Il ricordo

La tragedia del volo Swissair 111, venticinque anni fa

Il 2 settembre del 1998 un MD-11 diretto a Ginevra precipitò nell'Atlantico a Peggy's Cove, non lontano da Halifax – Morirono 229 persone fra passeggeri ed equipaggio – Riviviamo quei giorni terribili con l'allora portavoce della compagnia di bandiera elvetica Jean-Claude Donzel
© CHRISTOPH RUCKSTUHL
Marcello Pelizzari
02.09.2023 06:00

Jean-Claude Donzel, sulle prime, stentò a crederci. Fu sua moglie a rispondere al telefono. E, subito dopo, a svegliarlo. «Erano le quattro e mezza del mattino», ricorda oggi l’allora portavoce di Swissair. «Dall’altra parte dell’apparecchio, la collega di picchetto mi spiegò che avevamo appena perso un aereo».

L’aereo, quell’aereo, era il volo Swissair 111 in servizio fra New York e Ginevra, precipitato a Peggy’s Cove, non lontano da Halifax, portandosi appresso 215 passeggeri e 14 membri dell’equipaggio. L’impatto con l’Atlantico avvenne alle 22.31, ora locale, del 2 settembre 1998. Venticinque anni fa, quando in Svizzera stava cominciando un nuovo giorno. «Da Bülach, dove vivevo, partii subito per Zurigo», prosegue il nostro interlocutore. «Dovevo arrivare in ufficio al più presto. Quando aprii la porta, ricordo come fosse ieri il suono dei telefoni: continuavano a squillare. Nel frattempo, mi ero già fatto un’idea del dramma. Nel prepararmi, a casa, avevo acceso la radio e la televisione. I media avevano dato la notizia: Swissair ha perso un aereo non lontano da Halifax, in Canada. Il fatto è che, lì per lì, non avevamo ancora la certezza di quale volo fosse. Da New York, la sera del 2 settembre, erano partiti due nostri aerei uno dopo l’altro. Uno con destinazione Ginevra, l’altro con destinazione Zurigo. Ma nei dintorni di Halifax, a quell’ora, avevamo anche un Los Angeles-Zurigo».

La situazione a Ginevra

Con il passare dei minuti, il quadro si fece più chiaro. A schiantarsi era stato l’MD-11 – un trimotore che, all’epoca, rappresentava il fiore all’occhiello della flotta a lungo raggio di Swissair – diretto a Ginevra. Non restava che comunicarlo ai media e, parallelamente, alle famiglie delle vittime. Ancora Donzel: «Assegnai vari compiti alla squadra. C’erano quelli deputati a rispondere al telefono, quelli che dovevano preparare la documentazione per la conferenza stampa e via discorrendo».

Infine, su ordine della responsabile della comunicazione in seno a Swissair, Donzel salì sul primo volo disponibile per Ginevra. Bisognava, appunto, informare. I media e i parenti delle vittime, che vagavano nello scalo senza una meta e senza risposte. «Con me venne pure il direttore delle finanze, visto che fra gli alti dirigenti era a memoria il solo di lingua madre francese. Ad accompagnarci, pure un team di specialisti. Chiamati a fornire l’assistenza necessaria alle famiglie».

Donzel, nel ripercorrere quei momenti, fatica quasi a parlare. L’emozione, a distanza di anni, è ancora forte. Anzi, fortissima. «Ricordo come fosse ieri lo sbarco a Ginevra. Ad accoglierci c’erano il direttore dell’aeroporto, Jean-Pierre Jobin, e il consigliere di Stato ginevrino Carlo Lamprecht. Mi presero subito sottobraccio e mi portarono nella sala conferenze. Non credevo che, entrando, avrei trovato tutte quelle telecamere e tutti quei microfoni. Solo dopo, a mente fredda, capii il perché: i più grandi network mondiali hanno una base a Ginevra, visto che c’è l’ONU. Fu facile per loro organizzarsi immediatamente e seguire la conferenza».

Una fase delle ricerche. © KEYSTONE
Una fase delle ricerche. © KEYSTONE

La preparazione e la realtà

Donzel, uomo di mestiere, sapeva esattamente che cosa dire. Si era allenato a lungo per situazioni del genere. «Ma bisognava soppesare al massimo le parole», spiega. «Non dovevamo scusarci, ad esempio, visto che le scuse avrebbero avuto pure una valenza legale. Una sorta di assunzione di responsabilità. Dovevamo, però, mostrare la giusta empatia e vicinanza. Far capire e trasmettere che anche noi stavamo soffrendo, anzi: eravamo proprio devastati. Il tutto mantenendo la giusta professionalità, dicendo al mondo che sì, Swissair aveva appena perso un aereo ma stava reagendo nel modo corretto».

Furono, manco a dirlo, ore, giorni e poi mesi terribili per il vettore e per chi, quotidianamente, dava anima e corpo per far funzionare la compagnia. «Fisicamente e mentalmente fu un periodo complicato, è vero», ammette Donzel. «Ma come Swissair fummo pronti, sin dai primissimi momenti. Sia a livello di comunicazione sia in termini di cooperazione con la commissione di inchiesta. E anche, va da sé, nell’assistere le famiglie. A Swissair premeva soprattutto non fornire soltanto dati tecnici». Già, il tipo di aereo, il numero e la nazionalità dei passeggeri, le comunicazioni della cabina, il fumo a bordo, l’incendio, la perdita dei contatti. Bisognava, insomma, mostrare pure cuore. E comprensione.

Quel crollo improvviso

Certo, il danno reputazionale fu enorme. «Eravamo conosciuti, mondialmente, come una compagnia seria, affidabile, precisa, puntuale. Venivamo anche premiati per la meticolosità dei nostri controlli e per le nostre capacità di manutenzione. In un attimo, con quell’incidente, tutto venne spazzato via. Per tacere del fatto che, anche noi, avevamo perso qualcuno: amici, colleghi, persone con cui lavoravamo spesso. Ognuno di noi aveva una conoscenza a bordo».

Donzel, come tutti, entrò in una sorta di tunnel dopo il dramma. Uscendone cambiato. E distrutto, sotto tutti i punti di vista. «All’inizio, i primi tre-quattro giorni, lavorai come un robot. Mi dissi che non avrei dovuto incrociare i parenti delle vittime, perché sapevo che non avrei retto. Lavorai, lavorai, lavorai. Fornendo continui aggiornamenti nei vari appuntamenti con la stampa. Mi scappò una lacrima soltanto durante un collegamento con Good Morning America. La domenica, l’incidente avvenne che da noi in Svizzera era già giovedì, ricordo che all’aeroporto venne organizzato un debriefing. Un momento per sfogarsi, insomma. Decisi di non andarci, fra me e me ripetevo che tanto non mi sarebbe servito. Stavo bene, pensavo. E invece, tornando a Meyrin, dove stavo quando lavoravo a Ginevra, sentii il bisogno di accostare e fermare la macchina. Fu lì che cominciai a piangere a dirotto. Avevo raggiunto il punto di rottura. Ero stanco, anzi esausto».

La compagnia iniziò a lamentare pesanti perdite finanziarie. Cambiarono molti volti fra i dirigenti. Tutti, uno dopo l’altro, abbandonarono la nave tant’è che alla fine c’era solo Mario Corti, l’ultimo amministratore delegato della compagnia, a tentare di salvare il salvabile
Jean-Claude Donzel, ex portavoce di Swissair

L'inizio della fine? Snì

Detto della gestione, immediata, della crisi, Swissair si occupò per anni dell’incidente. Il rapporto finale dell’inchiesta, addirittura, fu pubblicato cinque anni più tardi, quando la compagnia era già sparita complice il grounding. L’ipotesi è che l’incidente sarebbe stato provocato da un corto circuito dei cavi elettrici posti sopra la cabina di pilotaggio. A scatenare l’inferno, con un incendio che rese ingovernabile l’aereo, il fatto che il materiale isolante dell’aereo fosse altamente infiammabile.

«Come comunicazione – prosegue Donzel – il lavoro fu intenso per mesi e mesi. Prendemmo addirittura possesso della sala del Consiglio di amministrazione, a Zurigo, per avere lo spazio necessario. A complicare le cose c’era pure il fuso orario: fra noi e il Nordamerica c’erano diverse ore di differenza».

Secondo i più, la tragedia di Halifax fu l’inizio della fine per Swissair. Che di lì a poco, tre anni, avrebbe conosciuto una fine ingloriosa. «Non la vedo così, a essere sincero», risponde Donzel. «I problemi successivi furono in un certo senso slegati dall’incidente. La compagnia iniziò a lamentare pesanti perdite finanziarie. Cambiarono molti volti fra i dirigenti. Tutti, uno dopo l’altro, abbandonarono la nave tant’è che alla fine c’era solo Mario Corti, l’ultimo amministratore delegato della compagnia, a tentare di salvare il salvabile. Non dimenticherò mai quei mesi. Ogni richiesta da parte dei media circa la situazione finanziaria della compagnia veniva reindirizzata a una società di consulenza. Io stesso avevo le mani legate, non potevo dire quasi nulla ai giornalisti. Stavo seriamente pensando di mollare tutto. Gli attentati dell’Undici settembre, tornando al quadro generale, fecero precipitare definitivamente le cose in seno a Swissair. Furono un acceleratore pazzesco che ci spinse al grounding».

Le quattro crisi di Donzel

Donzel, da oltre dieci anni, è un pensionato felice. Nel ricordare il passato dice di non avere rimpianti. «Ho vissuto quattro crisi», spiega. «La prima, quando nella seconda metà degli anni Novanta Swissair decise di ridimensionare quasi totalmente i voli a lungo raggio su Ginevra. La seconda, quando quell’MD-11 si schiantò. La terza, quando la compagnia cessò di esistere. La quarta, ma oramai ero portavoce di Swiss, quando un vulcano islandese decise di eruttare mandando in tilt il traffico europeo. Una crisi tecnica, una umana, una finanziaria e una, diciamo, naturale».

Al netto delle crisi, non mancarono altri momenti di difficoltà. «I primi anni di Swiss, ad esempio, erano una cosa incredibile. Ricevevamo solo brutte notizie. Tagli al personale, riduzioni della flotta e delle destinazioni. Le cose, finalmente, cambiarono con l’avvento di Lufthansa. Ricordo quando ricevemmo un nuovo aereo, un A330. Era il primo dopo tantissimo tempo. Mi inventai uno slogan: growing together. Proprio per segnalare ai passeggeri che stavamo tornando a crescere. Se penso che nel 2001 ricevetti la lettera di licenziamento e che, con Swiss, riuscii ad avere una seconda vita, posso affermare serenamente di aver avuto una bella carriera come portavoce. Ma quei giorni del 1998, a cominciare dalla chiamata della mia collega alle quattro e mezza di mattina, furono emotivamente pesanti. Lo sono ancora oggi».

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