Scambio automatico, ci sono troppe zone d’ombra

LUGANO - Lo scambio automatico d’informazioni a livello fiscale con le amministrazioni dei Paesi di residenza dei clienti è avviato, ma dubbi e problemi restano, anche per le richieste amministrative, come è stato indicato nel convegno promosso ieri dalla SUPSI a Manno. Fra i temi controversi il principio di sussidiarietà, cioè l’esigenza per il Paese estero di espletare tutte le ricerche prima di rivolgersi alla Svizzera, la rilevanza della domanda e la buona fede dell’autorità richiedente.
Thierry De Mitri, esperto fiscale losannese, ha citato il caso di una nota attrice francese, residente a Londra ma con marito e figli, oltre che con un’intensa attività di shopping a Parigi, che ha regolato le sue pendenze fiscali, anche riguardo agli averi detenuti in Svizzera. Non paga di ciò l’amministrazione fiscale francese ha chiesto informazioni ed approfondimenti alla Svizzera e, dopo vari ricorsi, il Tribunale federale (TF) ha accolto la richiesta, anche se sussidiarietà e buona fede erano discutibili. Il caso non è isolato, ha sostenuto De Mitri, citando «decisioni strane da parte del TF, interpretazioni troppo ampie e favorevoli agli Stati esteri, con opinioni sovente divergenti rispetto a quelle del Tribunale amministrativo federale (TAF)».
Altro tema caldo quello delle richieste raggruppate, relative a dati «che diventano sempre più sensibili non solo per i contribuenti ma anche per le banche e per i loro consulenti», ha affermato Giovanni Molo, avvocato dello Studio Bolla Bonzanigo e Associati di Lugano. Ha ricordato i casi di dati sottratti, anche illegalmente, e finiti poi in vari Paesi, fra cui l’Italia, che già è in possesso di quelli rinvenute presso il Credit Suisse di Milano, oltre a quelli frutto delle voluntary disclosure. Ma ora Roma sta avviando una nuova strategia, come indicano i questionari inviati a vari istituti luganesi, di cui peraltro non è ancora nota la natura ed il contenuto. L’obiettivo non è quello di ottenere assistenza amministrativa, ma di fare delle banche svizzere dei veri e propri soggetti fiscali italiani, puntando agli affari svolti, alle masse raccolte ed ai ricavi conseguiti.
«L’iniziativa può rappresentare un cavallo di Troia» aggiunge Molo «per sostenere ipotesi di riciclaggio e di abusivismo».
Come possono rispondere le nostre banche?
«Il primo criterio - ha affermato Molo - sarebbe quello della lesione della sovranità di fronte ad atti d’imperio di provenienza estera, ma è debole e di difficile applicazione, oltre al fatto che non conosciamo come sono formulati i questionari. Il secondo principio di cui la banca può avvalersi è il divieto di autoincriminazione di fronte a possibili reati penali. Rimane però il fatto che oggi non c’è protezione per i collaboratori degli istituti».
In margine al convegno abbiamo approfondito il tema di attualità con Molo. «Nell’ottica italiana - dice - si pongono tre tipi di problemi, per le banche ed i loro consulenti: uno di natura squisitamente tributaria legata alla presunta stabile organizzazione; il secondo, sull’esempio di quanto avvenuto ad esempio fra Svizzera e Stati Uniti, è il rischio per l’istituto di vedersi coinvolto in questioni penali per la sua partecipazione a reati fiscali dei clienti; il terzo è quello relativo alla regolamentazione del mercato finanziario, cioè all’aver operato senza autorizzazione. Dal punto di vista svizzero una richiesta ufficiale verso un istituto per dati su terze parti può risultare problematica, vista anche l’elusione dei normali canali di cooperazione. Tuttavia ci sono dei precedenti, come le vicende fra USA e Svizzera, riguardo a UBS e non solo, in cui l’America si è sempre mossa al di fuori delle vie ordinarie».