L'intervento

«Cassis dovrebbe rassegnare le dimissioni»

A dirlo è l'ex numero tre del Dipartimento federale degli affari esteri, Georges Martin, che da acceso fautore dello Spazio economico europeo (SEE) si è trasformato in un oppositore dell'Unione europea
©SARAH YENESEL
Ats
25.07.2024 19:31

La politica estera svizzera in relazione all'Ucraina e alla neutralità è «una vergogna», il consigliere federale Ignazio Cassis dovrebbe rassegnare le dimissioni: a dirlo è l'ex numero tre del Dipartimento federale degli affari esteri, Georges Martin, che da acceso fautore dello Spazio economico europeo (SEE) si è trasformato in un oppositore dell'Unione europea, un organismo a suo avviso incamminatosi su un percorso di guerra.

«Rimanere semplicemente in silenzio ora non è un'opzione per me, mi considero una sorta di testimone», afferma in un'intervista pubblicata oggi dalla Weltwoche l'ex diplomatico che quest'anno ha pubblicato un'autobiografia, «Une vie au service de mon pays» (Una vita al servizio del mio paese).

Cresciuto nel Vallese cattolico («mi sentivo come un prigioniero»), Martin ha studiato scienze politiche a Losanna. «Durante gli studi mi vedevo come un rivoluzionario, mi sono divertito molto all'università, ma poi la serietà della vita mi ha chiamato: non si può vivere di rivoluzione. Dopo la laurea, ho dovuto trovare un lavoro».

Entrato al DFAE, ha fatto carriera ed è diventato ambasciatore. «Non dimenticherò mai l'attentato del 2002 a Bali, allora gli islamisti uccisero oltre 200 persone: poco prima avevo assunto l'incarico di ambasciatore in Indonesia», spiega. «Due anni dopo, nel dicembre 2004, è seguito lo tsunami, che ha ucciso innumerevoli persone. È stato un periodo molto intenso. La Svizzera ha fatto molto per aiutare le vittime, l'intera vicenda è stata una tragedia».

In Sudafrica ha incontrato Nelson Mandela, pochi mesi dopo il suo rilascio dal carcere. «Mandela è stata la persona che mi ha colpito di più. Ho potuto parlare con lui per mezz'ora dopo la sua liberazione, nel febbraio 1990, quando aveva già più di settant'anni. Ho paragonato il tutto alla storia della resurrezione di Gesù a Pasqua. Stringere la mano di Mandela, avere un contatto fisico con lui e sentirlo parlare è stato affascinante. Mandela è un'icona, una persona straordinaria nella storia dell'umanità».

Nel 1990 Mandela visitò come primo paese la Svizzera, anche grazie all'allora ministro degli esteri René Felber. «Mi è piaciuto lavorare con Felber, per me incarnava l'umanesimo unito a forti convinzioni. Era determinato a metterle in pratica». Come Felber, anche Martin era convinto della necessità di aderire allo Spazio economico europeo.

«Per molto tempo ho visto l'Ue come una sorta di macchina della pace: nel frattempo, l'Ue è sul piede di guerra, basta guardare l'Ucraina, non posso accettarlo», argomenta il 74enne. «A lungo sono stato favorevole all'adesione all'Unione europea, oggi sono un convinto oppositore. Sono favorevole ad accordi tecnici affinché le aziende svizzere non debbano subire svantaggi nell'Ue: dal punto di vista politico l'Ue non deve invece interferire con la Svizzera».

«Con il nuovo accordo quadro 2.0 si varca un limite, si va ben oltre», sostiene l'esperto che è stato vicesegretario di stato sotto il consigliere federale Didier Burkhalter, terza carica più importante nel DFAE. «La Svizzera dovrebbe adottare 'dinamicamente' il diritto dell'Ue. Sono convinto che gli elettori non lo accetteranno e anche i politici dovrebbero rendersene conto. I cittadini svizzeri non sono stupidi. L'Ue è in declino: non vale più la pena di far parte di Bruxelles».

«L'Ue presenta un grave deficit democratico. Malgrado ciò molte persone sono ancora entusiaste di Bruxelles. All'interno dell'élite politico-mediatica, l'opinione è cambiata a favore dell'Ue: si ritiene che Bruxelles, insieme alla Nato, possa garantire la nostra sicurezza. Ma la politica estera dell'Ue è bellicosa, è guidata da persone come Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, e come la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Quest'ultima ha ottenuto il suo posto solo grazie a Washington e al presidente francese Emmanuel Macron. Non dobbiamo avvicinarci all'Ue in nessun caso: se lo facciamo, ci avviamo verso la guerra. Sono convinto che i cittadini non lo vogliano».

Però - ribatte il giornalista della Weltwoche - di recente anche l'ex consigliera federale Micheline Calmy-Rey, socialista, ha detto che la Svizzera dovrebbe riflettere a un'adesione all'Ue e alla Nato. «Calmy-Rey ha fatto molto per la pace: i negoziati e la vera diplomazia sono sempre stati al centro del suo lavoro», risponde l'ex funzionario andato in pensione nel 2017. «Il fatto che ora parli della possibilità di aderire alla Nato mi lascia sbalordito. Non riesco a capire, soprattutto per la sua formazione socialdemocratica. Durante la guerra fredda, la borghesia accusava il PS e i compagni di fare causa comune con Mosca. Venivano dipinti come utili idioti dei comunisti. Oggi, nei partiti di sinistra come il PS e i Verdi prevale una vera e propria russofobia. Hanno dichiarato guerra alla Russia, la più forte potenza nucleare del mondo, ma non ci dicono come intendono sconfiggere questa potenza».

«L'Europa non esiste più, politicamente, il continente è morto», insiste Martin. «In termini politici, l'Ue sta semplicemente agendo come un burattino degli Stati Uniti. Al più tardi dal 2014, quando è iniziata la guerra in Ucraina, l'Europa si è mossa nella direzione completamente sbagliata. Ciò che sta accadendo ora non serve gli interessi dell'Europa. Mancano i leader: l'Europa non ha un numero di telefono, ha detto Henry Kissinger, aveva ragione. Nel mondo della diplomazia, nessuno prende sul serio l'Ue».

I toni nei confronti della Russia si sono inaspriti però anche in Svizzera: Ignazio Cassis ha deciso di non invitare la Russia alla conferenza del Bürgenstock (NW) e secondo Martin ha violato la costituzione. «So che alcuni dipendenti di alto rango del DFAE la vedono allo stesso modo, altri non li riconosco più. Molti dei miei colleghi hanno dedicato tutta la loro vita alla pace: ora stanno in silenzio. Peggio ancora, quelli che parlano si sono trasformati in sostenitori della guerra, stanno tradendo la loro professione. Con il pretesto che la Svizzera deve adattarsi alle nuove circostanze, stanno abbandonando la nostra neutralità».

«La politica estera svizzera in relazione all'Ucraina e alla Conferenza di Bürgenstock è una vergogna», sostiene l'ex ambasciatore. «Cassis sarebbe obbligato a mantenere alta la neutralità, questo è il mandato costituzionale: ma il ministro degli esteri non la tiene in considerazione. La situazione è grave, c'è un grande fermento tra la base e i pianti alti del DFAE».

Cassis avrebbe dovuto dimettersi? «In un paese normale, Cassis avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni già da tempo», afferma lo specialista. «Mette a rischio la sicurezza della Svizzera: ci troviamo sotto il fuoco incrociato di altri paesi. E non dobbiamo dimenticare: il pericolo di una guerra nucleare in Ucraina è enorme. Questo rende le prese di posizione unilaterali ancora più pericolose. La Svizzera dovrebbe invece contribuire con urgenza alla de-escalation».

E perché il ministro degli esteri elvetico penderebbe da una parte? «Cassis è in un bunker, vive in una bolla. L'intera faccenda è quasi paranoica. Lui ascolta solo una ristretta cerchia di consiglieri, ignora ciò che non vuole sentire. Il suo segretario generale Markus Seiler, ex capo dei servizi segreti, svolge un ruolo centrale. Cassis sta perdendo il contatto con la realtà. Solo così si può capire il fallimento della Conferenza di Bürgenstock: non avrebbe mai dovuto essere organizzata in tale forma».

«Avevamo una politica estera attiva e neutrale, eravamo rispettati all'estero», si rammarica l'ex alto funzionario. «Da quando Cassis è arrivato nel 2017 non è più così. All'estero la gente non prende più sul serio la Svizzera: non si sa più cosa rappresenta la Confederazione, è diventata imprevedibile, il Consiglio federale ha svenduto la neutralità. Se si viene percepiti dai piccoli paesi come non neutrali, non è poi così grave, ma ora abbiamo un problema reale: grandi potenze come gli Stati Uniti e la Russia non ci vedono più come neutrali», conclude Martin.