Il caso

Arte etnica alla prova della Storia, una mostra a Zurigo riapre il dibattito

Venerdì, al Rietberg, si apre un’esposizione di manufatti del Benin, molti dei quali frutto iniziale del saccheggio operato dall’Esercito di sua Maestà britannica nel 1897 – La Svizzera si interroga da anni sulla possibilità di restituire le opere – A ottobre la proposta di un «Forum»
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Red. Ticino&Svizzera
21.08.2024 21:30

Ancora una volta si riapre, anche in Svizzera, il dibattito sulla restituzione dei beni artistici (di proprietà di musei e di istituzioni culturali pubbliche) saccheggiati o portati via come trofei di guerra dai Paesi d’origine.

Da venerdì, e fino al 16 febbraio del prossimo anno, nelle sale del Museo Rietberg di Zurigo sarà allestita la mostra «In dialogo con il Benin: arte, colonialismo, restituzione», progetto rivolto a far conoscere il passato, il presente e il futuro del patrimonio culturale dell’ex regno dell’Africa occidentale, un fazzoletto di terra a ridosso del Golfo di Guinea oggi integrato nella Repubblica federale di Nigeria.

La mostra, organizzata in collaborazione con studiosi residenti in Nigeria e rappresentanti della diaspora, mette in luce l’importanza dell’arte del Benin ma affronta anche, e soprattutto, il tema del saccheggio dei beni artistici, la loro successiva vendita sul mercato internazionale e, come detto, il tema di una possibile restituzione.

L’esposizione temporanea zurighese ruota attorno ai tragici avvenimenti del 1897, anno in cui il Benin divenne un protettorato britannico, e nel quale l’Esercito di sua Maestà la regina Vittoria cacciò il re Oba Ovonramwen dal suo palazzo, ponendo fine a oltre 700 anni di indipendenza.

Dopo la conquista, migliaia di manufatti, raffinate sculture d’avorio, figure commemorative e lastre in rilievo di ottone furono saccheggiati e portati via dal loro contesto originale. I trofei di guerra divennero presto merci nel florido mercato europeo dell’arte, finendo anche in molti musei del Vecchio Continente. Compresa, ovviamente, la collezione del Rietberg ora al centro della mostra: almeno sedici opere, integrate da altre provenienti da prestiti del Museo storico di Berna e del Museo di etnografia di Neuchâtel.

Il forum della restituzione

La restituzione dei beni culturali e delle opere d’arte trafugate alla fine del secolo scorso nell’ex regno africano è al centro, ormai da quattro anni, della cosiddetta «Iniziativa Benin Svizzera (BIS)»: con il sostegno dell’Ufficio federale della cultura, otto musei svizzeri stanno analizzando le proprie collezioni beniniane, interrogandosi nello stesso tempo sul riconoscimento delle ingiustizie e sulla possibile restituzione dei beni culturali.

Una decisione finale, in tal senso, sarà presa in occasione di un forum sulla restituzione che si terrà il 26 ottobre, ha spiegato all’agenzia Keystone-ATS Esned Nezić, responsabile del marketing e della comunicazione del Museo Rietberg. «Noi faremo alcune raccomandazioni, ma la decisione spetterà comunque ai politici», ha detto Nezić.

Nel febbraio dello scorso anno, il direttore generale dell’Autorità nazionale per i musei e i monumenti della Nigeria, Abba Tijani, ha condotto una missione in Svizzera finalizzata proprio alla restituzione dei «Bronzi del Benin», opere emblematiche del saccheggio europeo operato in Africa nel XIX secolo. «Ogni volta che un nuovo Oba, com’era chiamato il re del Benin, veniva incoronato, si fondeva uno di questi bronzi, i quali erano un simbolo del potere - aveva detto Tijani alla stampa elvetica - Non solo: i bronzi erano pure utilizzati per documentare la storia del regno». Rubando i bronzi, aveva aggiunto Tijani, gli europei avevano rubato anche la storia del Benin.

Un rapporto della BIS, stilato nel 2023 in collaborazione con esperti d’arte e storici nigeriani, aveva comunque stabilito che almeno 53 dei 96 bronzi del Benin esposti nei musei svizzeri provenivano sicuramente da furti e saccheggi nel Paese africano.

La storia del saccheggio

«I bronzi del Benin saccheggiati dai soldati britannici durante la spedizione punitiva del 1897 condotta sotto il comando dell’ammiraglio Harry Rawson furono consegnati in parte al Foreign and Commonwealth Office, e furono acquisiti per il 40% circa dal British Museum - dice al Corriere del Ticino  Francesco Paolo Campione, direttore del Museo delle Culture di Lugano (MUSEC) e docente di Antropologia dell’arte all’Università dell’Insubria di Como e Varese - mentre la restante parte fu venduta all’asta per ripagare le spese di guerra e acquistata soprattutto da musei tedeschi. Un’altra importante raccolta di bronzi del Benin fu assemblata poi dal mercante d’arte e collezionista inglese William Downing Webster che, nel 1899, attraversò in lungo e in largo il Regno Unito acquistando opere dai soldati britannici di ritorno dalla spedizione africana, e accumulando una grande quantità di materiale dopo accuratamente registrata nei suoi cataloghi. È a partire da questo passaggio che bisognerebbe leggere una vicenda di cui si discute, peraltro, da decenni».

Secondo Campione, infatti, la questione al centro della mostra zurighese rimanda «non a un singolo atto di restituzione che, nel caso specifico, può pure starci, quanto piuttosto a un processo al colonialismo, che invece tuttora manca. La domanda da farsi è quindi un’altra: può permettersi, un singolo museo, pure molto importante qual è il Rietberg, di fare un processo al colonialismo? Possono istruire, le istituzioni culturali, il processo alla storia? Io credo di no. Che i musei si sostituiscano ai Tribunali mi lascia perplesso e dubbioso».

Il rischio demagogia

Temi del genere sono «da trattare con grande attenzione e con grande cura - aggiunge il direttore del MUSEC  di Lugano - perché il rischio di precipitare nella demagogia è elevato. Su quale base, mi domando, un museo dovrebbe essere chiamato a stabilire nuovamente chi sono i buoni e i cattivi della storia? Oltretutto, un simile processo non dovrebbe alla fine comportare la sola restituzione dei bronzi del Benin, parte infinintesimale di tutto ciò che è stato saccheggiato. Ma di ben altro».

Sui bronzi del Benin, è l’ultima riflessione di Francesco Paolo Campione, c’è poi un accanimento particolare. «Una discussione che data da decenni ed è giustificata dall’enorme valore commerciale delle sculture. Capolavori dal valore stimato di alcuni milioni di franchi. Già negli anni Venti del secolo scorso il mercato dei bronzi del Benin era di primissimo ordine. Nel complesso delle opere di arte etnica, sono sempre state tra quelle di maggior pregio». Una ragione in più, sembra di capire, perché la questione sia affrontata nelle giuste sedi.