Le regole del voto tra diritto e politica
Finora ci sono state solo schermaglie ma il tema farà aspramente discutere quando un domani si tratterà di votare sul nuovo pacchetto di accordi con l’UE. Infatti, oltre che sui contenuti dell’eventuale intesa con Bruxelles, a Berna bisognerà decidere anche le regole del gioco alle urne. In concreto, il Parlamento dovrà stabilire se sottoporre il «contratto» al referendum obbligatorio, che richiede la doppia maggioranza di popolo e Cantoni, o al referendum facoltativo, che prevede solo la maggioranza popolare. È una questione fondamentale, perché l’altezza dell’ostacolo può incidere eccome sul risultato finale. Ad esempio, i Bilaterali 1 (67% di sì nel 2000) e l’accordo di associazione a Schengen/Dublino (56% di sì nel 2005) vennero sottoposti a referendum facoltativo, mentre per lo Spazio economico europeo (respinto nel 1992) le Camere decisero di applicare la doppia maggioranza, a causa delle implicazioni costituzionali connesse con l’assoggettamento della Svizzera alla Corte dell’AELS. Il verdetto fu senza appello a livello di Cantoni (16 contrari compresi quattro semicantoni) ma molto risicato sul piano popolare, con una maggioranza contraria del 50,3% (il no del Ticino spostò gli equilibri). Il primo risultato bastava per far cadere tutto, ma il secondo dimostrava che a livello di cittadinanza il confronto era molto più aperto. Per questo, al di là delle questioni giuridico-costituzionali, il dilemma è destinato a ripresentarsi e a spaccare la politica più di quanto essa già non lo sia sulla questione europea. Chi è per i cosiddetti Bilaterali 3 tenderà a sostenere il referendum facoltativo, nella speranza che i numerosi abitanti delle città siano più propensi ad accettarli rispetto a quelli delle campagne; mentre chi è contrario, preferirà quello obbligatorio, contando sulla (presunta) refrattarietà dei Cantoni medio-piccoli a questo tipo di accordi.
Giuridicamente siamo nel campo dell’opinabile perché non c’è una lettura univoca. Secondo la Costituzione, sottostà a referendum obbligatorio l’adesione a organizzazioni di sicurezza collettiva (ad esempio la NATO) o a comunità sovranazionali (Unione europea). In passato, oltre allo SEE, solo in altre due occasioni ci fu un referendum obbligatorio su un trattato internazionale: nel 1920, sull’adesione alla Società delle Nazioni; e nel 1972, sull’Accordo di libero scambio con l’allora Comunità economica europea. A rigor di legge, questi passi non erano obbligatori. Per questo si era parlato di referendum sui generis, deciso in virtù di un diritto costituzionale non scritto. In vista del prossimo voto popolare, il Consiglio federale ha incaricato l’Ufficio federale di giustizia di chiarire la questione. I giuristi della Confederazione sono giunti alla conclusione che non c’è alcuna base costituzionale per ammettere questo tipo di scelta volontaria e assoggettare anche i Bilaterali 3 al referendum obbligatorio. Gli esempi del passato non basterebbero per avallare una soluzione del genere, ammissibile solo quando in gioco ci sono aspetti centrali della Costituzione. Il Consiglio federale, tuttavia, non ha voluto prendere questa perizia come oro colato e si è riservato la facoltà di fare una proposta su come procedere quando sottoporrà al Parlamento il messaggio sul pacchetto negoziato. L’opzione del referendum obbligatorio, quindi, resta aperta.
Nel campo degli addetti ai lavori le opinioni sono contrastanti. Ci sono insigni giuristi che, anche alla luce di decisioni recenti del popolo e del Parlamento sui trattati internazionali, escludono la legalità del cosiddetto referendum sui generis e vedono nella doppia maggioranza una vera e propria forzatura. E ce ne sono altri, per contro, che affermano l’esatto contrario, perché l’intesa con Bruxelles (fra ruolo della Corte europea di giustizia e ripresa del diritto) avrebbe implicazioni per la democrazia diretta e la sovranità. C’è poi chi mette in dubbio la facoltà stessa del Parlamento di dichiarare un referendum obbligatorio e chi, invece, sostiene che nessuno può impedire alle Camere di fare questo passo. D’altronde, in Svizzera non esiste una Corte costituzionale che può dichiarare l’incostituzionalità delle decisioni dell’autorità politica federale. Per questo, alla fine il tutto si ridurrà a una questione meramente politica e quindi di rapporti di forza. Il diritto diventerà solo una variabile del discorso da piegare alle rispettive convenienze. Sorgono, comunque, due domande. Nell’ipotesi di un referendum facoltativo, si darebbe un segnale utile alla causa dei nuovi accordi? E perché dovrebbe bastare la maggioranza popolare quando, su temi meno importanti (come l’iniziativa per mucche con le corna), si richiede anche quella dei Cantoni?