dalle indagini. Non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. «L'agenda rossa», diventata ragione di vita del fratello Salvatore Borsellino. «Paolo prima di morire diceva: "Quando mi uccideranno, sarà stata la mafia a farlo, ma saranno stati altri a volerlo"», ricorda oggi. Ma in quel momento c’era Scarantino, e questo contava.
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Trent’anni dopo non conosciamo ancora tutta la verità. Alla vigilia del trentesimo anniversario, ilfattoquotidiano.it ha prodotto un podcast realizzato dal giornalista Giovanni Pipitone (protagonista della puntata di CdTalk - L'ospite, online venerdì 22 luglio, ndr.) che, grazie a testimonianze esclusive e interviste inedite, mette in fila tutti i misteri irrisolti degli attentati a Falcone e Borsellino. Mattanza. Le stragi del ’92 come non ve le hanno mai raccontate.
Fiammetta Borsellino, cinque anni fa, proprio da via D'Amelio con Fabio Fazio ha usato parole durissime: «Credo che con forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità. Non una verità qualsiasi o una mezza verità ma una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime, come mio padre le ha definite, che con le loro azioni e omissioni direi, hanno voluto eliminare questi due reali servitori dello Stato. La verità è l’esatto opposto della menzogna. Ed è una cosa che dobbiamo cercare e pretendere ogni giorno e non di cui ricordarci soltanto nei momenti commemorativi». E negli scorsi giorni Fiammetta Borsellino ha dichiarato all’Espresso (unica intervista rilasciata) che diserterà le cerimonie che ricorderanno suo papà: «Una parte si è appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me».
Una verità che non è ancora arrivata
Cinque processi in trent'anni, che diventano quattordici se si contano anche gli appelli e le decisioni della Corte di Cassazione. Oltre trenta giudici si sono espressi. Sono state emesse condanne, anche all'ergastolo, assoluzioni, e c'è stata una revisione per delle condanne a vita inflitte a persone che nulla c'entravano con la strage. Una storia lunga, lunghissima. Tutto è partito dal «Borsellino Uno», il primo processo, aperto dalla dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, l'analfabeta. Sentenza il 26 gennaio 1996. Poi il «Borsellino bis» (2002). A gennaio del 2003 si è concluso il processo «Borsellino ter» in primo grado. Soltanto nel 2017, con l’esito del «Borsellino quater», si è conseguita la certezza dell'inattendibilità di Scarantino.
E esattamente una settimana fa, il 12 luglio, il tribunale di Caltanissetta ha deciso che il più grande depistaggio della storia italiana resta senza colpevoli puniti penalmente. Alla sbarra tre poliziotti accusati di concorso in calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio e, in particolare, per aver contribuito a «vestire il pupo», a «costruire» cioè il falso pentito Vincenzo Scarantino. La sentenza? I poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei hanno depistato le indagini su via D’Amelio, ma non nell’interesse di Cosa Nostra. Cade l’aggravante di avere favorito la mafia, e per loro scatta la prescrizione. Il terzo poliziotto, Michele Ribaudo, viene assolto «perché il fatto non costituisce reato». Secondo l’accusa, i due poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei avevano costretto Vincenzo Scarantino (e Salvatore Candura e Francesco Andriotta) ad autoaccusarsi e a fare i nomi di altre persone non coinvolte nell'uccisione di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Per Scarantino il tribunale di Caltanissetta ha rinviato gli atti alla procura affinché valuti se procedere o meno al reato di calunnia. I falsi collaboratori di giustizia, secondo l’accusa, avrebbero aiutato i veri colpevoli a non essere identificati.
Le reazioni
«Da noi accadono gli eventi, ci sono situazioni comprovate, ma poi alla fine non paga mai nessuno - è stato il commento amareggiato di Antonino Vullo, l'agente della scorta di Paolo Borsellino unico sopravvisuto (citato a inizio articolo) -. Ci aspettavamo un simile esito. Nell’aria si intravedeva qualcosa del genere». Vullo ha deciso - così come i figli Borsellino - di disertare le manifestazioni previste oggi. «Ho perso un pò di fiducia e non mi ritrovo più in certi ambienti». «Quando nei processi sono imputati funzionari dello Stato la fine è sempre la stessa: o il fatto non costituisce reato, come è accaduto nel processo d’appello sulla Trattativa (Stato-mafia, ndr.), oppure si arriva alla prescrizione», gli ha fatto eco Salvatore Borsellino. Luciano Traina, fratello di Claudio l’agente di scorta morto nell'attentato, ha aggiunto: «Lo Stato non c’è. La trattativa continua, c’è un depistaggio che ci fa molto male. Ho una profonda rabbia. Sono molto molto deluso». «Provo una forte amarezza - sono state le prime parole della sorella del giudice Falcone, Maria Falcone -, perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica».
Fiammetta Borsellino, a differenza dei fratelli Manfredi e Lucia, non ha assistito alla lettura della sentenza. Ma qualche giorno prima, durante la presentazione del libro Per amore della verità, ha usato parole dure. «Ci sono uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D'Amelio. Diserteremo tutte le manifestazioni ufficiali fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità. C'era la volontà della magistratura di non guardare dentro se stessa, perché si doveva partire da quella frase che disse mio padre quando definì la procura di Palermo "Quel nido di vipere"». Quindi la conclusione: «Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito».