Lo zoo della crisi e gli animali strani: cigni, elefanti e meduse nere
C’è crisi, già. Peggio, viviamo mesi complicati perché, a ben vedere, si è creata quella che molti hanno definito tempesta perfetta: la coda pandemica e i problemi legati alla catena di approvvigionamento da un lato, la guerra in Ucraina e la questione energetica dall’altro. Per capirne di più, al netto delle raccomandazioni del Consiglio federale, fra cui l’oramai celebre doccia in due, ci siamo rivolti a Patrick Trancu, consulente di gestione e comunicazione di crisi.
Partiamo
dall’attualità e da una notizia tanto curiosa quanto inquietante: nel Regno
Unito, in caso di blackout, i
dipendenti pubblici torneranno a utilizzare la carta carbone per garantire il
funzionamento della macchina statale. Che cosa ci suggerisce una notizia
del genere?
«È dal 2021 che, con cadenza quadrimestrale, il governo di sua maestà ha
avviato degli stress test sulla “macchina dello Stato” per assicurare “un
livello di risk management e di preparazione appropriati” a fronte del
verificarsi di eventi critici. Nel caso della carta carbone lo scenario è
quello di ripetute e prolungate interruzioni nelle forniture di energia
elettrica. Qui sono al lavoro due importanti dinamiche della preparazione alla
gestione di crisi. La prima è l’interrogarsi sugli scenari con una logica what
if. Cosa facciamo se siamo chiamati a confrontarci con una determinata
situazione, quali sono le potenziali conseguenze della stessa e come possiamo
mitigarle? È la logica dell’anticipazione in tempo di pace. La seconda è quella
dell’esercitazione. Attraverso l’esercitazione, infatti, ci assicuriamo che le
persone e le funzioni coinvolte sappiano come affrontare la situazione e quali
strumenti usare. In questo caso, in Gran Bretagna, per le comunicazioni
interministeriali e interdipartimentali si è pensato di tornare alla logica del
ciclostile. E ci si esercita in questo senso perché questo significa anche
liberare la mente per concentrarla in tempo di crisi su quello che in quel
momento è realmente importante».
I governi, in genere,
prevedono piani di emergenza per rispondere a una crisi. Quanto è possibile,
però, prevederne una? E in che modo si può ragionare in anticipo sulla crisi?
«Il problema è esattamente questo. Si confonde l’emergenza con la crisi e si
pensa di poter affrontare quest’ultima con gli strumenti dell’emergenza
definendo ex-ante dei piani. La crisi, tuttavia, inizia proprio dove il piano
finisce. Anche se le crisi come i terremoti sono difficilmente prevedibili,
molto spesso vi sono segnali deboli che possono essere colti se si è
organizzati e pronti a farlo. Vediamo un esempio pratico. Da alcuni giorni la
cronaca del nostro Cantone è focalizzata sulla vicenda del direttore di una
scuola media del Luganese accusato di atti sessuali con minorenni. I segnali, a
quanto possiamo leggere, c’erano eppure nessuno li ha colti o li ha voluti
cogliere. E la negazione da parte delle autorità cantonali che vi fossero stati
dei precedenti è l’ennesimo esempio di una pessima gestione della comunicazione
che non può non incidere sulla credibilità delle istituzioni. Saper cogliere i
segnali deboli significa essere in grado di anticipare. Per fare questo bisogna
avere una rete di sensori ed essere disponibili all’“ascolto”. In un’ottica
aziendale o dello Stato questo significa dedicare tempo e risorse alla
costituzione di strutture permanenti di “previsione strategica” e alla loro
integrazione all’interno dell’organizzazione e dei suoi processi decisionali.
Gli esempi non mancano: da Singapore ai Paesi Bassi».
L’Europa ha avuto
«bisogno» di una guerra nel giardino di casa, in Ucraina, per comprendere
quando fosse pericoloso e, diciamo, incestuoso rifornirsi di energia fossile
dalla Russia. Perché, banalmente, poco o nulla è stato fatto in tutti questi anni
per evitare una simile dipendenza, e quindi, ora, una ricerca spasmodica e
caotica di fonti alternative, quasi sempre fossili?
«Lo zoo della crisi si caratterizza per la presenza di animali strani: cigni,
elefanti e meduse nere. In questo caso credo che i fattori in gioco siano stati
diversi. Innanzitutto, eravamo da tempo in presenza di un elefante nero: un
rischio raro ma significativo che tutti conoscono ma che nessuno è disposto a
discutere. Questo a causa di bias cognitivi, di deliberate scelte politiche o
per scaramanzia. Il rischio della dipendenza era evidente; eppure, abbiamo
convissuto con lo stesso finché il rischio si è trasformato in crisi. Torniamo
qui al tema della capacità di ascoltare, leggere i segnali deboli e anticipare
potenziali pericoli. La Svizzera, come molti altri Paesi, non ha strutture
permanenti di previsione strategica in grado di anticipare e costruire una
visione d’insieme dei diversi fenomeni che aleggiano all’orizzonte. Questo è un
tema che deve essere urgentemente affrontato così come quello
dell’organizzazione della gestione di crisi ancora ancorata a logiche del ventesimo
secolo».
La pandemia, i
problemi legati alla catena di approvvigionamento e non da ultimo la guerra e
la crisi energetica stanno mettendo quantomeno a dura prova il concetto di
globalizzazione, tant’è che si parla di «riportare a casa» alcune linee di produzione
o, ancora, di portarle in Paesi dove l’energia ha ancora (ma per quanto?)
prezzi abbordabili. Che ne sarà dei modelli cui eravamo abituati fino all’altro
ieri?
«Le crisi rappresentano momenti di rottura rispetto alla normalità. Si tratta
di situazioni che da un lato rappresentano un rischio esistenziale ma che se
sapientemente gestite ci offrono anche l’opportunità di riprendere il cammino
più forti e in direzioni diverse rispetto al periodo precedente. I modelli che
ci hanno assicurato stabilità e benessere sono oggi chiaramente in discussione
e modelli nuovi e diversi dovranno necessariamente emergere. La sfida per
tutti, cittadini inclusi, è quella di riuscire a comprenderli e a adattarsi
rapidamente consapevoli che le cose non saranno più come prima».
Nel ventunesimo
secolo siamo saltati da una crisi all’altra, fino ad arrivare a una sorta di
imbottigliamento che assomiglia alla tempesta perfetta: coda pandemica, crisi
climatica e guerra, con tutte le conseguenze su materie prime ed energia. Come
si fa in questi casi a stabilire una gerarchia?
«Viviamo in un mondo complesso dove le crisi non solo sono diventate sistemiche
a causa della fragilità, dell’interconnessione e dell’interdipendenza delle
nostre società ma si susseguono in maniera estremamente rapida e dinamica fino
a incrociarsi. Potremmo argomentare che l’incontro tra la crisi pandemica, la
guerra in Ucraina e la crisi climatica che stiamo vivendo oggi, con le rispettive
ramificazioni, effetti domino e sovrapposizioni, ci avvicina sempre più al
famoso cigno nero di cui spesso sentiamo parlare. In questo scenario di estrema
complessità e instabilità siamo chiamati a governare eventi le cui implicazioni
comprendiamo con difficoltà e che danno vita a contesti a noi sconosciuti nei
quali ci mancano punti di riferimento. Siamo di fatto chiamati a navigare
universi sconosciuti senza GPS. Stabilire una razionale gerarchia di intervento
è pressoché impossibile, ma resta il fatto ineludibile che più tempo si aspetta
nel prendere decisioni (anche impopolari) meno efficaci saranno e più alto sarà
il loro costo».
Finora abbiamo
affrontato di striscio il discorso politico: i governi, detto brutalmente,
stanno agendo in un mondo nuovo ma con schemi e tempistiche non più al passo
con i tempi? Quali figure dovrebbero prevalere in questo senso?
«Non vi è dubbio che siamo chiamati ad agire in un mondo nuovo caratterizzato
da dinamiche complesse che non siamo sempre in grado di comprendere e le cui
conseguenze spesso ci sfuggono. Il problema è che si continua a ragionare
utilizzando cassette degli attrezzi sviluppate in un’altra era per altre
tipologie di crisi. Il risultato è l’incapacità da parte di chi governa di
entrare in una logica di anticipazione rispetto alle crisi che di volta in
volta si presentano. Un esempio concreto. Il ministro dell’economia Guy
Parmelin ha dichiarato ieri che il Consiglio federale sta lavorando alla
creazione di una cellula di crisi interdipartimentale per gestire la crisi
energetica. Due buone notizie: da un lato si è deciso di costituirne una e
dall’altro che si è superata la logica dei silos dipartimentali che ha
negativamente contraddistinto la gestione della crisi pandemica. Ma la cattiva
notizia è che la decisione giunge in nettissimo ritardo rispetto allo scenario.
La cellula di crisi avrebbe infatti dovuto essere costituta all’indomani
dell’invasione dell’Ucraina. Si opera quindi in una logica di rincorsa anziché
di anticipazione preoccupandosi oggi di correre dietro ai buoi da tempo
scappati dalla stalla. In sintesi, nella gestione delle crisi sistemiche del ventunesimo
secolo, per definizione complesse, non basta prendere la decisione giusta.
Bisogna anche prenderla al momento giusto».