«Non vogliamo fare concessioni interne su temi senza alcun nesso con i bilaterali»

Martedì a Berna Fabio Regazzi sarà rieletto per altri due anni alla presidenza dell’Unione svizzera arti e mestieri (USAM), la più grande organizzazione mantello dell’economia in rappresentanza di oltre 600 mila piccole e medie imprese. Un’occasione per un bilancio dei primi quattro anni al vertice dell’organizzazione e per parlare dei problemi aperti, dai negoziati con l’UE alla tutela del mercato del lavoro, al canone radiotelevisivo.
Dal COVID,
che ha caratterizzato l’inizio del suo mandato, ai problemi interni per la
nomina del nuovo direttore, che ha segnato l’ultimo anno. Qual è il bilancio
del suo quadriennio?
«È stato un
periodo molto intenso, iniziato in piena pandemia con le misure restrittive
decise dalla Confederazione, che toccavano da vicino anche il settore
produttivo, e proseguito con i contraccolpi della guerra in Ucraina, come i
problemi energetici e i rincari. Come vertice dell’associazione mantello più
grande del Paese (ndr l’USAM rappresenta più di mezzo milione di imprese e le
associazioni economiche cantonali) siamo stati messi molto sotto pressione. Ma
è stato anche un lavoro entusiasmante. Dal profilo personale il bilancio è
positivo».
Per la prima
volta l’USAM, che ha una forte impronta svizzero-tedesca è presieduta da un
ticinese. Ha incontrato difficoltà?
«Non sono il
primo presidente latino. Va ricordato che il mio predecessore era un friburghese,
Jean-François Rime, il primo francofono a presiedere l’associazione sempre
guidata in 150 anni da svizzero-tedeschi. All’inizio ho percepito una certa
diffidenza, che però è stata superata. Il modo con cui ho affrontato la crisi
interna per la nota questione della direzione ha contribuito a far sì che venga
riconosciuto a tutti gli effetti come presidente».
Il caso
Henrique Schneider, l’allora vicedirettore designato direttore e poi costretto
a lasciare prima di entrare in carica per le accuse di plagio, ha lasciato
scorie?
«La mia
priorità era di salvaguardare l’immagine dell’associazione. Non ci potevamo
permettere di avere come direttore una figura così discussa. Il bene principale
dell’associazione è la credibilità. Comunque, non ci siamo certo basati sulle
speculazioni giornalistiche, abbiamo fatto verificare le accuse tramite un
mandato esterno e agito di conseguenza. C’è chi ha voluto delegittimare il
comitato chiedendo la revoca della decisione da parte del «parlamento» interno.
La nostra linea è poi stata avallata a larga maggioranza. È stato un periodo
difficile, non lo nego, ma ora la questione è alle spalle e guardiamo avanti
con fiducia. Il 1. maggio inizierà il nuovo direttore Urs Furrer».
A Bruxelles
sono in corso i negoziati per un nuovo accordo con l’UE. Qual è la posizione dell’USAM?
La Svizzera va bene e sta meglio dell’Unione, è davvero così fondamentale avere
un’altra intesa?
«L’approccio
a pacchetto del Consiglio federale è una buona soluzione ed è sicuramente
impostato meglio del precedente fallito accordo quadro. Non abbiamo
preclusioni. Il 40% delle piccole e medie imprese è orientata all’export. Una
quota importante dei nostri membri ha interesse a una soluzione duratura. Ma
restano ancora punti critici. Una volta terminati i lavori faremo una
valutazione complessiva. Sull’importanza economica non ho dubbi. L’UE è il
nostro principale partner e gli accordi attuali si stanno erodendo. In diversi
ambiti andrebbero aggiornati. Siamo aperti a compromessi, ma non siamo
d’accordo con i sindacati che stanno sfruttando l’occasione per conseguire
obiettivi interni che esulano dal trattato con Bruxelles, come i salari minimi
nazionali e le condizioni per dichiarare obbligatori i contratti collettivi di
lavoro».
Che cos’è
più importante per voi? Mantenere la flessibilità del mercato del lavoro o un
accordo con l’UE?
«Vogliamo
mantenere l’attuale livello di protezione del mercato del lavoro ma non
intendiamo fare concessioni interne senza alcun nesso con gli accordi
bilaterali. I sindacati cercano di sfruttare la loro posizione di forza per portare
avanti rivendicazioni di lunga data. Al momento, quindi, dico no. Ovviamente,
dovremo fare una ponderazione una volta pronto l’accordo fra Berna e Bruxelles.
Ne discuteremo al nostro interno, dove convivono sensibilità diverse. Sarà un
processo abbastanza complicato. Senza dimenticare che alla fine ci sarà
comunque una decisione popolare».


Perché le
richieste dell’USS vanno troppo lontano?
«Le regole
sulla protezione del mercato del lavoro sono sufficienti e adeguate. Il mercato
del lavoro flessibile è uno dei punti di forza della nostra economia. Non c’è
necessità di cambiare. La questione dei salari minimi va affrontata in
un’ottica federalistica. Quanto ai CCL deve rimanere la contrattazione dei
partner sociali. Legare gli accordi con Bruxelles a rivendicazioni sindacali
interne è scorretto e strumentale».
Come giudica
il fatto che l’USS si sia ritirata dal tavolo di lavoro?
«Lo trovo
deludente. L’USS è sempre stata coinvolta. Ora sbatte la porta e se ne va con
argomenti a mio avviso pretestuosi. È una prova di forza che denota una certa
arroganza».
Il suo omologo di Economiesuisse Christoph Mäder ha
fatto dichiarazioni critiche sull’immigrazione e ha auspicato che l’UE faccia
concessioni alla Svizzera. Lei condivide l’idea di una clausola di
salvaguardia?
«Il tema
deve essere affrontato. Il problema esiste ed è ovvio che la Svizzera, grazie
agli alti stipendi e al benessere che garantisce, è un Paese molto attrattivo
per gli abitanti della zona UE. Una clausola di salvaguardia a tutela del
nostro Paese potrebbe indubbiamente contribuire ad aumentare il grado di
accettazione di questi accordi quando ci sarà la votazione popolare. Sarà
tuttavia difficile che ci venga riconosciuta questa eccezione ma bisogna per lo
meno provarci, anche perché gli argomenti li abbiamo.
In settembre
si voterà sul secondo pilastro. Qual è la posizione dell’USAM ora che per
finanziare la 13. AVS si prospetta già un aumento del costo del lavoro?
«Sosteniamo
la riforma, seppur a denti stretti. In fin dei conti ci sono più vantaggi che
svantaggi. D’altra parte, il costo della manovra è il prezzo da pagare per dare
risposte in termini di previdenza ai bassi salari, in particolare alle donne
impiegate a tempo parziale, che finora sono la categoria più penalizzata. Certo
che se si continuerà ad aggiungere prelievi sui salari, la situazione diventerà
critica, specie nei settori più deboli. Al nostro interno c’è già chi, alla
luce della recente decisione popolare sull’AVS, ha chiesto di rivedere la presa
di posizione sulla previdenza professionale».
Perché il
mondo economico fa così fatica a far passare le sue posizioni a livello
popolare?
«I tempi
sono molto cambiati da quando le associazioni economiche esprimevano un
preavviso e le urne rispondevano di conseguenza. Far passare i nostri messaggi
è sempre più difficile. La sinistra è molto abile a livello comunicativo, sicuramente
più di noi. Si pensi alla 13. AVS. Solo qualche anno fa non avrebbe avuto la
benché minima chance. Certo, ha beneficiato di fattori contingenti che noi non
potevamo influenzare, come l’inflazione che ha ridotto il potere di acquisto
della popolazione e in particolare del ceto-medio. Paradossalmente, la sinistra
ha anche più mezzi finanziari di noi. Non è il fattore decisivo, ma aiuta. Non
ho ancora una risposta su come invertire la tendenza. Ma il problema c’è e va affrontato».


Il mondo
dell’imprenditoria paga le divisioni interne?
«Ci sono
state, ma la situazione è molto migliorata. In proposito, posso rivendicare il
merito di avervi contribuito. Quando ho assunto la presidenza, i rapporti fra
USAM e Economiesuisse, ma anche con l’Unione Svizzera degli imprenditori erano
pessimi. Basti ricordare i dissidi personali emersi in occasione della campagna
di voto sulla responsabilità delle imprese. Per me era inaccettabile. Poi sono
stati fatti progressi. È stato creato anche il gruppo di interessi "Perspektive
Schweiz", che raggruppa le tre associazioni mantello dell’economia anche l’Unione
conta. C’è la consapevolezza di serrare le file. È inevitabile che esistano
divergenze. L’obiettivo non è di mettere d’accordo tutti. Ma nell’80% dei casi
abbiamo posizioni comuni. In altri ambiti, come ad esempio nel caso dei dazi
industriali, vi erano delle divergenze ma siamo riusciti a trovare un compromesso.
Ci sono e saranno invece temi sui quali non riusciremo a trovare un accordo. Bisogna
semplicemente farsene una ragione e accettarlo, ma questo non mette in
discussione la validità della nostra alleanza».
Come valuta
la proposta del consigliere nazionale del PLR Simon Michel, anch’egli
imprenditore, di aumentare provvisoriamente di 1 punto percentuale
l’imposizione delle persone giuridiche per finanziare le spese militari?
«Di
principio siamo contrari agli aggravi fiscali sulle aziende. Se del caso
consulteremo la nostra base, ma non credo che questo genere di proposta possa
ottenere consensi fra i nostri associati».
L’altro giorno la Commissione della politica di
sicurezza, di cui fa parte, ha proposto un contributo straordinario per
finanziare l’esercito senza sottostare ai vincoli del freno all’indebitamento.
Lei è d’accordo?
«Purtroppo,
non ho potuto essere presente a questa seduta. Ammetto di essere rimasto
sorpreso da questa decisione. Personalmente sono molto scettico ma prima di
esprimermi definitivamente voglio analizzare bene la proposta e confrontarmi
con i colleghi del mio partito che l’hanno sostenuta».
Questione
canone. Che cosa farà l’USAM? Continuerà a sostenere l’iniziativa sui 200
franchi o prenderà in considerazione anche la proposta del Governo di 300
franchi?
«L’iniziativa
sui 200 franchi prevede l’esenzione delle aziende dal pagamento del canone, un
obbligo che riteniamo iniquo e ingiustificato. La mia iniziativa sull’esenzione
per le PMI è stata respinta dal Parlamento. Se fosse stata accolta come USAM ci
saremmo ritirati dalla futura campagna sui 200 franchi. Quanto alla proposta di
compromesso del Consigliere federale Rösti abbiamo già espresso la nostra
contrarietà, visto che si limita ad aumentare la soglia di esenzione in base
alla cifra d’affari. È un’operazione di cosmesi che non modifica la sostanza
delle cose. La palla è ora nel campo del Governo e del Parlamento. La nostra
posizione è chiara: se non sarà tolto il canone almeno per le PMI sosterremo
l’iniziativa».