Arriverà il giorno in cui potremo volare a «emissioni zero»?
È normale: dopo oltre un anno di quarantene, la voglia di viaggiare è tanta. Ma tornare a viaggiare significa anche, spesso, tornare a inquinare maggiormente. Come muoversi in maniera «green»? Come ridurre l’impatto che i voli (siano essi di piacere o lavoro) hanno sul cambiamento climatico? A chiederselo non sono solo i più coscienziosi fra i cittadini, ma anche le compagnie aeree che, complice la forte pressione dell’opinione pubblica, stanno pensando a un futuro più verde.
Ed è anche per questo che negli ultimi mesi si è sempre più spesso sentito parlare di società che puntano alle «emissioni zero» entro il 2050. Particolarmente rappresentativa del fenomeno, nella seconda metà di maggio, la notizia che nel serbatoio di un aereo destinato a un volo a lungo raggio (Parigi-Montréal), Air France abbia deciso di immettere anche biocarburante derivato da scarti di olio da cucina. Ma quali sono le opzioni a nostra disposizione per concretizzare il sogno del volo a emissioni zero? E quali sono le possibilità che tali opzioni diventino, nel breve-medio termine, più di mere mosse pubblicitarie? Ne abbiamo parlato con Marco Mazzotti, professore all’ETH ed esperto di cattura e stoccaggio di CO2, e Marco Giovanniello, esperto d’aviazione già attivo presso SEA, società che gestisce gli scali milanesi.
Le opzioni per un'aviazione «carbon neutral»
Abbiamo parlato di emissioni zero, ma il termine in inglese, carbon neutrality, rende meglio l’idea sulle opzioni attualmente al vaglio degli scienziati. Ciò a cui possiamo aspirare, al momento, non è far volare gli aerei con energie alternative e rinnovabili che, letteralmente, provochino zero emissioni, ma piuttosto bilanciare la CO2 emessa tramite il riassorbimento di una pari quantità di gas. In parole povere: premurarsi di «pulire» dopo aver «sporcato» l’aria.
Il prof. Marco Mazzotti, insieme al suo team dell’ETH, ha recentemente pubblicato uno studio al riguardo. «L’obiettivo è quello di capire come si possa realizzare una società carbon neutral», ci spiega. «E ci sono naturalmente dei settori per i quali questo è molto difficile: decarbonizzare la produzione dell’energia elettrica è relativamente semplice, benché oggi la maggior parte delle emissioni arrivi proprio da questo settore. Decarbonizzare la produzione di cemento o l’aviazione, al contrario, è molto più complesso. Per quest’ultimo abbiamo voluto confrontare tre alternative», racconta il professore: «Il sistema di Carbon capture and utilisation (cattura e utilizzazione della CO2, CCU), Carbon capture and storage (cattura e stoccaggio della CO2, CCS) e, infine, i biocombustibili».
Carbon capture and utilisation (CCU)
«Il sistema CCU permette la creazione di combustibili sintetici», spiega Mazzotti. «La CO2 viene rimossa e catturata dall’atmosfera e fatta reagire con l’idrogeno, così da creare un combustibile equivalente a quelli convenzionali ma di origine sintetica e non fossile». Per ottenere questo carburante, insomma, non è necessario trivellare. Anzi, catturando la CO2 sarà possibile «ripulire» l’aria, creando il già citato effetto di bilanciamento. «Chimicamente i due carburanti sono molto simili, quasi uguali, e non richiedono dunque una riconversione dei motori. La differenza sta nella provenienza. Con i combustibili sintetici si può creare un ciclo virtuoso grazie al quale non si va ad aggiungere altra CO2 di origine fossile all’atmosfera, ma si continua a riutilizzare quella già presente nell’aria». C’è, però, un problema: «Questi processi chimici richiedono una gran quantità di energia e, per produrla, non tutti i Paesi hanno a disposizione fonti interamente pulite. Nel nostro studio abbiamo dimostrato come, se l’energia utilizzata per la creazione di carburanti sintetici non dovesse essere pulita, questo sistema porterebbe più danni che benefici all’ambiente. Svizzera e Francia sono i due Paesi in Europa in cui un simile metodo potrebbe funzionare, questo perché la loro carbon footprint, l’impronta carbonica, è bassa. Ma se prendiamo il valore medio dell’Unione Europea, notiamo come questo sistema di riciclo causerebbe più emissioni di quanto non facciano ora i combustibili convenzionali». Insomma, in Svizzera potrebbe funzionare, ma puntare a breve termine l’estensione del sistema CCU a livello mondiale (o anche solo europeo) è al momento impensabile: «Prima va riconvertito il sistema energetico, arrivare a un mix di fonti che abbia una bassa impronta a livello di emissioni di CO2. Solo a quel punto questa tecnologia sarebbe applicabile».
Carbon capture and storage (CCS)
Se dunque il riutilizzo della CO2 può avere tutti questi svantaggi, una soluzione potrebbe essere il fermarsi un passo prima, evitando il passaggio che porta all’aumento dei consumi energetici. «Tramite la CCS non si creano combustibili», spiega Mazzotti. «In questo modo gli aerei continuano a utilizzare carburante di origine fossile, ma la CO2 prodotta viene compensata tramite le cosiddette ‘‘emissioni negative’’: una volta catturata, la CO2 non viene riutilizzata come per la CCU, ma viene invece stoccata nel sottosuolo. Non è comunque una soluzione facile: in Svizzera, ad esempio, non abbiamo oggi dei siti di stoccaggio della CO2. Al momento ce ne sono nel mare del Nord, in Norvegia e in Islanda. In futuro ve ne saranno in Gran Bretagna e a settembre partirà un progetto europeo. Anche il sistema CCS richiede importanti risorse e una grande pianificazione».
Difficoltà che però, in un modo o nell’altro, siamo destinati ad affrontare: «Questo flusso di emissioni negative», spiega Mazzotti, «è comunque un processo di cui avremo bisogno in futuro: non è una tecnologia di cui possiamo fare a meno, presto o tardi dovremo tutti farne uso».
I biocombustibili
Un’altra soluzione sarebbe quella dei biofuel: i carburanti prodotti a partire da biomassa. Quanto fatto da Air France in collaborazione con la compagnia energetica Total ne è un esempio: residui vegetali come l’olio da cucina possono essere utilizzati per la produzione di biocombustibili. In questo caso l’operazione di riciclo non andrebbe dunque a cadere direttamente sulla CO2, ma sulla biomassa. «Certo non una novità», sottolinea il professore dell’ETH. «Quella di Air France è stata una dimostrazione molto valida dal punto di vista mediatico, meno da quello tecnico». È da tempo, infatti, che si parla di biofuel, e i problemi riguardanti la sua produzione sono diversi: «Al momento non possiamo alimentare un aereo solo tramite biocombustibili: una certa percentuale del carburante dev’essere ancora di tipo convenzionale». Nel caso di Air France, ad esempio, solo il 16% del carburante utilizzato per il volo era derivato da olio da cucina. «Un altro problema dei biocombustibili è quello del cosiddetto land use: essendo di origine vegetale, per la loro produzione si deve forzatamente mettere in conto anche l’utilizzo di grandi terreni: un fattore molto limitante». E a pesare è anche il fatto che l’aviazione non è l’unica a guardare con curiosità a questo tipo di carburante: «Sono molti i settori interessati, il fatto è che non abbiamo abbastanza biomassa per alimentarli tutti».
I costi della battaglia climatica
Al problema energetico va aggiunto, imprescindibilmente, quello economico. «Nel nostro studio abbiamo analizzato le opzioni anche dal punto di vista dei costi», racconta Mazzotti. «I combustibili sintetici vengono spesso presentati come la soluzione a tutti i problemi: ‘‘puliti ed economici’’. Non è così: costano molto più di quelli fossili e, come già sottolineato, possono anche essere più dannosi se non prodotti nelle giuste condizioni».
Non sarebbe giusto però evitare la loro produzione per una mera questione di prezzi: «Combattere il cambiamento climatico costa. Ed è giusto che costi, perché vuol dire effettuare dei passaggi in più in modo che si abbia un prodotto pulito invece che sporco. È un prezzo che dobbiamo accettare: l’unico modo per mettere sullo stesso piano sintetici e fossili è tramite una tassa sul carbonio».
Produrre CO2: il nuovo peccato originale
Sulle spalle dell’aviazione, dicevamo, c’è una grande pressione: da anni si moltiplicano gli appelli a viaggiare meno e viaggiare «green» e la crescente coscienza ambientalista ha spinto il settore verso una forzata rivoluzione. «Adattarsi o perire», scriveva H. G. Wells, e se l’aviazione in sé è un gigante immortale, non altrettanto si può dire delle singole compagnie, che rischiano il collasso anche a causa dell’inattività pandemica. L’unica scelta? Adattarsi. Per questo si moltiplicano le notizie di compagnie che puntano alla già citata carbon neutrality entro il 2050, o che con l’uso di biocarburanti pubblicizzano la propria buona volontà.
Con Marco Giovanniello abbiamo parlato delle difficoltà economiche che sta vivendo il settore, chiuso nella tenaglia pandemico-climatica.
Sono davvero gli aerei il problema?
«L’aviazione sta vivendo un periodo di sperimentazione: si provano nuovi carburanti, nuovi motori, nuovi aerei», ci spiega Giovanniello. «Alle compagnie aeree si chiede di muoversi in favore dell’ecologia. Il problema è che le emissioni di CO2 prodotte da tutto il settore sono pari circa al 2% di quelle totali. Una simile pressione è dunque giustificata? La grossa produzione di CO2 viene data da settori di cui raramente si parla, ad esempio quello del riscaldamento domestico».
A pesare, secondo Giovanniello, il movimento ambientalista: «Questa differente sensibilità fra settori è dovuta all’attivismo, a personaggi come Greta Thunberg. Ma se si fermassero i voli del mondo, temo che non cambierebbe molto a livello di emissioni: lo abbiamo già visto durante la pandemia. Viaggiare in aereo è ancora visto come un lusso, e il lusso viene spesso stigmatizzato. Una volta era immorale tutto ciò che aveva a che fare con il sesso, ora è immorale tutto quanto riguarda la CO2».
L’esperto di aviazione torna poi sulle sperimentazioni in corso: «Al di là dei test con carburanti alternativi, un passo importante sul breve termine è l’adozione di motori più performanti. La spinta è arrivata anche dagli alti picchi raggiunti dal costo del combustibile: una problematica che ha stimolato i produttori di aerei. L’adozione di nuovi motori va a risolvere, almeno in parte, un altro tipo di inquinamento: quello acustico». Le rivoluzioni, però, devono avvenire con una certa cautela: «Il settore dell’aviazione ha un’esigenza che sorpassa qualsiasi altra, quella della sicurezza. Al momento i quadrimotori non vengono più prodotti e progettati, perché ci si è resi conto che due motori sono sufficientemente sicuri con gli standard attuali. Per il futuro sorgono dunque diverse domande, ad esempio: ‘‘Quando potremo effettuare voli alimentati esclusivamente da biocarburante, viaggiare con due motori sarà abbastanza sicuro?’’. Per rispondere ci vorranno anni di sperimentazione».
Tra pandemia e tassa climatica
Per diminuire le emissioni legate ai viaggi, uno strumento dei Governi potrebbe essere quello della tassazione: più colpite sarebbero quelle compagnie che non sperimentano nuove vie ma continuano invece ad affidarsi ai combustibili fossili. I costi dei biglietti, ovviamente, lieviterebbero.
Ma con un settore così in difficoltà, una simile via sarebbe percorribile? «I Paesi che più vivono di turismo non possono permettersi di disincentivare i viaggi», ci dice Giovanniello. «Il fenomeno è osservabile anche nella reazione alla pandemia: Stati come Croazia, Grecia e Portogallo devono forzatamente chiudere un occhio perché troppo dipendenti dalle entrate turistiche. Atteggiamenti simili saranno riscontrabili sulle tasse volte a scoraggiare i viaggi: le compagnie aeree rischiano il fallimento e i Paesi stessi non avranno interesse nel creare nuove imposte».
E anche in Svizzera la situazione non è delle più rosee: secondo i dati pubblicati lo scorso febbraio dall’Ufficio federale di statistica, nel 2020 sono stati registrati solamente 16,5 milioni di passeggeri contro i 58,5 milioni del 2019. Numeri che non si toccavano dagli anni ‘80, equivalenti a un calo del 72%.
La pandemia, poi, potrebbe lasciare strascichi: «La parte di traffico più remunerativa per l’aviazione, quella dei clienti che si spostano per affari e non per altri motivi, è stata costretta per un anno a utilizzare metodi alternativi: parlo dei vari Teams, Zoom e simili. È molto difficile pensare che, passata la pandemia, si torni ai livelli di prima».
Più vie, un unico obiettivo
Quelle elencate sono alcune delle vie, non le uniche, a nostra disposizione per il volo a «emissioni zero». Come sottolineato da Mazzotti e Giovanniello, però, quello dell’aviazione non è certo l’unico settore a inquinare: le tecnologie elencate potrebbero essere applicate anche ad essi. Starà ai differenti Paesi decidere, in modo autonomo o concertato, quale strada imboccare per un futuro più verde ed ecosostenibile.