«Il cappellano dell'esercito non è più il predicatore di una volta»
La scorsa settimana è stato annunciato un notevole cambiamento all'interno dell'esercito svizzero. Un cambiamento che potrebbe essere identificato come un «necessario passo avanti», su cui si lavorava già da anni. L'assistenza spirituale dell'esercito è stata allargata ad altre religioni. Da ora in poi, dopo un'istruzione di tre settimane, anche i rappresentanti ebrei e musulmani potranno venire accettati come cappellani dell'esercito. La loro figura sarà a disposizione dei membri delle forze armate anche in caso di necessità, per fornire sostegno. Attualmente, secondo Samuel Schmid, capo dell'Assistenza spirituale dell'esercito, in Svizzera si contano 171 cappellani – il cui background è cattolico o protestante – impegnati nel settore militare, i quali prestano volontariamente almeno dieci giorni di servizio all'anno. Grazie alla cooperazione con altre comunità religiose, è stato raggiunto un partenariato con la Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) e la Federazione delle organizzazioni islamiche svizzere (FOIS). In questo momento e per la prima volta, tre rappresentanti non cristiani (su un totale di 29) stanno prendendo parte all'attuale corso, con l'obiettivo di ricevere, in futuro, il grado di capitano. Alla luce di questa importante novità, con il teologo e professore Markus Krienke ci siamo interrogati sul ruolo del cappellano nell'esercito, nonché sul rapporto che intercorre tra fede, religione e pace, con l'esercito e la guerra.


«Il cappellano non è più il predicatore di una volta»
Niente più missioni nell'esercito e non solo celebrazioni della messa. Il ruolo e la funzione del cappellano militare, all'interno dell'esercito, sono cambiati. «Certamente il cappellano non è più il predicatore di una volta» esordisce il nostro interlocutore. «L'espressione del cambiamento di questa immagine è proprio l'apertura interconfessionale ed interreligiosa di questa funzione, oltre che la disponibilità di tutti i cappellani anche per i soldati aconfessionali. Con la sua assistenza spirituale e psicologica, il cappellano offre aiuto ai soldati e alle loro famiglie. Secondo il regolamento di servizio, ciò viene definito un diritto di ogni soldato, nonché un punto di riferimento neutro e indipendente rispetto alla gerarchia di comando. L'intervento del cappellano è sempre più richiesto in situazioni personali ed esistenziali difficili. Per chi lo ritiene necessario, è un vero e proprio punto di riferimento». In particolare, poi, per un soldato credente. «Le questioni di vita e di morte sono questioni religiose. Per un soldato può quindi essere importante trovare un nesso tra il suo servizio militare e la dimensione religiosa, anche nella sua ritualità». Per sottolineare l'importanza di questo tipo di pastorale, i cappellani militari sono quindi organizzati come una diocesi personale dell'esercito stesso. «In molti Paesi sono diretti da un vescovo, mentre in Svizzera sottostanno al capo Assistenza spirituale».


Un passo importante
Il cambiamento nell'esercito, tuttavia, è avvenuto. E con la nuova possibilità di assistenza militare per ebrei e musulmani, non ci si può non domandare se si tratti di un passo necessario, «finalmente» compiuto, che sarebbe però dovuto arrivare molto prima. In realtà, il professor Krienke ci spiega che le origini del cambiamento risalgono al 2013, anno in cui sono state ammesse altre confessioni cristiane, oltre a quella riformata e cattolica. «In generale, questa novità è segno dell'importanza invariata di questo servizio, anche in una società - e quindi in un esercito - secolarizzata e multireligiosa allo stesso tempo. In Germania il fatto che non esistano cappellani musulmani, a causa della mancanza di un'organizzazione centrale islamica, viene molto criticato, proprio nella prospettiva dei diritti dei soldati e della lotta ai fondamentalismi». Per l'importanza dell'accompagnamento spirituale e religioso dei soldati credenti, infatti, quest'estensione dell'assistenza è un passo importante. «Pensiamo anche solo alle sfide di organizzare - oltre alle funzioni specifiche - le preghiere interreligiose o i pasti comuni, e di rispettare le festività e le tradizioni religiose, diverse in un esercito. In tal senso, la pluralità religiosa dei cappellani darà un contributo importante alla coesione e all'unità dell'esercito, nonostante le differenze religiose». In conclusione, il ruolo dei cappellani sarà simile, nonostante una differenza nella concretizzazione della loro funzione, a seconda della loro religione o confessione. «È anche per questo che la loro formazione è comune», sottolinea il professor Krienke.


Pace giusta e guerra giusta
Un alto quesito, in questa faccenda, sorge però spontaneo. Come si può accostare il cristianesimo - fatto di pace - con l'essenza dell'esperienza militare? «Mentre la Bibbia non contiene affermazioni sull'inconciliabilità tra la fede e il servizio militare, il primo cristianesimo rifiutò un impegno militare dei cristiani, sebbene tra i soldati romani – specialmente dopo il 2. secolo – si siano sempre trovati anche dei cristiani». Questo accadde perché, a detta del nostro intervistato, il cristianesimo non si è mai identificato con il pacifismo tout court, sebbene conosca il rifiuto della violenza. «È sufficiente pensare al fatto che, accanto all'alto valore dei martirio, non è mai stata rifiutata la legittima difesa». Successivamente, con Costantino e il riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale, i cristiani cominciarono ad assumere anche responsabilità pubbliche, tra cui spiccava proprio il servizio militare. «In particolare, Sant'Agostino elaborò la dottrina della guerra giusta. Sicuramente non servì a legittimare la guerra, ma piuttosto a limitarla». Eppure, la storia del cristianesimo non è mai stata priva di queste «legittimazioni». «Per questo motivo, è importante che le Chiese preferiscano parlare di pace giusta, al posto di guerra giusta. Papa Francesco, dal canto suo, definisce ogni guerra come "fallimento della politica e dell'umanità", sebbene in questo modo non si esprima certamente l'utopia di un'umanità senza eserciti».


Senza la guerra non ci sarebbe la pace
In un ambiente come quello dell'esercito, dove si lotta per la pace, fa capolino la fede. Eppure, anche in questa battaglia, si rimane comunque «in guerra». «Proprio perché per la pace bisogna lottare, la guerra non è mai - purtroppo - esclusa dalle vicende umane. Per contrastarla, un uso legittimo della violenza – che in sé resta sempre un male – deve esistere». Ed è in questo contesto che torna in discussione il concetto di pace giusta e l'insistenza delle Chiese cristiane, anche solo per aiutare un soldato a intravedere il fine e il senso del suo servizio. «Anche oltre questa prospettiva di speranza per la lotta, il soldato si trova, con tutta la sua esistenza, di fronte all'esperienza di poter uccidere e morire. Ed è proprio a causa della loro radicalità esistenziale che queste domande, per un credente, non possono trovare una risposta al di fuori della fede». Non solo. La fede nell'ambito dell'esercito contribuisce a stabilire la consapevolezza di un'etica in un conflitto militare, nonché a un «sano senso critico del soldato», nei confronti dell'uso della violenza.


Il Papa a Kiev? «Non più che un simbolo»
In ultimo, abbiamo chiesto al teologo quale sia la sua opinione in merito alla presa di posizione della Chiesa cattolica nei confronti della guerra in Ucraina, in particolare per quanto riguarda la posizione della Chiesa ortodossa, con il patriarca Kirill. «Credo che la Chiesa stia svolgendo un lavoro diplomatico importante, cercando di agire proprio laddove la politica internazionale si arena. Papa Francesco vuole andare a Mosca per convincere Putin a fermare la guerra. Chi parla di mossa incomprensibile, o addirittura anti-ucraina, dimentica che il Papa ha parlato con Zelensky, ha visitato l'ambasciata russa, ma non intraprende nessun dialogo con Putin. Inoltre, ha chiamato Kirill "chierico di Stato". Da parte mia, preferisco identificare la posizione ortodossa con i 430 sacerdoti che hanno dichiarato Kirill eretico, e non con quest'ultimo. Più che altro perché, con questa affermazione da leader religioso, legittima una guerra d'attacco. Se si accusa il Papa di giustificare indirettamente Putin, perché mette in conto l'abbaiare della NATO alla porta della Russia, o perché il Venerdì Santo ha fatto portare la croce da una donna ucraina e da una russa, non si comprendono le logiche della diplomazia vaticana e delle sue reali possibilità». Queste ultime, ricorda Markus Krienke, sono infatti molto più che «solo simboliche». Dopotutto, il «Papa a Kiev non sarebbe più che un - certamente potente - simbolo». Ma pur sempre solo un simbolo.