Gli studenti universitari non possono soffrire di burnout?

«Non ho tempo per stare male. Non posso permettermelo». Queste potrebbero essere le parole di una persona prossima all’esaurimento – o che già lo sta sperimentando.
Nel mondo professionale – come abbiamo visto in un precedente articolo – si parlerebbe di burnout, ma secondo l’Elenco Internazionale delle malattie questo termine «non può essere utilizzato per descrivere esperienze in altre aree della vita». In effetti, questa condizione non può essere attribuita all’esaurimento emotivo al quale possono essere confrontati anche gli studenti universitari. «Questo stato non deve essere banalizzato – precisa la coproduttrice di uno studio sul fenomeno presso l’Università di Losanna, Isabelle Bès – ma non si può semplicemente parlare di burnout».
Di che cosa parliamo allora? Quali sono le differenze rispetto al burnout come definito ufficialmente? Se questa sembra essere una questione solo di definizione e affatto pratica, i risvolti si possono avverare concretamente impattanti.
Come stabilire infatti delle statistiche rispetto a questo fenomeno indefinito, per misurarne il peso reale e non farlo rimanere un disturbo «per sentito dire»? E soprattutto, quali sono le conseguenze concrete nella diagnosi e nella cura di un malessere – anche fisico – non identificato, ma che sembrerebbe essere realmente presente nel mondo studentesco?
Qualche dato, ma in Svizzera non ne abbiamo per il «burnout accademico»
A oggi, queste sembrano essere domande che sia sul fronte medico che su quello psicologico rimangono ancora poco affrontate, nonostante diversi studi, come quello svolto dal McKinsey Health Institute, mettano in evidenza come a essere particolarmente colpiti da questa condizione siano i cosiddetti Millenial e la Gen Z.
Tralasciando il cambiamento di mentalità che contraddistingue queste generazioni per quanto riguarda la cultura del lavoro – e che statisticamente si trasforma in un pesante 50% di giovani dipendenti colpiti da questo disturbo e in un 80% pronto a lasciare la propria professione in caso di «ambiente di lavoro tossico» –, la sintesi dell’Incontro Intercantonale Latino del 25 aprile 2023 mette in luce come oltre ai giovani lavoratori, anche il 15-20% degli studenti liceali è affetto da questo disturbo.
Vale dunque lo stesso anche per i giovani accademici? Studi condotti all’estero sembrerebbero rispondere affermativamente. Citiamo ad esempio la ricerca pubblicata dal National Institute of Health nel maggio 2023 a proposito del «burnout accademico» tra gli studenti universitari cinesi e quello pubblicato su Nature nel gennaio 2024 rispetto alle conseguenze nell’aumento di questo disturbo in seguito alla pandemia da Covid-19. Tuttavia, a nostra conoscenza, come swissinfo metteva già in evidenza nel 2020, malgrado una maggior apertura, interesse e azione preventiva negli atenei, esiste una lacuna di dati in Svizzera in questo senso.
Un impatto più concreto che trascende la «scelta negli studi»?
Benché stress, aspettative e competizione elevate, insieme a basse risorse economiche, siano fattori che contribuiscono all’origine di questa condizione, che colpisce soprattutto i giovani, e sebbene lo «sfinimento emotivo, fisico e mentale» – indicato come conseguenza principale del burnout dalla SECO – influisca profondamente sulla vita degli studenti universitari, il fenomeno continua ad essere trattato in maniera distinta. Isabelle Bès ritiene che la differenza risieda essenzialmente nella scelta che sta dietro allo studio universitario: «Le persone trovano necessariamente un significato nei loro studi, perché li hanno scelti e la perdita di significato è un fattore chiave nell’insorgenza del burnout». Un’affermazione che andrebbe ridimensionata? Ad ogni modo, a prescindere dalla definizione, l’esaurimento sembrerebbe essere una problematica reale nel mondo accademico – benché ancora difficilmente misurabile.
Una diagnosi difficile
Per chi però si trova all’interno di questo vortice vizioso – che è per lo meno simile al burnout –, spesso non è così evidente rendersene conto. Il professor Craig Jackson, psicologo della salute sul lavoro presso la Birmingham City University, afferma a questo proposito che spesso a riconoscere questo fenomeno sono coloro che sono vicini a chi lo sta, anche inconsciamente, affrontando: «sono i coinquilini o i genitori a dire ‘ultimamente sei nervoso’ o ‘sei irascibile’ – spiega il professor Jackson –. Ascoltate le persone che vi dicono che sembrate avere un problema. Se siete irritabili o non riuscite a dormire perché vi preoccupate del vostro lavoro, questi sono chiari segni che il burnout è alle porte».
Ma il problema nell’identificazione del proprio stato potrebbe essere anche un altro. Come detto, il burnout ha delle conseguenze somatiche evidenti, in particolare per quanto riguarda spossatezza e mancanza di energie, aspetti sui quali la persona in questo stato potrebbe essere tentata di soffermarsi, tralasciando l’aspetto mentale ed emotivo, e visitando dunque un medico di base.
Recarsi presso uno studio di psicoterapia è quindi ancora una questione di stigma sociale? Susanne Landers, medico esperta – fra l’altro – in burnout, ritiene di sì e questo non senza conseguenze. Essere in grado di rivolgersi al giusto specialista potrebbe infatti velocizzare il processo di riconoscimento della propria condizione e l’atteggiamento da adottare per affrontarla. Per di più, avere maggior materiale statistico a disposizione riguardante il «burnout accademico» permetterebbe un’azione più mirata e precisa rispetto alla prevenzione e all’identificazione di questo disturbo che – ricordiamolo – seppur non ufficialmente definito, rimane un tema di ricerca reale.