L'intervista

«La Generazione Z esigente sì, ma certamente non pigra»

L’agenzia lucernese ZEAM aiuta imprese come Raiffeisen e Ikea a capire come pensano e vivono i giovani, nuovi indispensabili talenti

Si dice siano degli scansafatiche, che vivano soprattutto nel mondo virtuale e che dal futuro non si aspettino molto. Parliamo della Generazione Z (i nati fra la seconda metà degli anni ’90 e il 2012). Yaël Meier (22 anni) e Jo Dietrich (25) sono i fondatori dell’agenzia di consulenza e marketing ZEAM. Già inseriti nella lista «Forbes 30 under 30», spiegano ad aziende come Ikea o Raiffeisen come conquistare i giovani, soprattutto come forza lavoro. 

Si dice che la Generazione Z sia esigente e pigra. Voi come rispondete?  
JD:
«Esigente di sicuro. Perché conosce il suo valore. È da poco sul mercato del lavoro, ma ha già capito di essere ricercata. Pigra? No. In uno studio del 2021 concluso assieme all’istituto di ricerca di mercato Link, abbiamo chiesto a 4.000 persone cosa abbia sensatezza sul lavoro. A dipendenza dell’età degli intervistati, le risposte sono risultate molto diverse. La Gen Z mette il focus sulla produttività e sul successo; l’opposto di quanto farebbero dei pigri. Il concetto di pigrizia nasce dal significato che si dà al termine «produttività». Un tempo, chi voleva fare carriera doveva arrivare per primo in ufficio e andarsene per ultimo. Per i giovani, produttività non equivale a presenza, ma a efficienza».  

Un altro cliché dipinge i giovani come impiegati spesso in malattia e che non si fanno troppi problemi a chiedere un sabbatico. È così?  
YM: «I giovani sono sotto pressione. Da un lato a causa dei social e del costante paragone con gli altri. Dall’altro perché sono sempre stati testimoni di crisi: quella finanziaria, quella climatica, quella sanitaria, quella energetica. Al contempo la Gen Z si rende anche conto che se non si sta bene non si può essere produttivi. E allora meglio prendersi una pausa e tornare al lavoro con le batterie cariche. I giovani oggi sono più in contatto con le loro sensazioni e i loro sentimenti».  

Descrivete la vostra generazione come una dalla grande autostima, e al contempo come quella che si confronta tutto il tempo con gli altri. Non è un paradosso?
JD:
«Il paragone in rete è un’arma a doppio taglio. Da un lato ci si compara con il resto nel pianeta, e non più solo con i vicini di casa o i compagni di classe; il raffronto è quindi tosto. Ma il paragone può anche essere fonte d’ispirazione. Vedi un coetaneo dall’altra parte del mondo che sta avendo successo e scatta il principio di Pippi Calzelunghe: non l’ho mai fatto prima e quindi penso di poterlo fare (anche io). Il confronto sui social può togliere autostima come pure darne».  

L’autostima non ha nulla a che vedere con l’ottimismo. Il 70% dei giovani pensa di avere i numeri per arrivare a una posizione dirigenziale

Ma quindi i membri dell’«iGen» sono ottimisti? Dal barometro della gioventù di Credit Suisse (di settembre) emerge che guardate senza speranza al futuro e che aspettate solo la prossima crisi.
YM:
«L’autostima non ha nulla a che vedere con l’ottimismo. Il 70% dei giovani pensa di avere i numeri per arrivare a una posizione dirigenziale, indipendentemente dalla sua formazione. La Gen Z è ottimista per quanto riguarda la carriera, ma non guardando al futuro del mondo».   

Voi la posizione dirigenziale l’avete ottenuta. Come è iniziata la storia di ZEAM?
JD:
«L’abbiamo fondata nel 2020 dopo aver fatto una constatazione: molte aziende propongono prodotti e pubblicità chiaramente indirizzati a persone fra i 15 e i 25 anni d’età, ma senza successo. Ma come è possibile - ci siamo chiesti - che aziende spendano tanti soldi per campagne che non funzionano?».
YM: «Abbiamo quindi indagato, e abbiamo capito che nei team incaricati di occuparsi dello sviluppo dei prodotti e del marketing, è molto raro trovare degli under 30. Così ci siamo proposti come consulenti. Le richieste sono state subito molte. E ben presto, dalla consulenza siamo passati anche alla comunicazione. Soprattutto su TikTok e LinkedIn. Oggi impieghiamo 27 persone, fra i 16 e i 26 anni d’età».  

Qual è il problema più ricorrente fra le aziende che si rivolgono a voi?  
YM:
«Inizialmente pensavamo di offrire in primis servizi di marketing. Ma fin dal principio la metà delle richieste riguardavano le risorse umane. Dapprima, le aziende volevano sapere come ricevere candidature migliori. Oggi ci chiedono come riceverne. Trovare talenti è difficile. Da una parte a causa dell’evoluzione demografica. Molti lavoratori vanno in pensione e i giovani sul mercato diminuiscono. Le imprese, è chiaro, devono attivarsi per trovare nuove leve. Mentre nel marketing si è già capito da tempo che i giovani non si raggiungono più tramite canali classici come la stampa o la TV, gli uffici del personale lo stanno scoprendo ora. I membri della Gen Z sono infatti solo da poco potenziali candidati».   

La più grande svolta nei prossimi anni riguarderà i social. Attualmente chi si occupa di acquisire talenti non li sta sfruttando molto

E cosa bisogna fare per acquisire giovani talenti? 
YM:
«Prima di tutto bisogna capire che in un mercato in cui mancano nuove leve, sono le aziende che devono candidarsi. E per farlo devono farsi trovare là dove si trovano i giovani. Usare un linguaggio che piaccia loro, proporsi sulle loro piattaforme oppure conoscere le loro passioni. Ad esempio sponsorizzando tornei di eSports. Ma la più grande svolta nei prossimi anni riguarderà i social. Attualmente chi si occupa di acquisire talenti non li sta sfruttando molto. E chi lo fa, spesso soffre di dilettantismo. Si copiano le inserzioni così come le si pubblicherebbero su un portale di offerte di lavoro e le si incollano in TikTok».  

Un vostro studio dimostra che la Generazione Z non si sente presa sul serio al lavoro.  
YM:
«Un giovane su tre nutre questo sentimento. E il 72% è dell’idea che il trattamento ricevuto sia solo dovuto alla sua età. Un membro su quattro della Gen Z si sente discriminato per la sua età. Questo nuoce alla motivazione sul lavoro. Per evitare ciò bisogna lasciar prendere decisioni ai giovani, lasciare loro delle responsabilità».  

Anche altri gruppi si sentono discriminati: le donne e i più anziani, ad esempio. Per loro i giovani possono essere dura concorrenza. 
JD:
«Quello che facciamo per i giovani trae ispirazione dalla lotta a favore delle donne. Al momento si fa molto per averle nei vertici aziendali. Cosa molto importante. Ma lo è anche includere i giovani. Nel caso delle donne è fondamentale che anche gli uomini siano per le pari opportunità. Allo stesso modo, nel caso dei giovani, è essenziale che anche i lavoratori più anziani siano per una maggiore inclusione di chi ha meno anni di loro. Vogliamo dimostrare che dare spazio ai giovani non sia solo giusto, ma anche meglio per l’azienda, che può così comunicare meglio con questo target, ad esempio».    

In un’intervista avete affermato che più dell’equilibrio fra vita privata e lavorativa, per i giovani è importante una miscela delle due cose. Potete spiegarvi? 
JD:
«Si dice sempre che vogliamo separare nettamente la vita privata da quella lavorativa. Per i genitori di molti, l’uniforme da lavoro e quello in casa erano decisamente diversi. Il linguaggio usato al lavoro era un altro di quello usato in privato. Si aveva una multipla personalità. Noi giovani vogliamo essere noi stessi in ogni ambito. Questo per quanto concerne la personalità. Per quanto riguarda il lavoro invece vogliamo sì dei limiti chiari. Una volta finito il mio lavoro, anche se non sono ancora arrivato alle mie 8,5 ore, stacco. Sono stato produttivo e fino a domani non sono più raggiungibile».  

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