«Tangentopoli non è servita a cambiare in meglio l’Italia»

Dottor Davigo, lei parla di Mani Pulite come di una “occasione mancata”. Perché?
«Dall’indagine emerse un quadro sconfortante, oltre a una corruzione spaventosa che riguardava tantissime persone: molte di queste ricevevano tangenti di scarso ammontare, alcuni invece intascavano bustarelle enormi. Inoltre, i bilanci delle imprese erano falsi, poiché le mazzette non erano certo registrate nei conti. Ho parlato di occasione mancata perché quanto accaduto avrebbe potuto far sì che diventassimo simili ai Paesi cui diciamo sempre di voler somigliare. Non ci siamo riusciti».
Lei ha scritto che lo spaccato emerso dall’indagine era sconosciuto. Ma in Italia di corruzione si era sempre parlato.
«Io per primo mi meravigliai: non tanto dell’esistenza della corruzione, fenomeno non solo italiano, quanto per la sua diffusione ed estensione. Nessuno poteva seriamente immaginare, ad esempio, che nell’àmbito della costruzione della linea 3 della metropolitana milanese le imprese consorziate versassero denaro a un politico il quale divideva poi le tangenti ai partiti di maggioranza e opposizione. Il sistema era collaudato da anni; era pervasivo e radicato. Un altro indagato ci raccontò che per alcuni appalti si pagavano tutti: dal ministro giù giù fino ai commessi. C’è un aneddoto che bene fa capire di che cosa sto parlando. A un certo punto, durante un interrogatorio, un imprenditore ci svelò che i corrotti lo avevano pregato di non portare più i soldi dentro le valigette: nonostante ne avessero regalate decine e decine a parenti e amici, ne avevano ancora due stanze piene, e non sapevano cosa farne».
Gli imprenditori si difesero dicendo di essere costretti a pagare per lavorare.
«Non è così. Le tangenti erano un sistema, e le aziende predisponevano i fondi in nero prima di entrare in contatto con il pubblico ufficiale corrotto».
È per questo che lei scrive nel libro che l’Italia non ha un’etica condivisa e che è abissale la distanza tra «i valori predicati e i comportamenti praticati»?
«La mia è una constatazione, dovremmo forse semplicemente capire perché ciò avviene. Tra l’altro, credo che la situazione sia peggiorata negli anni. Adesso, sempre più spesso quando qualcuno è scoperto con le mani nel sacco non soltanto non prova vergogna, ma sostiene addirittura di essere nel giusto. Quando Umberto Bossi utilizzò i soldi dei contributi pubblici per comprare la laurea al figlio in Albania disse: “I soldi sono nostri e ne facciamo ciò che vogliamo”. Ma quei soldi erano dei cittadini, non della Lega».


Lei sostiene che il mondo politico vuole tuttora “regolare i conti” con la magistratura. Che cosa intende?
«La politica vuole spezzare l’equilibrio dei poteri. In Italia è del tutto chiaro il tentativo di mettere le mani sul pubblico ministero attraverso la separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, sancita nella Costituzione. Poi c’è il capitolo dell’approvazione di leggi dissennate. Pensiamo alla prescrizione: ovunque si interrompe con il processo e inizia quando si viene a conoscenza del reato, non dal momento in cui questo è commesso. La ministra Cartabia ha proposto l’improcedibilità del giudizio qualora la sentenza di appello non sia pronunciata entro due anni dal primo grado. Con i tempi della giustizia italiana equivarrebbe a prescrivere tutto, una gigantesca amnistia».
Torniamo al 1992. Che cos’era allora la Svizzera per i magistrati che indagavano sulle tangenti?
«Venivamo da un’esperienza storica in cui era difficile collaborare, anche a causa di regole molto diverse. Faccio un esempio: il concetto di misura cautelare, per noi, presupponeva un’azione coercitiva, un sequestro, una confisca. Nel diritto svizzero era considerata tale anche la semplice testimonianza. I tempi delle rogatorie erano sempre molto lunghi, anche per le possibili opposizioni dei destinatari dei provvedimenti. Tuttavia, la collaborazione ci fu sempre, qualche volta al di là delle nostre stesse aspettative e nonostante qualcuno facesse di tutto per impedirla».
A che cosa si riferisce?
«A un certo punto, fu siglato un accordo di assistenza giudiziaria reciproca. Un testo prezioso, che snelliva e autorizzava procedure rapide, ad esempio nello scambio di informazioni. In sede di ratifica, però, il nostro Parlamento approvò una legge che fece arrabbiare giustamente gli svizzeri: l’Italia pretendeva che i documenti ufficiali provenienti da autorità estere fossero “autenticati”. Una pratica incomprensibile. Mettiamoci nei panni della polizia cantonale chiamata a inviare un proprio fascicolo al PM italiano: che cosa avrebbe dovuto fare per “autenticare” quelle carte? Fortunatamente, la Cassazione fece prevalere la prassi consolidata, di fatto quella legge non venne mai applicata».
Per scavalcare il muro del segreto bancario, però, non mancarono episodi molto “curiosi”, per così dire.
«Quando il procuratore pubblico convocava le persone per sentirle in base alle nostre richieste di rogatoria, quasi sempre era presentata opposizione e il procedimento si arenava in attesa delle decisioni del Tribunale. I tempi diventavano lunghissimi, nonostante la Svizzera avesse comunque migliorato l’assistenza giudiziaria. Una volta, durante il pedinamento del presidente dell’ufficio del GIP di Roma, Renato Squillante, gli ufficiali di polizia si ritrovarono su un treno diretto a Zurigo. Dopo aver tentato di rintracciare al telefono Carla Del Ponte, dovetti ordinare a malincuore agli agenti di scendere a Chiasso. Ma la volta successiva ottenni in via preventiva l’autorizzazione a continuare il pedinamento oltrefrontiera, e così scoprimmo in quale banca Squillante teneva i suoi soldi. Era uno sportello della SBT di Bellinzona».


Non fu comunque facile risalire ai conti correnti.
«No, tutt’altro. Il direttore della filiale, durante la rogatoria, si rifiutò di rispondere e oppose il segreto bancario. Qualche mese dopo, tuttavia, lo stesso direttore decise di andare al mare in Sardegna. In Italia le registrazioni negli hotel sono trasmesse alle questure e una mattina venni informato della presenza del funzionario sul nostro territorio. Mandammo la Guardia costiera a prelevarlo. Di fronte a Gherardo Colombo, che lo interrogava, tentò di far valere nuovamente il segreto bancario, ma fu arrestato in flagranza di reato per rifiuto di informazioni al pubblico ministero. Il giorno successivo, raggiunto dal suo difensore, rivelò l’esistenza di un conto intestato a una società panamense, la Rowena, su cui Squillante aveva la procura a operare e sul quale erano depositati quasi 9 miliardi di lire. Scoprimmo dopo che l’avvocato lo aveva consigliato caldamente di non fare le vacanze in Italia».
Dopo 30 anni le “passioni” si sono spente? È possibile parlare di quanto accaduto in modo razionale, non emotivo?
«Non credo che queste passioni si siano spente. In Italia circola la leggenda del transito dalla prima alla seconda Repubblica. Ma gli elementi di continuità, rispetto al passato, sono maggiori e più numerosi di quelli discontinui. I partiti continuano a essere associazioni non riconosciute e quindi prive di vincoli particolari. Anche nel mondo delle imprese non credo che la trasparenza sia migliorata: i dati Istat parlano di 12 milioni di evasori fiscali, numeri impensabili. Siamo sempre immersi nella prima Repubblica».
Che fine ha fatto l’enorme sostegno popolare alla magistratura che caratterizzò gli inizi di Mani pulite?
«Credo che sia venuto meno per assuefazione. Lo sconcerto iniziale è via via scemato, anche per alcune campagne di disinformazione, e alla lunga è scattato come sempre lo spirito di fazione. Purtroppo, l’Italia non è pervasa da un senso profondo dell’unità, così come invece hanno altre nazioni. Anche se nessuno lo sa, dato che ne cantiamo soltanto una strofa, siamo l’unico Paese al mondo che nell’inno nazionale parla male di sé stesso: “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Tornando al sostegno dell’opinione pubblica, fu comunque molto importante: aiutò le indagini perché ci tenne per un po’ al riparo dalla politica».
Una lunga inchiesta iniziata negli uffici della «Baggina»
Il primo arresto
Lunedì 17 febbraio 1992: il pubblico ministero Antonio Di Pietro ottiene dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, Italo Ghitti, un ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio (storica istituzione che i milanesi chiamano da sempre “Baggina”) ed esponente di primo piano del Partito Socialista. Chiesa era stato colto in flagranza di reato mentre intascava una tangente dall’imprenditore monzese Luca Magni: 7 milioni di lire. È rimasto nella storia il tentativo compiuto dallo stesso Chiesa di liberarsi di un’altra tangente incassata in precedenza (37 milioni) buttando le banconote nel water.
I numeri
Secondo i dati ufficiali, nell’inchiesta «Mani Pulite» furono 4.520 le persone indagate per le quali non fu chiesta l’archiviazione. Per 3.200 di queste fu chiesto il rinvio a giudizio. L’ufficio del GIP rinviò a processo 1.322 imputati. Alla fine le condanne , furono 611. Altre 620 persone furono condannate con rito abbreviato nell’udienza preliminare.