L'intervista

«Fine dello statuto S? In Ucraina si fa ancora scuola nei bunker»

A tu per tu con l'ambasciatrice ucraina in Svizzera, Iryna Venediktova: «Se dobbiamo parlare di un “quando”, la risposta è “quando le condizioni lo permetteranno”»
© CdT/Chiara Zocchetti
Giacomo Butti
15.10.2023 19:45

Una decina di giorni fa, il Consiglio federale ha approvato il piano di una futura abolizione dello statuto S per i profughi ucraini. Futura, sì. Ma non troppo. Fra marzo 2024 e marzo 2025, Berna potrebbe già attivare il progetto che - sull’arco di 6-9 mesi - porterà circa 70 mila rifugiati ucraini a lasciare la Svizzera. Ne abbiamo parlato con Iryna Venediktova, da 10 mesi ambasciatrice ucraina in Svizzera.

Partiamo proprio dallo statuto S. È troppo presto per parlare di una sua abolizione?
«È difficile dare una risposta semplice a una domanda così complessa. Partiamo dalla posizione degli ucraini: non sono migranti economici. Gli ucraini hanno cercato rifugio in Svizzera, temporaneamente, solo per scappare dalla guerra. Per proteggere loro stessi e i propri figli. La maggioranza assoluta di questi profughi, del resto, è composta da donne e bambini. È troppo presto perché sia loro imposto di rientrare? Il discorso va incentrato sulle condizioni alle quali è accettabile fare ritorno in Ucraina. Al momento il nostro Paese non può proteggere la propria popolazione, non può garantirne la sicurezza. Prendiamo l’esempio di Mariupol: se gli abitanti dovessero tornare oggi, troverebbero la loro città occupata. Molti altri sono gli esempi di persone che non hanno nemmeno una casa in cui stare. Se dobbiamo parlare di un “quando”, la risposta è “quando le condizioni lo permetteranno”. Quando la guerra sarà finita. Lo statuto S è una protezione temporanea ed è competenza della sola Svizzera deciderne i termini. Ma come culla delle Convenzioni di Ginevra e della legge internazionale umanitaria, con i suoi altissimi standard umanitari, sono sicura che la Svizzera non accetterà di rimandare indietro gli ucraini quando possono ancora essere uccisi da missili russi. È, come detto, una questione di condizioni».

Ma a quali condizioni Kiev considererà la guerra “finita”?
«I discorsi su un “congelamento” della guerra ci preoccupano: si tratta di un’eventualità pericolosa per gli ucraini. Per noi la guerra è cominciata nel 2014: per otto anni abbiamo negoziato, con la collaborazione di un grandissimo numero di diplomatici, anche svizzeri. Otto anni. Qual è stato il risultato? L’invasione su vasta scala dell’Ucraina e migliaia di morti. Ora capiamo che per concludere la guerra abbiamo una sola opzione: vincere. Anche perché quella in corso non è una guerra solo contro l’Ucraina, ma contro l’Europa e il mondo intero».

In che senso?
«Solo cento anni fa, la guerra faceva parte delle relazioni tra gli Stati. Ora non è più così. Dalle convenzioni di Ginevra allo Statuto di Roma: i trattati dello scorso secolo condannano il crimine di aggressione. Chi ha firmato questi patti deve impegnarsi nella difesa dello Stato di diritto. Non ci sono altre soluzioni. Se le leggi internazionali venissero infrante accettando di patteggiare con l’aggressore, sarebbe il caos. Vogliamo la pace più di tutti, ma la condizione principale per raggiungerla è la vittoria dell’Ucraina».

Scuole, per bambini, sottoterra? Nel ventunesimo secolo? Questa è la nuova realtà per noi. Avremo bisogno di molte scuole-bunker

Alcuni suoi connazionali, però, hanno deciso di tornare, nonostante il conflitto sia tutt’altro che concluso. Che cosa vuol dire, oggi, vivere in Ucraina?
«È vero, molti ucraini hanno fatto ritorno, anche nella mia città natale: Kharkiv. Ma gli attacchi russi continuano, ogni giorno. E proprio a Kharkiv abbiamo un esempio di cosa voglia dire vivere in queste condizioni. Il sindaco ha annunciato recentemente che l’amministrazione spera di costruire entro fine anno delle scuole sotterranee, le prime in Ucraina. Sì, queste scuole-bunker permetteranno di continuare l’educazione dei nostri figli. Ma come cittadina, donna e madre, questa notizia mi ha scioccato. Scuole, per bambini, sottoterra? Nel ventunesimo secolo? Questa è la nuova realtà per noi. Avremo bisogno di molte scuole-bunker».

Mentre i mesi passano, molti ucraini - arrivati in Svizzera oltre un anno fa - si stanno rifacendo una vita. Anche a guerra finita, quanti rientrerebbero in patria?
«È impossibile dare una stima precisa. Quanti sono arrivati qui si sono integrati molto bene nelle differenti comunità. Nei miei dieci mesi da ambasciatrice in Svizzera, ho visitato 16 cantoni, ho parlato con molti rifugiati per capirne l’umore, i sentimenti, i bisogni. E penso che le autorità abbiano mostrato una grande solidarietà nei confronti degli ucraini, che hanno accesso al lavoro, all’istruzione, all’assistenza medica. Non solo: apprezziamo soprattutto, un fatto senza precedenti, che ancora oggi la popolazione svizzera apra le proprie case ai rifugiati ucraini. È qualcosa di incredibilmente umano. Per l’Ucraina, tuttavia, è estremamente importante aiutare tutte queste persone a tornare. Vogliamo che le nostre giovani generazioni crescano nel nostro Paese e aiutino a ricostruirne il futuro. Per questo è importante che l’Ucraina si dimostri attrattiva dando buone condizioni di vita, di lavoro, di istruzione. C’è tanto lavoro da fare, anche perché miriamo a diventare membri dell’Unione europea e della NATO: con questo obiettivo, nel bel mezzo della guerra, stiamo mettendo in moto delle importanti riforme. Sono sicura che quando i nostri connazionali vedranno che c’è futuro e speranza a casa, torneranno, portando con loro tutti i valori delle nazioni che li hanno ospitati. Perché casa propria è sempre meglio, anche dei vicini più ospitali».

Questo conflitto ha un aggressore, la Russia, e una vittima, l’Ucraina. E la vittima, nel diritto internazionale umanitario, ha legalmente diritto a difendersi e a ottenere tutto l’aiuto che Stati terzi sono disposti a dare

Sulle pagine di Le Temps, il console onorario ucraino in Svizzera Andrej Lushnycky ha criticato fortemente l’operato del Consiglio federale: a sua detta, Berna si è mossa in modo incoerente. Sostiene la ricostruzione e lo sminamento dell’Ucraina, ma non accetta la riesportazione di armi. Il tutto mentre le aziende elvetiche continuano a operare in Russia, versando tasse che finanziano la guerra. La Svizzera dovrebbe fare di più?
«Andrej Lushnycky opera da tempo per proteggere gli interessi ucraini, ma parla anche in qualità di cittadino svizzero. Come ambasciatrice ucraina, posso dire che per noi è molto importante vedere una Svizzera proattiva. Assistiamo ogni giorno a grandi esempi di solidarietà da parte della società elvetica e l’Ucraina sa di averne il supporto. Ma esempi di valori democratici, nella tradizione umanitaria svizzera, li abbiamo avuti anche dal governo. Penso ad esempio a quanto avvenuto sotto la leadership del consigliere federale Ignazio Cassis, quando Berna si è impegnata nello sminamento dell’Ucraina con pacchetti di aiuti arrivati rapidamente a 100 milioni di franchi. È abbastanza? Non discuto sul concetto di neutralità. La questione è come la Svizzera, nel rispetto delle sue politiche interne, possa aiutare nel fermare quello che, secondo lo Statuto di Roma (del quale la Svizzera è firmataria, ndr), è un crimine d’aggressione. Questo conflitto ha un aggressore, la Russia, e una vittima, l’Ucraina. E la vittima, nel diritto internazionale umanitario, ha legalmente diritto a difendersi e a ottenere tutto l’aiuto che Stati terzi sono disposti a dare. Per questo, tutto ciò che chiede l’Ucraina è di non bloccare l’aiuto di queste terze parti, permettendo la riesportazione di armi e munizioni in Ucraina. Ci auguriamo che una decisione in tal senso venga presa presto, perché ogni giorno è importante».

Da secoli, in Ucraina, risiede una numerosa comunità ebraica. Che rapporti intrattiene Kiev con Israele, in questo momento difficile per entrambi i Paesi? Visto il conflitto aperto in Medio Oriente, teme che gli alleati comuni di Ucraina e Israele si concentrino sul nuovo fronte, mettendo a rischio le forniture umanitarie e militari per l’Ucraina?
«Preferiamo astenerci dal commentare la questione delle relazioni tra Kiev e Israele».

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